Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
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Post n°702 pubblicato il 30 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°701 pubblicato il 30 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°700 pubblicato il 30 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°699 pubblicato il 26 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°698 pubblicato il 25 Giugno 2006 da corsaramora
Le riforme più significative gli italiani le hanno fatte con le loro mani, attraverso i referendum. A partire da quello del 2 giugno 1946 con il quale si scelse la forma istituzionale del Paese, nel testa a testa tra monarchia e repubblica. Una casa reale già allora screditata e mediocre condannò l’Italia, che pure doveva la sua unità al ruolo strategico dei Savoia, ad archiviare la tradizione monarchica di fatto identificata con la parabola del ventennio fascista. Quel referendum ebbe effetti di lungo periodo non soltanto nella definizione dell’assetto istituzionale, ma anche per una serie di conseguenze a catena che ne derivarono. Il Paese si divise politicamente in due parti (repubblicani al Nord, monarchici al Sud), e una certa idea di destra, moderata e conservatrice, veniva esclusa dal tavolo delle opzioni democratiche. Dopo il referendum del 1946 in Italia essere moderati significava soltanto barcollare nella zona grigia della nostalgia abbinata alla tentazione eversiva, e fino al crac della Prima Repubblica non ci sarà mai una destra di stampo europeo, legittimata a pieno titolo a competere per il governo del Paese: un’anomalia tuttora non completamente superata. Quando, mezzo secolo più tardi, si è consentito ai Savoia di rientrare in Italia, non pochi storici, anche di sinistra, si sono interrogati sull’onda lunga del referendum del dopoguerra. E si sono chiesti: con la garanzia di una continuità monarchica sarebbe stato più facile chiudere l’infinita transizione degli anni 90? L’Italia con un re (non certo Emanuele di Savoia...), forse, avrebbe seguito lo stesso percorso della Spagna, uscita con rapidità ed efficacia dal franchismo anche grazie al ruolo di garanzia svolto dalla famiglia dei Borbone. Anche il referendum sul divorzio, maggio 1974, chiude una stagione e sancisce un’importante innovazione nella vita sociale del Paese. Il nostro ’68 è stato una rappresentazione, piuttosto farsesca, dei grandi movimenti studenteschi che hanno infiammato l’America e la Francia: in quei paesi si regolavano i conti con la storia, in Italia una minoranza di figli borghesi voleva liquidare i genitori al potere. L’unico punto sul quale il ’68 italiano seguì l’onda internazionale fu quello del cambiamento del costume e la legge del divorzio, approvata nel 1970 e seguita da quella sull’aborto, in qualche modo istituzionalizzava le conquiste della protesta nelle università e nelle fabbriche. Con il referendum, nel quale Amintore Fanfani, all’epoca dominus della Dc, fu lasciato solo anche dai suoi compagni di partito, la Democrazia cristiana fece l’amara scoperta di avere perso l’egemonia culturale e politica sugli italiani. Non era più maggioranza. L’asse con la Chiesa, l’architrave della decisiva vittoria del 1948, si era sfarinato, e una forma di secolarizzazione era entrata nel Dna del Paese dove ha sede il Vaticano. La crisi della Dc, arrivata poi a compimento con la strage di via Fani e l’uccisione di Aldo Moro, era cominciata con il referendum sul divorzio. Proprio come la parabola di Bettino Craxi che si aprì e si chiuse con due delle 53 consultazioni referendarie di questi ultimi trent’anni. Giugno 1985: il partito comunista e la Cgil raccolgono le firme per abrogare il taglio dei punti di scala mobile voluto, con coraggio e con lungimiranza, dal governo Craxi. Quando però si va alla conta dei numeri, la sinistra radicale e conservatrice, che sognava di dare una spallata all’odiato Craxi, si svegliò con una sberla che diede il massimo di popolarità al leader socialista e alla sua politica modernizzatrice. Giugno 1991: su iniziativa del movimento di Mario Segni gli italiani vanno a votare per abrogare le preferenze elettorali e in quella occasione, con una certa arroganza e con uno scarso senso della realtà, Craxi invita tutti «ad andare al mare». Sarà punito nelle urne con un voto che introduce la slavina di Mani pulite e porta diritti al corto circuito della Prima Repubblica. Una seconda spallata al sistema elettorale arriva, sempre attraverso il referendum, con la modifica in senso maggioritario della legge elettorale del Senato (aprile 1993), mentre sei anni più tardi fallisce per una manciata di voti il colpo secco per l’abolizione del sistema proporzionale alla Camera (aprile 1999). Quello che il Parlamento non riesce a fare, naufragando tra commissioni e patti scritti sulla sabbia, lo decidono gli elettori che in qualche modo hanno dato le uniche, vere scosse (compresa l’elezione diretta del sindaco) all’impianto istituzionale fissato nel dopoguerra con la Costituzione bipartisan. C’è da dire, infine, che i risultati dei referendum sono stati spesso interpretati con la sottintesa furbizia italiana di cambiare le carte in tavola al momento opportuno. E il vero padre di questo strumento, Marco Pannella, non farnetica quando ricorda i giudizi popolari calpestati da successivi interventi nelle sedi istituzionali. Così da vent’anni siamo fuori dalla partita per il nucleare, e appena qualcuno si azzarda a dire che bisogna riaprirla, immediatamente si alza il muro del «non si può» perchè è stato deciso da un referendum (novembre 1987). Peccato che lo stesso criterio non si applichi per altri verdetti referendari, puntualmente ignorati dai partiti e in Parlamento: il ministero del Turismo è stato abolito 13 anni fa (referendum dell’aprile 1993), ma fa sempre comodo una poltrona in più da assegnare; come il finanziamento pubblico dei partiti, bocciato dal popolo ma allargato dal Parlamento. Un refendum (giugno 1995) ha salvato le tv di Silvio Berlusconi, mentre nel 2000 nessuno dei sette quesiti abrogativi (dalla separazione delle carriere dei magistrati ai rimborsi elettorali) ha superato la soglia del quorum. Forse gli italiani si sono stancati anche delle poche riforme approvate con il loro voto. |
Post n°697 pubblicato il 25 Giugno 2006 da corsaramora
Poco dopo le 8 (causa calura) sono andata al seggio ad esercitare il mio diritto-dovere di elettore e di Italiano. (magari l'avessi capita) .:-) E poichè ho un titolo di studio che mi assicura almeno la corretta interpretazione della lingua italiana, un cervello ancora funzionante che mi solleva dall'obbligo di obbedire alle logiche di partito nonchè una congenita insofferenza all'omologazione del pensiero unico (di qualsivoglia colore)..mi sono documentato ed ho deciso di testa mia. NO (SI) nell'interesse del mio Paese. COPIATO QUASI UGUALE DA......... |
Post n°696 pubblicato il 24 Giugno 2006 da corsaramora
«Se vinco vado all´Onu». Così tuona il leader della Lega Umberto Bossi, in un´intervista a Libero, per spronare i suoi a tre giorni dal referendum costituzionale. Dopo aver minacciato «vie non democratiche» in caso di sconfitta (salvo precisare che si riferiva a «raccolte di firme e assemblee popolari» che evidentemente non classifica come "democratiche") il senatùr adesso pensa addirittura alle Nazioni Unite: «Il 25 non si scherza – spiega Bossi - La nostra gente questa volta capirà: l'ideale sarebbe vincere in tutta Italia, ma spero almeno in una vittoria schiacciante al Nord, così avremo il diritto di andare all'Onu a rivendicare i nostri diritti e le nostre libertà come popolo». (e' sempre piu' FUORI DI TESTA....non ha ancora capito che l'italia e' una...altro che ONU...IO LO MANDEREI A....raccogliere le mele) |
Post n°694 pubblicato il 24 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°693 pubblicato il 24 Giugno 2006 da corsaramora
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Post n°691 pubblicato il 21 Giugno 2006 da corsaramora
Non ha fatto neanche in tempo a pronunciare l'insulto che i blogger si sono scatenati online dando vita a sonounindegno.com. Berlusconi dà degli indegni agli italiani che voteranno No al referendum. La Rete coglie l'attimo e risponde a tono. Aprendo un blog e, di conseguenza, il dibattito. Il blog ha già qualche commento perché gli internauti sono veloci e hanno voglia di comunicare. C'è chi ironizza: "Per fortuna che c'è Silvio". |
Post n°690 pubblicato il 20 Giugno 2006 da corsaramora
L’indagine di Potenza coincide con l’entrata in vigore dei due penultimi decreti che attuano la riforma Castelli. Coincide con l’inizio di efficacia di una norma che, letta fuori del contesto costituzionale, renderebbe il procuratore capo unico titolare dell’azione penale. La norma prevede anche che solo il capo possa interloquire con la stampa e mai i singoli sostituti. Siamo in presenza, dunque, di un forte corto circuito Da un lato abbiamo un’indagine condotta con mezzi invasivi, quali le intercettazioni con l’immancabile divulgazione mediatica dei verbali, dall’altro una normativa che sembrerebbe d’ora innanzi rendere difficili tutte le iniziative dei sostituti procuratori. Cosicché i detrattori, per partito preso, dell’indagine guardano alle nuove regole con speranza, i sostenitori, anch’essi per partito preso, rimpiangono l’introdotto indebolimento dei poteri dei pm. Credo che proprio la loquace confusione del momento debba indurci a ragionare con la necessaria, per quanto difficile, pacatezza. La Costituzione affida la funzione giurisdizionale ai magistrati ordinari, senza distinguere tra giudici e inquirenti. Dunque il capo dell’ufficio non potrà impedire che il sostituto in presenza di indizi indaghi, e in presenza di elementi che giustificano il dibattimento, chieda il rinvio a giudizio. Il capo della procura è l’unico a poter fare conferenze stampa, questo è certo. Ma la sua non è una comunicazione privata. È pubblica e deve riflettere l’orientamento dei suoi sostituti. Ben altro allora è la tutela della riservatezza delle persone messo in pericolo da una diffusione delle intercettazioni che nulla ha a che vedere con il controllo sociale sulla giurisdizione. L’esperienza della globalizzazione e della forte capacità dei centri finanziari di collegarsi tra loro al di là di ogni barriera statuale e geografica dimostra che i poteri, vecchi e nuovi, soffrono i controlli. In tutti i sistemi democratici la funzione di controllo è in crisi, perché chi dovrebbe assoggettarsi rifiuta di farlo e invoca immancabilmente ragioni di efficienza di mercato e ragioni di libertà individuale, cioè pretese di irresponsabilità. Queste ragioni esistono, ma il problema è bilanciare le esigenze della sicurezza collettiva, che richiedono capacità di indagine effettiva e informazione tempestiva, con quelle che riguardano il diritto del singolo. Credo sia una sciocchezza l’idea di punire chi pubblica. Non solo perché la pericolosità delle pretese di irresponsabilità, tra l’altro difficili da individuare, può essere contrastata solo con una conoscenza contestuale al loro manifestarsi. Ma perché una simile norma non la farebbe nessuno. Men che mai la debolissima politica che abbiamo di fronte. Non credo sia possibile nemmeno immaginare un momento di chiarezza, di apertura a tutti, giornalisti compresi, dei risultati dell’indagine. Questo dovrebbe avvenire già oggi. Mentre il problema è che le pubblicazioni dei verbali, cioè la loro uscita dal segreto di Pulcinella fatto di decine di magistrati, avvocati, poliziotti e impiegati, avviene proprio nella fase di segretezza. Credo si debba ragionare in tema di autoriforma possibile. Credo, senza farmi molte illusioni, al di là delle iniziative legislative che si tenteranno, che avvocati, magistrati e giornalisti debbano riflettere su quanto la loro funzione si stia indebolendo di fronte all’uso strumentale dei diritti di riservatezza. Occorre una presa di coscienza deontologica circa il pericolo che corrono i controlli. Per capire che la realtà del controprocesso fatto il giorno dopo sul giornale, come avveniva negli anni Cinquanta, non è quella dell’indagine parallela o addirittura anticipatrice di quella giudiziaria fatta dal mezzo televisivo. Cosicché l’opinione pubblica non ha il tempo di distinguere il virtuale dal reale, e non ha il dovere di fare studi giuridici prima di vedere un tg per formarsi una determinazione politica. Alla fine, la qualità della nostra democrazia del diritto può essere influenzata in modo decisivo non solo dalla confusione dei nostri linguaggi, ma dall’attesa di una riforma che faccia il miracolo di far processare i ladri dopo un’indagine innocua, elegante ed educata come una tavola rotonda tra giuristi |
Post n°689 pubblicato il 19 Giugno 2006 da corsaramora
Il dilagare delle intercettazioni telefoniche genera mostri linguistici, e una nuova retorica del linguaggio. Cambia le abitudini di una popolazione che, Luciano Moggi insegna, oramai passa la gran parte del suo tempo al telefono. Pagine e pagine di trascrizioni hanno instillato la convinzione che c’è sempre qualcuno che ti ascolta, anche quando la comunicazione è breve e prosaica. Se, per esempio, uno dice «Sto arrivando, butta la pasta», sa che c’è un terzo cui può stimolare l’appetito, o che trasforma alle sue orecchie quel che dovrebbe essere un atto ordinario in un misterioso segnale in codice. panorama |
Post n°688 pubblicato il 17 Giugno 2006 da corsaramora
L’ultima disavventura di Vittorio Emanuele di Savoia ruota attorno a un paio di strane coincidenze. La prima: un Principe di Napoli, nato a Napoli, in carcere per un’inchiesta condotta da un giudice napoletano (nonostante il cognome inglese). La seconda: l’arresto a Varenna, sul lago di Como, che riecheggia per ribalda assonanza l’arresto di Luigi XVI a Varenne. Ma per Victor, come lo chiamano gli amici, questa non è la priVita spericolata di un erede senza trono, unico figlio maschio del Re di Maggio Umberto II. Nasce nella reggia napoletana il 12 febbraio 1937, vive in esilio in una lussuosa villa vicino Ginevra fino al 2002, quando viene abolita la norma costituzionale che obbligava gli eredi maschi dei Savoia a tenersi lontano dall’Italia. Non è mai stato un gran diplomatico, Victor. La sua vita è costellata di dichiarazioni e comportamenti infelici. Solo un paio di esempi: l’intervista televisiva del 1997, in cui rifiutò di scusarsi per la firma di un Savoia sulle leggi razziali perchè «io non ero neanche nato», aggiungendo, come se non bastasse, «ma non erano poi così terribili». E la indecorosa, recente lite a Madrid con il cugino Amedeo di Savoia durante il ricevimento di nozze del principe Felipe con Letizia Ortiz. Con Amedeo c’è stata da sempre una storica rivalità, anche perchè la nobiltà italiana ancora discute su chi sia veramente il Capo di Casa Savoia. L’ex re Umberto, infatti, non ha riconosciuto l’unione tra Vittorio Emanuele e Marina Doria, tant’è che lo ha nominato Principe di Napoli e non di Piemonte, titolo riservato agli eredi al trono. Marina, ex campionessa di nuoto e di tennis, famiglia benestante ma senza sangue blu, dovè subire l’onta di un matrimonio civile a Las Vegas, nel gennaio del ’70, poi bissata dal rito religioso a Teheran, nell’ottobre ’71. Unico figlio della regal coppia il principe Emanuele Filiberto, «bel guaglione» invitato spesso in tv, testimonial di numerose aziende di abbigliamento, criticatissimo per la sponsorizzazione spinta del suo matrimonio romano con Clotilde Courau, attrice francese che gli ha dato già una figlia, Vittoria, ed è in attesa di un secondo baby. Dallo scandalo di oggi a quelli di ieri. Risale agli anni Settanta l’indagine su un traffico internazionale d’armi nel quale i giudici di Venezia Carlo Mastelloni e di Trento Carlo Palermo ritennero coinvolto il Savoia. Allora mediatore d’affari per il conte Corrado Agusta, elicotteri e armi, Vittorio Emanuele guadagnò bene soprattutto nell’Iran dello scià Reza Pahlavi, che probabilmente voleva sposare Maria Gabriella di Savoia. Le indagini scoprirono triangolazioni proibite con paesi embargati. Poi l’inchiesta finì a Roma e il caso si andò spegnendo nel nulla. Victor, dal canto suo, continuò a frequentare i suoi giri di faccendieri e militari per affari, ma anche politici e banchieri di area socialista, Silvano Larini e Chicchi Pacini Battaglia. Fino a che il suo nome non comparve nella lista della famosa loggia P2 di Licio Gelli, numero di tessera 1621. Altro scandalo, altro gossip sui suoi legami con certa massoneria internazionale. Lui, imperturbabile, continuò a progettare investimenti in Iraq, in Giordania, a Malta e in alcuni paradisi off shore: quasi niente riuscirà a realizzare. Neanche i rapporti con le sorelle sono idilliaci. Prima una storia di gioielli di famiglia con Maria Gabriella, poi i dissapori per la gestione dei fondi dell’ordine cavalleresco dei santi Maurizio e Lazzaro, che porta alle dimissioni di numerosi iscritti. Rientrato in Italia tre anni e mezzo fa dopo un esilio di 56 anni, il 23 dicembre 2002, il principe chiude in quattro ore e mezzo la sua prima visita lampo alla patria ritrovata, compresa l’udienza in Vaticano con Giovanni Paolo II. Ha giurato per iscritto e senza condizioni fedeltà alla Costituzione e al presidente della Repubblica, ha preso ufficialmente le distanze dalle leggi razziali. L’emozione più forte, forse, nella tappa successiva, nella città più amata che è Napoli, il 15 marzo 2003. È il ritorno definitivo, scandito da saluti e abbracci ma anche da contestazioni e proteste. Sembrava l’inizio di un nuovo capitolo di Casa Savoia. Così non è stato. ma volta. |
Post n°687 pubblicato il 13 Giugno 2006 da corsaramora
NO Il 25 e 26 giugno si terrà il referendum sulla “riforma” della Costituzione voluta dalla destra. Quella “riforma” riscrive ben 53 articoli della nostra Costituzione repubblicana: in pratica, la demolisce. La possiamo bocciare votando NO. Votiamo non accettiamo un Paese diviso, lacerato, paralizzato, discriminato ancor più tra Nord e Sud. Vogliamo i diritti siano uguali per tutti i cittadini, dove la solidarietà sia un valore fondamentale; e dove il federalismo sia un modo per avvicinare i cittadini agli Enti Locali e allo Stato, per dare a tutti una scuola e una sanità migliore. Votiamo non vogliamo che il Presidente del Consiglio abbia poteri “assoluti”, che possa sciogliere la Camera dei Deputati a suo arbitrio. Vogliamo eletto dal popolo abbia i poteri per tutelare i diritti e le libertà dei cittadini, che il Presidente della Repubblica sia un garante, rispettato ed autorevole, che la Corte Costituzionale sia autonoma. Votiamo non accettiamo di mandare in soffitta i valori fondamentali e i diritti scritti nella nostra Costituzione nata dalla lotta di Liberazione. Vogliamo pieno a quei valori, allargare lo stato sociale, arricchire la convivenza civile, rafforzare le istituzioni, l’unità del nostro Paese e la nostra democrazia. Votiamo non accettiamo che la Costituzione sia riscritta da una sola parte politica. Vogliamo modifica legata a nuove esigenze dello Stato e della società sia coerente con i principi e i valori della Costituzione, sia sostenuta da una larga partecipazione e da un vasto consenso della società civile e delle forze sociali, sia approvata dal Parlamento a larghissima maggioranza e sia confermata dai cittadini con il referendum. Votiamo la riforma della destra ha un costo finanziario altissimo che pagheremo noi cittadini; non è né moderna né lungimirante. Noi invece vogliamo guardare al futuro. Il 25 e 26 giugno votiamo |
Post n°686 pubblicato il 13 Giugno 2006 da corsaramora
Ma voi ci dormite, di notte? Non siete sconvolti dal fatto che Bill Gates eDaniela Santanché debbano rinunciare alla Sardegna come dei poveri indigenti? A leggere certi giornali della destra pare che la tassa «sul lusso» della regione Sardegna siauna specie di pulizia etnica ai danni dei ricchi, un pogrom bestiale contro i patrimoni. Bill Gates ha una barca lunga 120 metri, il che equivale a parcheggiareungrattacielo di trenta piani o una fila di quindici tir (sarebbe più corretto dire che la Sardegna attracca alla barca di Bill Gates e non viceversa). La semplice gestione di cotanta barchetta costa 100.000 dollari al giorno, e su questo nessuno ha nulla da dire. Ma sui 15.000 euro di imposta che si richiedonoper l'attracco, apriti cielo, si è scatenatoun tale coro di urla scandalizzate che per un istante persino io, che sono scettico, ho creduto che fosse arrivato il comunismo, sbarcato in Sardegna, di notte, senza avvertire nessuno. La nazione pare scossa: il concetto che i più abbienti debbano pagare tasse per il territorio e le risorse che consumano ha colto il paese alla sprovvista. Interessante soprattutto il risvolto mediatico della questione. Siccome non sta bene parlare di «ricchi» (le parole che evocano classi sociali sono sgradite, non piacciono alla buona e brava stampa della nazione), ecco spuntare dal nulla la categoria dei «vip» in una nuova accezione: il «vip» come abbiente. I titoli parlano chiaro: Sardegna, la fuga dei vip; oppure: Sardegna i vip scappano. E poi giù nell'elencazione di nomi e cognomi illustri che trovano esoso l'«odioso balzello » sull'atterraggio del jet personale o sulla villa con piscina. E' allarmismo puro e semplice, una demagogia che pretende di mostrare alcuni tra i più notevoli patrimoni del paese come minoranze angariate e represse. Insomma, i proprietari di aerei privati, villoni e barche da sceicco sarebbero il nuovo quarto stato, oppresso e umiliato dalle tasse. Non è così (purtroppo, mi vien da dire), e alcuni indicatori dicono anzi che nella stagione turistica in arrivo in Sardegna le presenze aumenteranno, e non caleranno. Me ne rallegro, ma un po' mi spiace: l'idea di un esodo biblico di vip, industrialotti, rentier, ereditieri, profughi del lusso con il loro codazzo di mantenuti e famigli che vaga ramingo per l'Europa in cerca di una bella spiaggia aggratis cominciava a piacermi. il manifesto |
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il 10/08/2018 alle 13:04
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