Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
 

Messaggi del 13/09/2005

Post N° 384

Post n°384 pubblicato il 13 Settembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Piazza San Domenico Maggiore, esterno notte. Siamo nel cuore magico della città, dove con la polvere della storia s’è posata anche la cenere di mille leggende, e ogni vicolo, ogni cortile, ogni palazzo racconta - a chi vuole ascoltarle - storie da brivido, macabre o tenerissime. Storie d’amore e di morte, di incantesimi e maledizioni: storie napoletane. Come quella ambientata nello storico palazzo al numero 9 della piazza, costruito nel XVI secolo dai principi di Sansevero. Luogo di esperimenti alchemici e di fantasiose invenzioni - nei sotterranei dell’edificio si trovava il misterioso laboratorio di Raimondo di Sangro - Palazzo Sansevero fu teatro, la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1590, di un feroce assassinio. Tre i protagonisti di questa fosca vicenda: la giovane principessa Maria d’Avalos, suo marito Carlo Gesualdo, principe di Venosa e l’amante di lei, il bel duca Fabrizio Carafa. È della giovane e sventurata principessa il «grido agghiacciante» che ancora, secondo un’antica leggenda, risuona una volta all’anno nel palazzo al numero 9 di piazza San Domenico?
Andiamo con ordine. Prima di passare alla famiglia di Sangro, e di diventare la sede di oscuri esperimenti chimici, il tenebroso palazzo apparteneva a don Carlo Gesualdo, principe di Venosa, famoso madrigalista e nipote di San Carlo Borromeo. Poco dopo aver sposato, in seconde nozze, la bella principessa Maria D’Avalos, al principe di Venosa giunse voce che la sua giovane sposa si era invaghita del prestante duca Carafa, e che i loro incontri avvenissero principalmente durante le ripetute assenze di don Gesualdo da Napoli. Maria, in effetti, si incontrava con il suo focoso amante in un sotterraneo del Palazzo Sansevero collegato direttamente al suo appartamento. La trappola mortale scattò in una notte d’ottobre: dopo aver finto di partire, come al solito, per una battuta di caccia, Carlo Gesualdo si sistemò con alcuni suoi sgherri nelle segrete e, quando vide i due amanti scambiarsi baci e tenere effusioni, ammazzò con il suo pugnale la consorte e il giovane duca. Poi, dopo aver infierito sui loro poveri corpi, li espose nudi al balcone dell’appartamento. Tutti, così, potettero constatare in che modo il marito tradito avesse punito la moglie fedifraga e il suo giovane amante. L’episodio più orrido dell’intera vicenda si svolse poco più tardi, quando il cadavere della donna, dopo essere stato portato nella vicinissima chiesa di San Domenico Maggiore, fu violentato da un domenicano - un portatore d’acqua santa giunto a seguito del sacerdote per benedire le salme - segretamente innamorato della giovane e bellissima principessa. Ma non è finita: Gesualdo, pazzo di gelosia, uccise con le sue mani anche il suo unico figlioletto, credendolo il frutto dell’adulterio della consorte. Somigliava così tanto al suo rivale in amore che decise di sopprimerlo. Orrore senza fine, insomma. Poi, per sfuggire alla giustizia degli uomini, il principe di Venosa laciò Napoli per ritirarsi in uno dei suoi feudi, dove, forse per placare il rimorso che lo tormentava, fece edificare due monasteri.
La leggenda vuole che il fantasma di Maria D’Avalos vaghi di notte per le stradine buie intorno alla piazza per cercare il suo bambino e il suo povero amante, e che sul palazzo gravi, da allora, una maledizione senza fine. È certo che una mattina di settembre del 1889 un’intera ala del palazzo crollò. Ed è certo che, in quegli stessi lugubri sotterranei dove il principe di Venosa lavò l’onta del tradimento con quel feroce assassinio, il principe Raimondo di Sangro morì, il 22 settembre del 1771, probabilmente avvelenato da quelle stesse sostanze che maneggiava da anni, alimentando altre tenebrose leggende.
Di notte, quando le luci della città sono spente, quando si spengono anche le ultime voci di quella che chiamano movida, una strana atmosfera aleggia intorno al palazzo Sansevero e alla splendida piazza. Testimone silenziosa, da secoli, di tante storie sospese nel tempo: storie incredibili, storie verissime, storie napoletane.

 
 
 

Post N° 383

Post n°383 pubblicato il 13 Settembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Se Capurro e Di Capua ci hanno dato 'O sole mio; se Nicolardi e Mario ci hanno dato Tammuriata nera; se Califano e Cannio ci hanno dato 'O surdato nnammurato, ecco che la coppia Berlusconi-Apicella ci regala nuove canzoni napoletane raccolte in un album che si chiama Meglio una canzone.

GIA''...MEGLIO UNA CANZONE!!!!

 
 
 

Post N° 382

Post n°382 pubblicato il 13 Settembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Tre cose furono belle in quell'anno (1839):
le ferrovie,
l'illuminazione a gas
e Te voglio bene assaje.
 
(Luigi Settembrini, 1870)

 
La canzone napoletana ha due possibili  date di nascita: il 1839 con la canzone Te voglio bene assaje oppure il 1880 con la canzone Funiculì funiculà.
Naturalmente la tradizione è molto più antica di queste date: pensate che già nel 1221 la serenata dopo il tramonto, sotto la finestra di una ragazza, era frequentissima! Così frequente che i napoletani non potevano mai dormire tranquilli. E  proprio per questo l'Imperatore Federico II ha dovuto fare una legge per vietare le serenate in tutta la città.
Sicuramente però il grandissimo successo delle canzoni napoletane "moderne" - che ancora oggi tutti conoscono - è cominciato alla fine dell'Ottocento.
I motivi di questo successo sono numerosi:
- La festa di Piedigrotta, una festa antichissima che era diventata una specie di "Festival di Sanremo", una vetrina per le nuove canzoni napoletane che venivano presentate in quella occasione al pubblico, nazionale e internazionale.
- L'editoria musicale: ancora prima della nascita del disco, gli editori vendevano le copielle, dei fogli di carta con stampati i testi delle canzoni più popolari (di "te voglio bene assaje" ne furono stampate più di 180.000!)
- I posteggiatori, musici più o meno colti che si esibiscono nei locali e nei luoghi di ritrovo di Napoli diffondendo le canzoni fra un pubblico sempre più vasto. I più bravi posteggiatori venivano invitati anche all'estero come intrattenitori (posteggiatore era per esempio Eduardo di Capua, l'autore di
'O sole mio).
- La nascita dei caffè-concerto e dei primi teatri di varietà, punti di ritrovo stabili dove andare ad ascoltare musica.
- L'alta qualità di molte canzoni napoletane, che entrano nel repertorio dei grandi cantanti lirici anche di fama internazionale, i quali le cantano nei loro concerti in Italia e all'estero e le rendono 

popolari come le arie più famose dell'opera e del melodramma. Fra questi cantanti Enrico Caruso è certamente il più celebre.
 
La "canzone napoletana" comprende in realtà parecchi generi diversi: la serenata naturalmente (quella che si suona la sera sotto la finestra dell'innamorata), la mandolinata (come una serenata ma con forte presenza di mandolini), la tarantella (nata da un ballo del Seicento), la tammurriata (caratterizzata dal ritmo incalzante di uno strumento che si chiama tammorra: fra le tammuriate più famose ricordiamo
Tammuriata nera 
di E.A. Mario).
 
E a seconda dell'argomento ci sono barcarole (canzoni ispirate al mare), canzoni di giacca (canzoni che parlano della malavita, avventure di "guappi" vestiti appunto con giacca attillata e fazzoletto al collo), canzoni dei carcerati, canzoni di guerra (
'O surdato nnammurato), canzoni dei "mestieri" (A tabaccara, A lattara, Acquaiola 'e Margellina, A levatrice, O pizzaiuolo, L'ostricaro 'e Napule, ecc.). Ci sono poi le canzoni d'occasione, quelle scritte 

per celebrare un avvenimento particolare (come Torna a Surriento, per esempio).
 
Dopo la Prima guerra mondiale gli spettacoli musicali, per andare in scena, dovevano pagare una tassa molto forte; questo, per favorire la diffusione del teatro di prosa.
Ma, come si dice, "fatta le legge, trovato l'inganno".
Gli ingegnosi artisti napoletani scrivono allora "scene sulle canzoni", veri pezzi teatrali che ruotano intorno al testo delle canzoni. A questo punto lo spettacolo che andrà a teatro non sarà più solo uno spettacolo musicale ma un varietà con recitazione, ballo e musica. E niente tassa.
La sceneggiata ha avuto grande fortuna in Italia e in America.
La sua caratteristica principale è quella di esagerare i sentimenti con una recitazione e una gestualità estremamente vistose. Per questo fare la sceneggiata oggi è diventato un modo di dire: un giocatore di calcio che cade in terra e sta cinque minuti a lamentarsi (anche se non si è fatto niente) oppure una persona che per un problema piccolo piccolo si agita vistosamente e coinvolge tutti nel suo dramma, ecco, per loro si può dire che "fanno la sceneggiata".

 
 
 

Post N° 381

Post n°381 pubblicato il 13 Settembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Nella legge del 1874 "trovasi sempre

adoperato il genere mascolino

avvocato e mai la parola avvocata

che pur esiste nella lingua italiana".

Questa una delle bizzarre motivazioni

estrapolata dall'arringa pronunciata

dal Procuratore Generale

della Corte di Appello di Torino nel

processo che segnò il rigetto del

provvedimento di iscrizione

all'Albo dell'avvocata Lidia Poet, la

prima donna in Italia a chiedere di

poter esercitare l'avvocatura, deliberato

dal Consiglio dell'Ordine

Forense di Torino.

Correva l'aprile 1884 e il Procuratore

che aveva chiesto l'annullamento

della delibera era per

cronaca, Vincenzo Calenda, di

Tavani, aristocratico molto noto

negli ambienti giudiziari e non, poi

divenuto Senatore del Regno.

Le motivazioni del Procuratore

Generale Calenda di Tavani,

avverso l'ingresso delle donne nell'avvocatura,

ovvero come si diceva

all'epoca della "milizia togata"

motivazioni che possono sembrare

stravaganti, ma che evidentemente

all'epoca non lo erano, furono

in sintesi le seguenti:

1) Nessuna legge aveva mai pensato

di distogliere le donne dalle

ordinarie occupazioni domestiche

che loro sono proprie.

2) Ammettere le donne all'avvocatura

era ridicolo e inopportuno.

3) Il precetto del Codice Civile

secondo il quale ogni cittadino

gode dei diritti civili non poteva

riferirsi alle donne. "In caso contrario

queste avrebbero potuto diventare

Consigliere Provinciale, elettore

politico, deputato e voi ridereste

a codeste esorbitanze e ne

riderebbero per fermo anch'esse

le donne, le quali, giammai

sospetteranno che le leggi concedano

tanta somma di diritti, mentre

governo, parlamento, giornalismo

in 35 anni di libertà non curano di

attribuire loro pur una particella

sola".

4) La legge del 1874 non aveva

preso in considerazione la presenza

di donne avvocato perchè a

quel tempo queste non erano

ancora ammesse all'Università, Si

trattava pertanto, sempre secondo

il Calenda di Tavani, di un divieto a

perorare in Tribunale che affonda

le radici nel tempo, fino ai romani.

"Le cose - disse - da quel giorno

più non mutano nella lunga tratta

dè secoli". Auguro all'Italia che non

abbia a sentir mai il bisogno nè di

donne soldate nè delle donne

avvocate".

5) L'ingresso delle donne nell'avvocatura

porterebbe alla disgregazione

familiare, riducendo i matrimoni.

6) I giudici - udite udite - avrebbero

perso la loro serenità di giudizio

davanti ad un'avvocatessa

attraente, anche perchè la moda

femminile, con i suoi abbigliamenti

strani e bizzarri, non si conciliava

con la severità della toga.

Sul tema si aprì un dibattito con

delle prese di posizione contro l'ingresso

delle donne nelle libere

professioni che oggi farebbero rizzare

i capelli non solo alle femministe,

ma a chiunque sia dotato di

un minimo buon senso nonchè di

quel minimo di sentimento di

rispetto e di civile convivenza.

Il tema d'altronde, data l'epoca

caratterizzata dalla prepotenza

maschile nella quale veniva

dibattuto, si inseriva in quello più

generale della parità tra uomo e

donna.

In definitiva più che l'indirizzo giuridico,

erano le ragioni socio-culturali

a sostenere la esclusione della

donna dalle libere professioni.

I più illuminati insorsero contro questa

concezione a relegare la

donna ad un ruolo esclusivamente

domestico, poichè in gioco c'era

l'emancipazione e la redenzione

femminile che tanto preoccupa il

nostro tempo. Così si espresse lo

scrittore e storico pugliese

Giuseppe Maselli-Campagna.

Di contro la scrittrice Matilde

Serao insistè sul fatto che "le

donne avvocatesse si sarebbero

esposte al ridicolo, così come tutte

quelle emancipate senza talento,

senza istruzione vera, senza

serietà, che vogliono votare e non

lavorare" la quale Matilde Serao fu

accusata di spingere le donne laureate

a fare "la calza".

La sentenza sottoscritta dal

Presidente della Cassazione di

Torino, Lorenzo Eula, noto giurista

e futuro guardasigilli, sia pure con

motivazioni più ponderate e più

eleganti nella forma e nel contenuto,

accolse le conclusioni del

Procuratore Generale e respinse il

ricorso della Poet.

Tra l'altro si legge nella sentenza

che "l'influenza del sesso sulla

capacità e condizione giuridica è

dovunque sempre stata tale, che i

legislatori si sono trovati nella

necessità per ragioni appunto di

ordine morale e sociale, non meno

che per l'interesse della famiglia,

che è la base della società, di

dove, a riguardo delle donne, riconoscere

e mantenere in massima

uno stato particolare restrittivo di

diritti...che sono considerati di

ragion pubblica perchè dipendenti

dal sistema generale

delle cose e delle azioni".

La sentenza prende in esame

tra l'altro, anche l'istituto dell'autorizzazione

maritale, la

quale, all'epoca impediva alle

donne di intraprendere azioni

commerciali e gestire patrimoni

senza il consenso dei coniugi.

Insomma il medioevo si è spinto

oltre le soglie del '900.

Bisogna attendere infatti il 1919

perchè la legge n. 1776 oltre ad

abolire l'autorizzazione maritale,

ammise con l'art. 7 le donne

all'esercizio di tutte le professioni

e di tutti gli impieghi pubblici.

Un censimento del 1921 indica in

85 il numero delle donne italiane

che esercitavano l'avvocatura. E

purtuttavia le donne dovevano

subire discriminazioni anche durante

il ventennio fascista che

identificò la missione delle donne

esclusivamente nella maternità.

L'orientamento antifemminista del

regime è noto.

 
 
 

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