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Ahasverus

Post n°31 pubblicato il 06 Dicembre 2013 da viensur
Foto di viensur

…poteva essere un giorno qualunque, di un qualunque autunno, uno di quei giorni uggiosi, nuvolosi umidi, senza storia, noiosi, inutili; non piove ma non c’è il sole; non fa freddo però, ormai, il caldo dell’estate è un ricordo che sembra lontano. Era così, quel giorno. Ed io? Io ero a lavorare, come al solito: facevo, o almeno ci provavo, quello per cui avevo così entusiasticamente studiato. “Certo: quanto è diversa la realtà” mi ripetevo quel giorno, un giorno che non avrei mai potuto dimenticare. Fu cosi che verso le 4 del pomeriggio mi arrivo una telefonata:”preparati e vieni in sede di corsa; si parte. In Armenia c’è stato l’inferno”. In macchina, mentre andavo a casa per impacchettare le mie cose e salutare una moglie allibita, ascoltavo i notiziari che parlavano di quello che appariva come un terremoto disastroso. Poi, avrei conosciuto la verità: l’epicentro del sisma valutato del 6,9 grado della scala Richter fu a 40 chilometri a nord-est della città di Leninake e colpì alle 11.41 del mattino. Durò complessivamente meno di un minuto e quattro minuti più tardi, si verificò una seconda scossa di magnitudo 5,8. In un raggio di 45 Km dall’epicentro, tutti gli edifici di più di due piani si sbriciolarono, schiacciando o seppellendo sotto le macerie chiunque vi si trovasse all’interno. Dai calcoli che, come gruppo di Protezione Civile riuscimmo faticosamente ad eseguire in loco, oltre 15.000 persone rimasero ferite, ma gli ospedali che si occupavano di loro non avevano antibiotici a sufficienza e così a migliaia morirono nel giro di qualche giorno per banali infezioni che avrebbero potuto essere curate senza alcun problema in condizioni normali. Ma non basta: molte strutture mediche andarono distrutte, uccidendo circa l’80% del personale sanitario. Alla fine di questa tragedia, si sarebbero contate 28.854 vittime certe ed un numero imprecisato di scomparsi; ma conteggi posteriori avrebbero fatto aumentare la cifra fino ad oltre 55.000 morti. Era il 7 dicembre del 1988; io avevo 25 anni ed ebbi la ventura di esserci. L’esperienza che ne derivò mi segnò per sempre la vita. Soltanto chi ha vissuto uno strazio del genere può capire che cosa è la vera sofferenza. Non potrò mai dimenticare i corpi martoriati messi in fila e lasciati lì, sul selciato, perché il terreno era gelato e non si potevano seppellire; i pianti, le urla di disperazione, i volti assenti dei pochi adulti sopravvissuti e quelli traumatizzati per sempre dei bambini. I miei compagni ed io aiutammo le persone del posto per tutto quello che potevamo e sapevamo fare e continuammo così per settimane, fino allo sfinimento interiore, fino al momento in cui cominciammo ad avvertire dei gravi sintomi di stress. Oggi, questa, gli esperti di Psicologia delle emergenze la definiscono come la “sindrome del soccorritore” (critical incident stress syndrome); allora, nessuno sapeva di cosa si potesse trattare e noi rimanemmo soli con la nostra sofferenza. Eravamo stati comandati a Garni, in quello che rimaneva di un villaggio neppure troppo distante dalla capitale Yerevan. Per alleviare la mia pena feci l’unica cosa che per me aveva senso, a quel tempo come oggi: pregavo. Di solito, nel tardo pomeriggio, quando cominciava ad imbrunire e non era più possibile fare qualcosa per mancanza di elettricità, mi ritiravo da solo vicino ad un antico tempietto romano rimasto incredibilmente in piedi, vestigia di un passato ormai lontano che ricordava il tempo in cui le stesse radici culturali si estendevano dal mar Mediterraneo alle contrade più sperdute dell’Asia. E fu lì che una volta incontrai uno strano personaggio. Come tutti, era purtroppo vestito praticamente di stracci. Era magrissimo, macilento, emaciato, sporco e fuggiva il mio aiuto. Quando alla fine, dopo molti sforzi, riuscii ad avere un minimo della sua fiducia mi colpì molto il fatto che rispondeva al mio inglese in un italiano che appariva strano. Lì per lì pensai, credo giustamente, che non sapesse bene la mia lingua. Ma più passavano i giorni e più ero dubbioso. Le sue risposte erano troppo precise e, se non mi fosse apparsa come una cosa ridicola, avrei scommesso che aveva un accento romagnolo! Si tratteneva lì, con me, per tutto il tempo in cui io pregavo per ciò che vedevo intorno, per quella che mi appariva allora come una vita assurda, ingiusta e per la mia anima…Questo avvenne per tutto il tempo in cui mi trattenni in quel posto abbandonato da Dio. La mattina della partenza, al momento del commiato da tutti coloro che avevamo provato in qualche modo ad aiutare, mi si avvicinò e disse in perfetto latino: “ego vado et tu expectabis me donec revertar”. Quella sorta di saluto acculturato mi sembrò un po’ fuori luogo; forse, pensai, fa riferimento al tempietto ed al nostro stare lì…e poi aggiunse in italiano:”come era bella Forlì un tempo”…Molto stanco e sempre più perplesso, contraccambiai con un abbraccio e salii sull’elicottero che ci avrebbe portato in aeroporto per il rientro. Ci misi dei mesi per superare le difficoltà, anche relazionali, che mi si presentarono una volta tornato. Molto tempo dopo, durante un pranzo con degli amici, raccontai questa mia storia ed, in particolare, del siparietto finale con lo sconosciuto; uno di loro, chiaramente colpito dalla narrazione, mi parlò per la prima volta dell’Ebreo errante, di questo leggendario centurione giudeo romano che avrebbe picchiato Gesù lungo la Via Crucis e che, probabilmente, fu lo stesso che lo trafisse in croce con una lancia al costato. Poi, approfondendo con calma la questione, evidenziai molti punti di contatto tra i due. Da allora, mi è sempre rimasta l’incertezza su chi abbia effettivamente incontrato laggiù e di come poteva conoscere la frase che infine mi disse…

 
 
 
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