DIPENDENZA

Charla online sobre Tove Ditlevsen - Institut Nòrdic

Per ragioni imperscrutabili, Viggo F. non mi ha mai presa tra le braccia, e la cosa mi dà un pochino il tormento, come un sassolino in una scarpa, perché mi fa pensare di avere qualcosa che non va, di avere – in un modo o nell’altro – disatteso le sue aspettative. Quando ci sediamo l’uno di fronte all’altra a prendere il caffè, lui legge il giornale e io non devo rivolgergli la parola. Intanto il mio umore si abbassa come il livello della sabbia nel bulbo superiore di una clessidra, non so perché. Fisso il suo doppio mento che straborda dal colletto alla diplomatica e vibra sempre un pochino. Fisso le sue manine affusolate che si muovono a scatti brevi e nervosi, e anche la sua gran chioma grigia, che sembra una parrucca, perché di solito sono i calvi ad avere un viso così rubicondo e senza rughe. (…) Mi rallegro quando mi sorride con il suo unico dente, mi accarezza una mano, mi saluta ed esce. Non vuole procurarsi una dentiera, perché dice che nella sua famiglia i maschi muoiono a cinquantasei anni e a lui ne mancano solo tre, dunque perché sobbarcarsi questa spesa? Non si può celare il fatto che sia tirchio e che il tenore di vita al quale mia madre dava tanto valore non è poi un granché. Non mi ha mai regalato un solo capo d’abbigliamento e quando usciamo per una visita serale a una persona famosa lui va in tram e io in bicicletta, a pedalare freneticamente per potergli fare un cenno di saluto quando si degna di guardare fuori dal finestrino. Mi fa tenere i conti di casa e quando li guarda trova che ogni cosa costi troppo. Se la somma non quadra, metto a registro la differenza sotto la voce “varie“, ma lui va su tutte le furie, perciò cerco di non perdere di vista neppure una spesa. Fa scene anche per il fatto di avere una donna di servizio al mattino, visto che ci sono già io, che me ne sto a casa a girarmi i pollici. Ma non sono capace di fare le pulizie e non ne ho nemmeno voglia, perciò su questa questione gli tocca chinare la testa. Sono contenta quando lo vedo attraversare il prato verde in direzione della fermata del tram, che si trova davanti alla questura. Lo saluto con la mano e quando volto le spalle alla finestra mi dimentico del tutto di lui fino al momento in cui ricompare. Mi faccio una doccia, mi guardo allo specchio e rifletto sul fatto di avere appena vent’anni e di sentirmi come se fossi sposata da una vita. Appena vent’anni, e mi sembra che al di fuori di queste verdi stanze l’esistenza delle altre persone proceda a ritmo di timpani e tamburi, mentre su di me i giorni ricadono inavvertibili come polvere, l’uno identico all’altro“.

Tove Ditlevsen, Dipendenza

Resoconto agghiacciante perché non si tratta di finzione: Dipendenza è l’ultima parte della biografia di Tove Ditlevsen. A sollevare l’animo del lettore sarà, una pagina via l’altra, l’ironia di una donna-scrittrice che pur avendo avuto tanto dalla vita (due figli, quattro mariti – tra i quali l’anziano editore di cui sopra – e ventinove libri) è morta suicida a 58 anni. C’è che non tutti si sentono all’altezza dell’avventura che chiamiamo vita, e avvertono la morte come una necessità tanto assoluta e radicale che diventa difficile se non impossibile, per chi resta, dare una spiegazione. Forse perché scavando nelle vicende altrui c’è il rischio di acquisire, a riguardo della propria vita, consapevolezze troppo sconcertanti.

Cinque parole. Una vita

Awful But Joyful | by Deborah Eisenberg | The New York Review of Books

Al mattino la speranza c’era. Si posava come un effimero bagliore sui capelli neri e lisci di mia madre, che io non ho mai osato toccare, e si stendeva sulla mia lingua insieme allo zucchero del semolino tiepido che mangiavo lentamente, mentre osservavo le sue mani affusolate, ripiegate l’una sull’altra, immobili sul giornale che parlava dell’influenza spagnola e del Trattato di Versailles. Mio padre era andato al lavoro e mio fratello a scuola. Perciò mia madre era sola, anche se c’ero io, e se restavo perfettamente immobile senza dire nulla, la quiete distante del suo cuore misterioso poteva durare finché il mattino non fosse invecchiato e lei non fosse dovuta uscire per fare la spesa in Istedgade come una signora qualunque.

(…)

Era un’estranea misteriosa, e io mi mettevo in testa di essere stata scambiata in culla, di non essere affatto figlia sua. Una volta vestita, si piazzava davanti allo specchio della camera da letto, sputava su un fazzolettino di carta rosa e se lo strofinava forte sulle guance. Io portavo le tazze in cucina e dentro di me c’erano strani paroloni che mi strisciavano sulla mente come una membrana protettiva. Un canto, una poesia, qualcosa di lenitivo, di ritmico, d’infinitamente melanconico, ma mai triste né deprimente allo stesso modo in cui sapevo che sarebbe stato triste e deprimente il resto della mia giornata. Quando queste onde chiare mi scorrevano dentro, sapevo che mia madre non poteva farmi più nulla, perché in quel momento perdeva ogni importanza per me. Lo sapeva anche lei, e i suoi occhi si riempivano di una gelida ostilità. Non mi picchiava mai, quando la mia mente era in quella disposizione, però non mi rivolgeva la parola. Da allora fino al mattino seguente, solo i nostri corpi erano vicini l’uno all’altro. Ed evitavano, malgrado lo spazio ristretto, ogni minimo contatto“.

Tove Ditlevsen, Infanzia

Tove Ditlevsen si suicidò nel 1976. In Danimarca era una celebrità. “Al mattino la speranza c’era“.

In foto Tove Ditlevsen