game over

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Uno degli aspetti più incomprensibili della mente umana è la capacità del cervello di dissociarsi da se stesso nel momento in cui, affrontando lo stesso identico problema, riesce a spezzettarlo in tante differenze incomprensibili. Uno degli esempi più espliciti è proprio quello delle dipendenze che, indubbiamente, meritano crociate in termini di attenzione sociale e quindi mediatica. Come si potrebbe, infatti, discutere la campagna contro il fumo. Peccato però che, prima di essa, non sia partita una campagna altrettanto incisiva contro l’alcool perché, a maggior ragione del fumo, anche la scritta: L’ALCOOL UCCIDE dovremmo trovarla sull’etichetta delle bottiglie di vino o di birra. Immagino però che sarebbe scomodo e poco chic perché andrebbe messa anche su bottiglie di vini pregiati visto che il danno dell’alcool è certificato e certificabile con certezza medica rispetto a quello causato dal fumo. Parlo ovviamente di abuso perché è solo quello che trasforma il bene in male e, questo vale, per le uova fritte come per il caffé, lo zucchero e quant’altro. Forse solo il sesso non segue strettamente questa regola. Il ragionare dissociato vale anche per quella dicitura che recita: IL GIOCO PUO’ CREARE DIPENDENZA. L’ipocrisia di un paese che ha sempre osteggiato i Casinò, ma si è trasformato nella più grande Las Vegas al mondo visto che non c’è quasi bar che non abbia la sua saletta con le slot machine. Ora, sceneggiando teste pensanti che sono solo teste vuote, prendiamo di mira i negozi di cannabis legale perché sarebbero loro la via della dipendenza. I tabacchi invece possono essere venduti, idem gli alcolici e lo stesso le slot machine. Una dissociazione mentale a cui, fra l’altro, sfugge che per le dipendenze da gioco, ad esempio, volendole affrontare per disintossicarsi, lo Stato mette a disposizione i SERT ovvero le stesse strutture pubbliche che sono nate per affrontare le dipendenze tossicologiche. La dissociazione mentale sicuramente non è una dipendenza ma, in questo paese, è sicuramente diventata una pericolosissima patologia proprio perché la diversità vera, quella intesa come problema reale, non è l’immigrazione ma la migrazione del discernimento. Una migrazione nemmeno stagionale come quella degli uccelli ma una migrazione che si rivela sempre quando, avendo necessità di raziocinio, scopri la latitanza dei cervelli. Generalmente, quando scelgo un film, poiché voglio evitare di pensare ma solo distrarmi, lascio il cervello in macchina e lo riprendo all’uscita. C’è però una bella differenza fra guardare un film e legiferare.
game overultima modifica: 2019-05-12T14:28:28+02:00da arienpassant

4 pensieri riguardo “game over”

  1. Posso segnalarlo a Salvini? 🙂 se tornassi a nascere, vorrei che accadesse nel più semplice dei contesti possibili, tipo quelle tribù amazzoniche che ancora resistono ai nostri attacchi…e non mi importerebbe di essere privata della medicina occidentale o dell’aereo che in poche ore mi porta dall’altra parte del mondo…del resto sono stata felice quando avevo poco, pochissimi soldi per vivere, niente auto o vestiti firmati…bastava il mare, la notte, l’amore.

  2. Ormai avevo le mani ulcerate dalle vesciche a furia di remare da North Sentinel fino all’Amazzonia. Lei, invece, aveva un’abbronzatura perfetta ed omogenea anche nelle parti più private. Miglia e miglia di mare, dopo quel “proviamo in Amazzonia?”. Quell’accontentarsi di poco e nulla e, alla domanda “vuoi remare tu, Nortia?”. Quel suo delicato “no, fallo tu che lo fai meglio”.
    Sapevo che, come North Sentinel, anche l’Amazzonia sarebbe stata solo un’altra tappa. Dare il tempo alle mie mani a risistemare la carne. L’Amazzonia, tzè, territorio inconciliabile con il mio terrore per i ragni e là sono grossi come tacchini. Il mare, la notte e l’amore. Già.
    “E se non dovesse piacerti l’Amazzonia?”, le chiesi.
    “Ti direi di nuovo, portami con te”.
    “E se invece a me piacesse?”
    “Mi lasceresti andare via da sola? Non lo faresti mai. Il mare, la notte, l’amore.”
    Chissà perché mi tornò in mente quella frase:
    “Se non riesci ad uscire dal tunnel, arredalo”.

  3. E lo arredò bene, quel tunnel, senza che Nortia si accorgesse di nulla; del resto era troppo presa dalla nuova condizione esistenziale e per niente al mondo si sarebbe lasciata distrarre. Si era anche convinta che le bacche, che inizialmente ingoiava con timore, ora la rendevano più bella e ne mangiava a sazietà mentre ascoltava i racconti che lui inventava per lei e che in Amazzonia, a differenza di quanto accadeva in città, non avevano zavorre metafisiche. Ma l’idillio non durò a lungo. Allo scadere dei trenta giorni, come ad obbedire a un orologio biologico che ti ricorda l’inappartenenza a qualsiasi latitudine, Nortia esordì:”Sono stanca di stare qui”. “Stai scherzando?”, replicò lui, riprendendosi bruscamente dalla condizione estatica in cui Nortia stessa l’aveva portato appena mezz’ora prima. “No, non scherzo, la destinazione è sempre davanti a noi, dovresti saperlo”. E senza neppure lasciargli il tempo di replicare, aggiunse:”Che fai, resti qui o mi lasci andare via da sola?” Le piaceva da matti essere retorica.

  4. Lo arredò con poche cose. Al posto giusto. Aspettò che il sole virasse dall’arancio al rosso, poi lo spense. Accese la luna, appoggiandola in un angolo. Una penombra discreta che risaltò millemila stelle. Regolò il volume dell’onda. Qualche legno, un fuoco, lei, le sue mani, gli occhi. Non glielo disse che non erano le bacche a farla ancor più bella. Era quello che sapeva essere. Nelle sue poche parole, nei suoi obliqui silenzi, nelle sue malinconie, nelle sue risate, nel suo aprirsi al sole o chiudersi al primo schiaffo di pioggia. Nel suo andare e ritornare. Quell’andare e ritornare, lento e profondo. Denso e intenso in una notte complice che durò finché durarono.
    L’alba li sorprese dormire nello stesso respiro.

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