Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
|
Post n°653 pubblicato il 25 Aprile 2006 da corsaramora
Ogni anno che ci allontana da quel 25 aprile del 1945, e che ci richiama a questa data fermata nel calendario delle feste civili della Repubblica, accade di dover riflettere sulla memoria collettiva degli italiani e sui caratteri che ne derivano per descrivere la nostra storia nazionale. Per le generazioni che hanno vissuto, tra l’adolescenza e la prima giovinezza, gli anni della guerra, della caduta del fascismo, della resistenza partigiana, della cacciata dei tedeschi, liberazione ha significato insieme fine della dittatura e dell’occupazione straniera, ritorno alla pace. Ma già per i meno giovani d’allora, liberazione non aveva questo significato univoco e felicemente liberatorio. La guerra civile con tutte le sue crudeltà, e la sconfitta militare con le sue umiliazioni avevano lasciato cicatrici profonde e dolorose. Liberazione era la vittoria di una parte, e tutto quello che ne derivò: la Repubblica, la Costituzione, le libertà democratiche apparvero a lungo come di parte. La Democrazia cristiana raccolse un blocco moderato che si dette una ragione della liberazione come uscita epocale dal dominio della violenza politica, della «statolatria», del nazionalismo anacronistico e contrario all’universalismo e pacifismo della Chiesa, e insieme ingresso in un’era nuova, laboriosa, della ricostruzione e poi dello sviluppo economico. In simmetria, un altro blocco di proletariato e ceti medi emergenti, che nella liberazione vedeva l’inizio di un processo di promozione ed emancipazione delle classi, come si diceva, subalterne, che reclamavano, traverso i partiti di sinistra, l’attuazione della Costituzione ostacolata dagli interessi dei gruppi sociali conservatori. Fu da quelle due distinte «liberazioni» che cominciarono a crescere le radici della crisi della politica in Italia. Gli anni di piombo ce li siamo sanamente dimenticati. Ma se rivediamo qualche film, o rileggiamo qualche libro di narrativa o di saggistica, o qualche pagina di giornale di allora, torneremo a rivivere stati d’animo, di tensione, di allarme, di ansia da insoddisfazione di non sapevamo che cosa, che turbavano gli studenti nelle scuole e nelle università e poi passavano nelle famiglie, e continuavano sotto traccia, e chissà con quali metamorfosi, nella clandestinità dell’eversione terroristica. Gli eventi degli anni successivi, le analisi non più soltanto di osservatori isolati o di parte, ma di commissioni parlamentari bicamerali, misero in luce l’inadeguatezza del nostro sistema politico a governare una economia che chiedeva meno Stato e più mercato, una società disordinata da rapidi processi evolutivi che lamentava al contrario troppo poco Stato, vale a dire l’assenza o il ritardo di una legislazione di grandi riforme. Proprio quando mutava la geometria degli schieramenti dei partiti e si legittimava all’alternanza del potere la sinistra, e la destra si staccava dalla matrice fascista, il Paese si divise, o fu diviso, su che cosa dovesse essere lo Stato, unitario o regionalista o federale, che cosa il governo, se presidenziale, semipresidenziale, parlamentare; che cosa la giustizia, se soggetta soltanto alla legge o dipendente dal Parlamento e dal governo; se la nazione dovesse proteggersi dalla sovranazione europea o viceversa cedere a questa molte parti della propria sovranità, se si dovesse restare estranei o meno ad ogni intervento militare nelle vicende geopolitiche della pace e della guerra, se la laicità significa libertà religiosa dei cittadini o rottura di ogni rapporto tra Stato e Chiesa. Insomma, la istigazione a dividere, che corrisponde alla parabola evangelica della semina della zizzania, è giunta a contare perfino tre Repubbliche, nelle scansioni temporali della nostra vita pubblica. Non c’eravamo accorti della seconda che ci hanno avvertiti di essere già nella terza. A questo punto, che vale ricordare la liberazione come evento fondativo di un cammino già spezzato tre volte? È una riflessione amara, ma può giovare ad orientare criticamente le nostre coscienze, quando le decisioni collettive ci vengono demandate quali elettori. Le inconcludenti divisioni, in nome non di ideali, di idee, di progetti, ma di descrizioni mitologiche della realtà, non contribuiscono alla fortuna dei popoli liberi il mattino |
Post n°652 pubblicato il 25 Aprile 2006 da corsaramora
Ormai è un ritornello. Un tragico ritornello. Anzi, peggio: un luogo comune. Si accende la tv ed eccoli là, uno dopo l’altro, i resti sparsi, accartocciati, ammassati di ciò che rimane di un incidente. Teli bianchi, pietosamente, coprono i corpi straziati delle vittime. Stasera, concluso il rientro dal lungo ponte, il bollettino verrà aggiornato. E si scoprirà che i numeri di questo massacro aumentano così come l’indifferenza verso un fenomeno che ha costi sociali, per non dire di quelli individuali, altissimi. Tutto questo sangue, spesso di giovanissimi, è vissuto come lontano da noi, esterno ed estraneo, quasi un’idea virtuale, cinematografica. Manco a dirlo siamo in testa in Europa. E dentro questa luttuosa classifica i motociclisti che perdono la vita o se la giocano tutta su una sedia a rotelle sono i più numerosi. Dal ’95 al 2004 (ultimi dati ufficiali) quasi 14mila motociclisti e ciclomotoristi sono morti sull’asfalto. Ottocentomila i feriti. Con percentuali da brivido: +31,7% i decessi, +44% i feriti. Si fa notare: aumentano le moto, moto potentissime anche nelle basse cilindrate, due ruote che schizzano a cento all’ora in tre secondi, e a tutto gas sfiorano i trecento. Roba da Gran Premio. Valentino Rossi, là sopra, in quelle condizioni, direbbe: scusate se stavolta non ci ho provato. Se il parco delle motociclette si è decuplicato in dieci anni, le strade sono rimaste le stesse. Meglio: sono invecchiate. Buche, asfalto a macchia di leopardo, guardrail a lama di rasoio, traffico nel quale svicolare pericolosamente tra i paraurti per guadagnare qualche metro, una birra di troppo, un diffuso delirio di onnipotenza, un senso infantile e invincibile di invulnerabilità e di bravura, la totale sottovalutazione dei rischi. Ecco il micidiale cocktail che forma le statistiche appena ricordate. La Polizia di Stato, in un recente workshop, ha chiesto ad esperti della comunicazione dei contributi per lanciare spot e slogan capaci di aumentare la sicurezza e incentivare il senso collettivo alla prudenza. Ci stanno provando anche gli alti, i tedeschi, i francesi, gli inglesi. Cercano di parlare soprattutto ai giovani, con il loro linguaggio. I risultati, finora, non brillano per efficacia. Anche quella è una strada faticosa da percorrere. Ma i cimiteri del lunedì sono una realtà insopportabile per non tentare il tutto per tutto. Compresa - e del resto richiesta - una maggiore severità. Prevenzione e repressione dura per i corsari della strada. Via la patente, e subito, per questi cavalieri d’acciaio dell’apocalisse quotidiana. Manca, purtroppo - è un dato diffusamente riconosciuto - la percezione di un rigore senza deroga e di una rete di controlli non più a maglie larghe. C’è, nella velocità sconsiderata, nel vezzo arrembante di trasformare ogni strada in una Imola o in una Monza, il senso di un’arroganza, di una sfida alle regole più elementari che segna un punto inaccettabile di degrado. Se poi ci sono i morti non si trovano quasi mai giudici disposti ad applicare con rigore le leggi. Si possono ammazzare quattro ventenni guidando ubriachi contromano e scappare dall’ospedale indisturbati lasciando il conto da pagare, come non si farebbe neppure in un motel. La solita storia del dolo e della colpa. Che sgomento assistere ad una simile carneficina, ogni giorno, ogni fine settimana, e rimettersi subito in corsa come se nulla fosse. La vita lasciata nella nuvola di un colpo d’acceleratore. Si può essere più cretini di così? |
Post n°651 pubblicato il 24 Aprile 2006 da corsaramora
e' giusto ricordare come dice driver 64 oltre chernobyl tante altre tragedie ambientali.. Hiroshima, Chernobyl, Seveso e Bhopal sono i nomi di alcune città tragicamente famose per altrettanti tragici episodi ambientali. Ma esiste un altro luogo della terra che nessuno nomina, che nessuno ricorda e che potrebbe aggiungersi alla lista: Augusta, in Sicilia. Si tratta di una città ad altissimo rischio sismico, chimico, industriale e militare. Insomma un cocktail micidiale. Circa 200.000 abitanti che vivono a stretto contatto con una polveriera pronta a saltare. |
Post n°650 pubblicato il 24 Aprile 2006 da corsaramora
Un nome, un incubo: Cernobyl. La più grave tragedia nucleare civile della storia. Uno scoppio improvviso nella notte, l’incendio. Quindi nuvole radioattive in giro per i cieli di mezza Europa, che verrà avvertita ufficialmente dal Cremlino del pericolo solo dieci giorni dopo l’incidente. La popolazione civile locale viene addirittura invitata ad uscire per strada per partecipare alle celebrazioni del primo maggio, mentre le auto nere fanno la spola con gli aeroporti per porre in salvo i figli e le famiglie della nomenklatura. Sabato 26 aprile 1986. Ore 1,24 del mattino. Alla centrale di Cernobyl (Ucraina), centoventi chilometri da Kiev, il reattore numero quattro, in funzione da appena due anni e mezzo, esplode mentre è in corso un esperimento per vedere quanto a lungo i generatori possano funzionare senza essere alimentati. Ma qualcosa non funziona. Errori fatali dei tecnici si susseguono fino all’apocalisse nucleare. È il panico. Nessuno sa cosa fare. Squadre di pompieri e volontari vengono spediti a morire senza attrezzature, quasi a mani nude. Sono necessari ben vinticinque giorni per avere ragione del fumo La direzione del vento cambia tre volte in quel periodo. Vaste aree della Bielorussia, della Scandinavia, della Germania, dell’Asia centrale vengono contaminate. Anche in Italia arrivano particelle radioattive contenenti soprattutto cesio 137 e stronzio 90. «Non ci rendemmo conto subito della catastrofe - raccontò, qualche anno più tardi, l’ex presidente sovietico Michail Gorbaciov - Nel mondo non si era mai verificato un incidente simile». Ai primi di maggio, in poche ore, centottantamila persone che vivono vicino alla centrale vengono evacuate. Cinquantaseimila chilometri quadrati diventano inutilizzabili, la terra di nessuno. Ufficialmente, per lo scoppio atomico, muoiono 32 uomini: due per l’esplosione, trenta per le gravi ustioni provocate dalle radiazioni. In realtà, le cifre sarebbero diverse, e molto più gravi. La Croce Rossa indica in 3 milioni le vittime di Cernobyl. Ma è quasi impossibile fare un calcolo preciso e stabilire l’incidenza della contaminazione sulla salute della gente. I primi a pagare sono i più indifesi, i bambini con il cancro alla tiroide. La popolazione continua a cibarsi della verdura e della frutta prodotta in queste regioni ormai avvelenate per sempre. Nel corso degli anni il reattore numero 4 è stato racchiuso nel cosiddetto «sarcofago», una struttura muraria in acciaio di colore nero alta 70 metri, che però ultimamente presenta delle vistose e preoccupanti crepe. Al suo interno, macerie radioattive. L’Ucraina sta organizzando un appalto internazionale per trovare una soluzione più duratura entro il 2008. Gli altri tre reattori di Cernobyl sono stati dismessi tra mille difficoltà. Kiev ha bisogno di energia a basso costo. E la «guerra del gas» con Mosca, proprio quest’anno, ha riproposto il problema. L’epopea nucleare nell’ex Urss non è però finita. La Russia, secondo produttore di petrolio e primo di gas al mondo, ha in progetto di costruire 40 nuove centrali, molto più avanzate tecnologicamente rispetto a quella di Cernobyl, entro il 2030. Commesse per i tecnici di Mosca verranno anche dalla Cina. Senza il nucleare, ha compreso da lungo tempo il Cremlino, non si può mantenere lo status di superpotenza. E questo è un rischio che la Russia non vuole certo correre. |
Post n°649 pubblicato il 23 Aprile 2006 da corsaramora
giorgio bocca l'espresso |
Post n°648 pubblicato il 22 Aprile 2006 da corsaramora
Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d'oro, 17 quelle d'argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania. Sono questi i numeri (dati dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) della Resistenza al femminile, una realtà poco conosciuta e studiata. |
Post n°647 pubblicato il 22 Aprile 2006 da corsaramora
Il più insidioso reato che ha trovato terreno fertile nel più straordinario, veloce, riservato, ed economico strumento di comunicazione creato dall'uomo è proprio la Cyberpedofilia: la rete nella rete, il network creato dai pedofili di tutto il mondo. Alle forze di polizia il compito di individuarli e neutralizzarli. Agli utenti di Internet il compito di segnalare ogni sito "sospetto". Come difendere i bambini e i ragazzi che, nelle nostre case, hanno un approccio ormai quotidiano alla Rete? Consigli per i genitori dei bambini che usano Internet
|
Post n°646 pubblicato il 19 Aprile 2006 da corsaramora
Il corno portafortuna è, senza dubbio, il più diffuso amuleto italiano. Le sue origini sono antichissime e risalgono addirittura ai tempi del Neolitico (3500 A.C.), quando gli abitanti delle capanne usavano apporre fuori dall' uscio un corno come auspicio di fertilità. Specialmente in quei tempi la fertilità veniva associata alla fortuna in quanto, più un popolo era fertile, più era potente e quindi fortunato. In altri tempi i corni venivano usati come doni votivi alla Dea Iside, affinché la Dea Madre assistesse gli animali nel procreare. La mitologia ci informa che Giove donò alla sua nutrice un corno in segno di gratitudine, questo corno era dotato di virtù magiche in modo che, la nutrice, potesse ottenere tutto ciò che desiderava. Il corno trae le sue origini per via della forma, si pensa infatti che gli oggetti a punta, specialmente se aventi forma di corno, difendono da cattive influenze e malasorte se portati con se. Si dice che il corno per portare fortuna deve essere ROSSO e FATTO A MANO. Rosso perché già nel Medioevo ogni talismano rosso aveva doppia efficacia e il rosso simboleggiava la vittoria sui nemici. Già nei tempi più antichi diverse popolazioni associavano al colore rosso un significato di fortuna e buon auspicio. In Cina e Germania dove tutti gli editti ed i sigilli imperiali erano rossi in segno di buona fortuna. Nelle Indie dove i raccolti venivano protetti con teloni rigorosamente rossi e strisce di tela dello stesso colore venivano portate sul collo per prevenire i mali. Gli antichi medici suggerivano che abiti rossi potessero guarire i reumatismi dove ogni mezzo aveva fallito. L'efficacia di tutti questi rimedi ed altri ancora non stanno nei vari materiali utilizzati ma , solo ed esclusivamente, nel colore rosso. Il motivo per il quale il corno deve essere fatto a mano sta invece nel fatto che ogni talismano fatto a mano acquisisce poteri benefici dalle mani che lo producono. |
Post n°644 pubblicato il 17 Aprile 2006 da corsaramora
inutili cervelli da gallina....cosi' dice l'unico neurone esistente io sono napoletana e non cammorista ..anche se non ho neuroni attivi ...ma...ma i cammoristi sono napoletani????mah... ora vi racconto una favola..si intitola : connivenza con la mafia Il 20 aprile, in una disadorna aula giudiziaria milanese, tre giudici si sono incontrati per ascoltare le testimonianze di un importante processo. Il procedimento trattava di un caso di presunta corruzione di giudici. Sulla porta, c’era, scritta a mano, la lista degli accusati. In cima c’era il nome di Silvio Berlusconi. fine prima puntata e ultima..... |
Post n°643 pubblicato il 15 Aprile 2006 da corsaramora
Currite, giuvinò! Ce stà 'a pastiera!" E' nu sciore ca sboccia a primmavera, e con inimitabile fragranza soddisfa primm 'o naso,e dopp'a panza. Pasqua senza pastiera niente vale: è 'a Vigilia senz'albero 'e Natale, è comm 'o Ferragosto senza sole. Guagliò,chest'è 'a pastiera.Chi ne vuole? Ll' ingrediente so' buone e genuine: ova,ricotta,zucchero e farina (e' o ggrano ca mmiscato all'acqua e' fiori arricchisce e moltiplica i sapori). 'E ttruove facilmente a tutte parte: ma quanno i' à fà l'imposto,ce vò ll'arte! A Napule Partenope,'a sirena, c'a pastiera faceva pranzo e cena. Il suo grande segreto 'o ssai qual'è? Stu dolce pò ghì pure annanz' o Rre. E difatti ce jette. Alludo a quando il grande Re borbone ferdinando fece nu' monumento alla pastiera, perchè facette ridere 'a mugliera. Mò tiene voglia e ne pruvà na' fetta? Fattèlla: ccà ce stà pur' a ricetta. A può truvà muovendo un solo dito: te serve pe cliccà ncopp ' a stu sito. Màngiat sta pastiera,e ncopp' a pasta dimme cumm'era: aspetto na' risposta. Che sarà certamente"Oj mamma mia! Chest nunn'è nu dolce: è na' poesia!" |
Post n°642 pubblicato il 15 Aprile 2006 da corsaramora
Sorrento è conosciuta nel mondo non solo per le straordinarie risorse paesaggistiche ma anche per i dolci. Chi ha la fortuna di visitare la nostra Penisola nel periodo pasquale ha la possibilità di gustare due tipici dolci pasquali: il casatiello e la pastiera. Anche se visitate Sorrento lontano dalla Pasqua, vi consiglio di assaggiarla una fettina di pastiera; le varianti sono tante, dall'aggiunta di crema pasticcera a quella con la cioccolata … scegliete quella che più lusinga il vostro palato e vedrete che gustandola non potrete fare a meno di sorridere, come Maria Teresa d'Austria! |
Post n°641 pubblicato il 15 Aprile 2006 da corsaramora
|
Post n°640 pubblicato il 12 Aprile 2006 da corsaramora
Il riscatto dell’emigrante
Più che altro, di tanto in tanto, cercavamo di immaginarceli e quando succedeva venivano fuori racconti un po’ surreali e un po’ grotteschi. Tratteggiavamo, distrattamente, con i nostri racconti, figure tra il mitologico e il folcloristico, personaggi sempre un po’ patetici nel tentativo di recuperare la perduta lingua italiana, forzando troppo il tono, accettuando gli aggettivi. Protagonisti di canzoni da cantare a squarciagola. Vestiti con un abbigliamento troppo colorato, pieni d’oro da capo a piedi. Persone dal pianto facile, soprattutto quando raccontano di com’era l’Italia ai loro tempi. Non so, ma quando sento raffigurazioni cosi, poi mi immalinconisco. Penso che questo nostro Paese sia incapace di raccontarsi. Non riesce a guardarsi allo specchio se non in maniera distorta. Sappiamo raccontare solo a patto di trasformare l’altro in una maschera, oppure rendere tutto così teatrale, esagerato che alla fine perdiamo il senso della realtà. Nella maggior parte dei casi non ci piace fare i conti con le asperità della nostra storia, davanti ai nodi ci blocchiamo. E invece di scioglierli con calma e ordinaria diligenza, preferiamo, appunto, ingarburgliarli di più. I cavilli ci piacciono, annodare e poi vantarsi del nodo è una nostra specialità. L’emigrazione è uno di queste asperità, è un nodo importante. Anche se ci sono milioni di persone emigrate, soprattutto nella prima parte del secolo; anche se ognuno di noi ha un parente di primo o secondo grado che è dovuto andare via, manca ancora un serio e condiviso racconto dell’emigrazione. C’è solo una blanda memoria orale. Oppure ci sono iniziative valide ma sporadiche. A livello universitario o per iniziativa di singoli. Piccoli musei, qualche buon libro di racconti o testimonianze. Degli emigrati, cioè, ce ne accorgiamo appunto in casi particolari. Come adesso, quando improvvisamente contano qualcosa nella nostra politica quasi come uno scherzo del destino. Allora, per qualche giorno, diventano materia di discussione. Poi spariranno per un bel po’ dalla nostra memoria. Eppure basta farsi un giro d’estate nelle regioni dove l’emigrazione è stata forte, il Molise, l’Abruzzo, la Calabria, per capire quanto le dinamiche migratorie abbiano inciso nel bene e nel male. Il Molise, una regione di trecentomila abitanti, ha perso durante il Novecento un milione di persone. Alcuni paesi sono ancora spopolati e immobili, sembrano in attesa. In attesa che arrivi la bella stagione e tornino gli emigrati. Solo allora questi centri si rianimano, suonano le bande e si accendono le luminarie. Poi, torna il buio. Oppure, osservando come vivono ancora oggi alcuni molisani, abruzzesi, calabresi, veneti, si potrebbe arrivare a sostenere che una buona parte della loro economia quotidiana gira sulle rimesse mensili degli emigrati. In Molise, in Calabria, nelle valli di Lanzo a pochi chilometri da Torino, ci sono paesi quasi disabitati dove non c’è nulla, nemmeno la scuola, nemmeno un negozio di abbigliamento, però c’è sempre la posta. Magari apre due volte a settimana ma c’è, perché di tanto in tanto arrivano le rimesse. Con queste si ristrutturano le case, si compra l’oro per i nipoti. Gli emigrati, cioè, cercano di offrire qualcosa di concreto ai parenti italiani, magari una certa costante idea di benessere, un’attenzione quotidiana, affinché non patiscano quello che loro hanno patito. L’emigrazione è, si capisce, un punto troppo doloroso, un nodo troppo consistente. E purtroppo noi italiani abbiamo un cattivo rapporto con la rappresentazione del dolore. Un discorso che esige una costante serietà, ma noi troppo spesso preferiamo raccontarci altre storie, comiche, grottesche, esagerate. il mattino |
Post n°639 pubblicato il 11 Aprile 2006 da corsaramora
Ora si dirà che Berlusconi aveva previsto tutto. Si dirà che la scelta di chiudere la campagna della Cdl in piazza Plebiscito è stata una sua geniale intuizione (o l’effetto di un sondaggio attendibile?) della crisi dell’Unione in Campania. Si dirà anche che quella serata napoletana ha spalancato le porte per una rivincita del centrodestra nel Sud un anno dopo la disfatta alle regionali. Chissà quanto c’è di vero o di romanzato in questo retroscena, certo è che il primo verdetto degli elettori campani è apparso, qui come a Roma, clamoroso quanto inaspettato: la regione della triade Bassolino-De Mita-Mastella, considerata alla vigilia del voto una roccaforte inviolabile del centrosinistra - quasi alla stregua dell’Emilia-Romagna, Toscana e Umbria -, è stata fino a notte fonda in bilico tra Unione e Cdl, e solo per un pugno di voti è andata al centrosinistra. Con il passar delle ore la Campania sembrava diventare per Prodi quella che fu la Florida per Al Gore nelle presidenziali americane del 2000. Un testa a testa avvincente ed emozionante, con un continuo alternarsi di risultati tra proiezioni e scrutinio delle schede, e con le prefetture napoletana e casertana sul banco degli imputati per il forte ritardo nella raccolta e nella pubblicazione dei dati provenienti dai seggi. Ma la vittoria dell’Unione per un pugno di voti non cambia il senso del verdetto regionale. L’arretramento netto del centrosinistra in Campania rispetto a un anno fa segna, innanzitutto, la prima battuta d’arresto conosciuta da Bassolino dal ’93 ad oggi. È ancora presto per dire che un’era politica è finita a Napoli e in Campania, anche se i segnali di crisi sono molteplici e indicativi. Certo è che le non esaltanti prove di governo delle amministrazioni locali, sia alla Regione che a livello comunale e provinciale, hanno contribuito a far franare l’Unione di oltre dieci punti rispetto alle regionali di appena un anno fa, regalando alla Casa delle Libertà un insperato recupero. Sono passati appena dodici mesi dalla trionfale rielezione del governatore a Santa Lucia con il 61%; sembra passato un secolo. La potente macchina di produzione di consensi elettorali, capace di conquistare voti anche indipendentemente dai risultati ottenuti dal governo della cosa pubblica, si è inceppata. È esploso nelle urne il malcontento diffuso e crescente anche dell’elettorato di centrosinistra per i tanti, troppi problemi non risolti; per i rifiuti nelle strade; per il ritorno di una partitocrazia senza partiti e per i meccanismi decisionali esclusivi ed escludenti della nomenclatura; per la lottizzazione delle nomine nella sanità; per le polemiche sugli sprechi e sulle inefficienze della spesa regionale; per la moltiplicazione delle commissioni regionali; per la cattiva amministrazione di Napoli negli ultimi anni; per la bufera giudiziaria a Salerno che ha coinvolto sindaco ed esponenti di primo piano dei Ds; per le profonde divisioni della coalizione a Caserta; per la scelta (sbagliata) dei candidati della Quercia alla Camera e al Senato. Alla fine più che di una rimonta del centrodestra sembra più corretto parlare di un’autoflagellazione del centrosinistra. Il secondo verdetto degli elettori campani è che nel centrosinistra non tutti perdono allo stesso modo. Anzi, nelle pieghe del risultato, emergono ombre su alcuni partiti e luci su altri. Non sfonda la Margherita di De Mita; mantiene ad Avellino rispetto alle regionali, ma arretra a Napoli dove esprime il sindaco da cinque anni. Deludente il risultato dell’Udeur di Mastella, anche nel suo feudo sannita, segno che la politica degli ultimatum e dei veti ha stancato. E sicuramente deludente, nonostante il sorpasso sulla Margherita, è il risultato dei Ds, partito fin troppo appiattito sulla gestione ormai decennale delle istituzioni locali, incapace di avviare un’opera di innovazione nei programmi e negli uomini. Migliore, invece, la prestazione dell’Ulivo sia in Campania 1 che in Campania 2: più forte l’affernazione in città che in provincia. Bene, infine, nel centrosinistra Rifondazione e Verdi. Con i risultati di ieri, il centrosinistra rischia di perdere Napoli, nonostante il risultato complessivo dell’Unione che nel capoluogo è avanti di dieci punti rispetto alla Cdl. Non è improbabile che alla luce dei risultati di ieri si riaprano i giochi delle candidature. Se nemmeno questo campanello d’allarme verrà ascoltato dai tre leader per tentare una ricucitura con Rossi-Doria e la massa critica del suo movimento, allora l’autoflagellazione continuerà. Il terzo verdetto degli elettori campani riguarda la Cdl, in netta flessione rispetto alle Politiche del 2001, in forte rimonta rispetto alle Regionali e alle Europee. Più che i vertici locali, che negli ultimi mesi hanno dato prova di divisioni tra correnti nella gestione dei partiti e nella scelta dei candidati sindaci, sembra essere stata premiata la scelta di Berlusconi di imporre un referendum ideologico tra destra e sinistra, tra due modi diversi di intendere la politica e lo Stato. Al contrario del risultato del centrosinistra, quello della Casa delle Libertà risponde molto di più ai temi e alle sfide nazionali. In ogni caso, la rimonta della Cdl riapre la prospettiva dell’alternanza nella democrazia campana e napoletana. E questo farà bene anche al centrosinistra. A cominciare da un’immediata riflessione su come e con chi governare Napoli nei prossimi cinque anni. |
Post n°638 pubblicato il 11 Aprile 2006 da corsaramora
I sogni sono fatti di tanta fatica. tratto dal "DELFINO" di S.BAMBAREN |
Inviato da: Wetter
il 10/08/2018 alle 13:04
Inviato da: Weather
il 10/08/2018 alle 13:04
Inviato da: Pogoda
il 10/08/2018 alle 13:03
Inviato da: Sat24
il 10/08/2018 alle 13:03
Inviato da: Test internetu
il 10/08/2018 alle 13:02