Cinque parole. Una vita

Awful But Joyful | by Deborah Eisenberg | The New York Review of Books

Al mattino la speranza c’era. Si posava come un effimero bagliore sui capelli neri e lisci di mia madre, che io non ho mai osato toccare, e si stendeva sulla mia lingua insieme allo zucchero del semolino tiepido che mangiavo lentamente, mentre osservavo le sue mani affusolate, ripiegate l’una sull’altra, immobili sul giornale che parlava dell’influenza spagnola e del Trattato di Versailles. Mio padre era andato al lavoro e mio fratello a scuola. Perciò mia madre era sola, anche se c’ero io, e se restavo perfettamente immobile senza dire nulla, la quiete distante del suo cuore misterioso poteva durare finché il mattino non fosse invecchiato e lei non fosse dovuta uscire per fare la spesa in Istedgade come una signora qualunque.

(…)

Era un’estranea misteriosa, e io mi mettevo in testa di essere stata scambiata in culla, di non essere affatto figlia sua. Una volta vestita, si piazzava davanti allo specchio della camera da letto, sputava su un fazzolettino di carta rosa e se lo strofinava forte sulle guance. Io portavo le tazze in cucina e dentro di me c’erano strani paroloni che mi strisciavano sulla mente come una membrana protettiva. Un canto, una poesia, qualcosa di lenitivo, di ritmico, d’infinitamente melanconico, ma mai triste né deprimente allo stesso modo in cui sapevo che sarebbe stato triste e deprimente il resto della mia giornata. Quando queste onde chiare mi scorrevano dentro, sapevo che mia madre non poteva farmi più nulla, perché in quel momento perdeva ogni importanza per me. Lo sapeva anche lei, e i suoi occhi si riempivano di una gelida ostilità. Non mi picchiava mai, quando la mia mente era in quella disposizione, però non mi rivolgeva la parola. Da allora fino al mattino seguente, solo i nostri corpi erano vicini l’uno all’altro. Ed evitavano, malgrado lo spazio ristretto, ogni minimo contatto“.

Tove Ditlevsen, Infanzia

Tove Ditlevsen si suicidò nel 1976. In Danimarca era una celebrità. “Al mattino la speranza c’era“.

In foto Tove Ditlevsen

Cinque parole. Una vitaultima modifica: 2022-03-23T17:13:25+01:00da hyponoia

3 pensieri riguardo “Cinque parole. Una vita”

  1. Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce anche per scrivere lentamente. Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto – un gusto malizioso forse? – non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente «frettolosa». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati…

    F. Nietzsche

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