Paolo Cognetti e l’arte di narrare

Paolo Cognetti | Malatesta Literary Agency

“Era una femmina che non aveva ancora visto il suo secondo inverno, né altro mondo che l’autorimessa lungo la provinciale. Da sola, sul retro dell’officina, giocava col brandello di un vecchio copertone: lo mordeva, lo lanciava, correva a riprenderlo, quando si accorse di avere spettatori. Dalla cava di ghiaia lì accanto era comparso un cane grigio, che la guardava. C’era il fiume da quella parte, anche se in autunno era in magra e non ci voleva molto ad attraversarlo. Posò il pezzo di gomma per cercare nell’aria l’odore di quel maschio, ma come alzò il muso ne vide altri tre spuntare dal mucchio dei rottami. Tre pastori con il pelo infangato e il campanello nel collare, e questi invece li conosceva. Di giorno custodivano le pecore, pascolando le stoppie nei campi e l’erba intorno ai capannoni, e di sera si aggiravano in cerca di qualcosa da rubacchiare. Ma adesso non erano lí per il cibo, erano lí per lei. La femmina sapeva e non sapeva perché erano venuti. A poco piú di un anno d’età, questo nuovo interesse dei maschi nei suoi confronti faceva parte delle cose che stava imparando in fretta, cose eccitanti e pericolose come i falò che i ragazzi accendevano in estate, o la corrente del fiume che una volta l’aveva quasi portata via. […]

Un’autocisterna passò sulla provinciale, aveva un dito di brina sul tetto che volò via con uno sbuffo. Novembre. La femmina scese dal suo sedile e scodinzolò al maschio che si avvicinava. In lui la furia di poco prima si era già placata, l’annusò con gentilezza, si lasciò annusare. L’odore che lei sentí era di bosco, di terra, di foglie, e del sangue del cane che aveva appena ucciso. Le venne voglia di leccarlo, e lo leccò. Poi lui la prese e cosí la sua infanzia era finita per sempre. Risalirono il fiume, quel giorno, correndo per l’euforia di essersi incontrati, lungo i banchi di ghiaia e gli isolotti, attraverso le terre desolate del fondovalle. Le creste lontane erano segnate dalla neve, ma lungo il fiume sorgevano i cementifici, i mobilifici, gli ingrossi di materiale agricolo, i magazzini edili”.

Paolo Cognetti, Giù nella valle

A proposito dei suoi trascorsi, Cognetti ha detto: “Ho sempre pensato che sarei morto giovane, ma la vita si sta dimostrando più lunga del previsto; non mi sono mai visto vecchio. La morte me la sono sempre immaginata in montagna, perché lì per me sarebbe una bella fine”.

Anch’io pensavo che sarei morta giovane, per l’esattezza a 35 anni. Ma il destino decise che del mio delirio potevo farne scarti per discariche esistenziali o qualsiasi altra cosa m’avesse suggerito la già traballante ars cogitandi. E dire che avevo pure bell’e pronto un epitaffio alla maniera di Spoon River…

Paolo Cognetti e l’arte di narrareultima modifica: 2023-11-15T09:26:09+01:00da hyponoia

6 pensieri riguardo “Paolo Cognetti e l’arte di narrare”

  1. Sicuramente racconta bene Cognetti, ma non è nelle mie corde perché piatto come un encefalogramma comatico. Non ci sono scatti emotivi e mi trasmette tristezza perfino quando scrive “Risalirono il fiume, quel giorno, correndo per l’euforia di essersi incontrati” :))
    Detto ciò, anch’io pensavo di morire giovane, 33 anni, poi non lo so se ci ho ripensato o il destino, come ha fatto con te, ha ritenuto che farci morire così presto sarebbe stata un’ingiustizia universale.

    1. Definitelo uno scrittore di montagna e vedrete il Cognetti incazzarsi come una iena. E ne ha ben donde. Dice il nostro:
      Ragazzi, ma voi i miei libri li leggete come Dio comanda o, come sospetto, li sfogliate alla cazzo? Buona senz’altro la seconda, ma non preoccupatevi, vi do io adesso qualche dritta che vi chiarirà le idee.
      Punto primo. Dei miei libri si deve dire ciò che diceva il mio amico Rabelais dei suoi, e cioè che bisogna rompere l’osso e succhiarne il sostanzioso midollo. Fuor di metafora, amici cari, voi non dovete rimanere alla superficie delle mie storie, non dovete limitarvi ad estasiarvi di fronte all’indubbio talento con cui vi propino le mie ambientazioni, si tratti delle faticose scarpinate alle quali mio padre mi costringeva alle falde del Monte Rosa ovvero dei panorami mozzafiato della mia Val d’Ayas, non basta che andiate in solluchero dinnanzi alla mirabile sapienza con cui vi dipingo lo squallore del fondovalle della Valsesia oppure che lanciate gridolini di soddisfazione davanti alla perfetta resa cinematografica di alcune parti del racconto (alludo alla vicenda del cane selvatico che fa strage di suoi simili per poi finire trucidato anche lui).
      Conoscete senz’altro tutti il significato del termine filigrana. Ebbene, voi dovete mettere a fuoco la filigrana che si intravvede dietro alle mie pagine. Così facendo, vi accorgerete che quello che mi sta davvero a cuore e che mi preme raccontare non sono gli scenari alpestri tipo salta il camoscio tuona la valanga. Non sono né il Cervino formato grappa del Mike nazionale, né le alte quote da cui sgorga l’acqua levissima altissima e purissima di messneriana memoria. Altri sono i territori che a me interessa esplorare, altre le vette che mi attraggono, altri gli abissi che mi terrorizzano. A me interessa addentrarmi nei legami, spesso sotterranei e pertanto di difficile accesso, che mi legano o che mi hanno legato ai membri della mia famiglia, in particolare a mio padre buonanima, il padre costituisce la vera e propria chiave di volta per capire la mia esistenza e, di conseguenza, la mia narrazione e il mio mestiere di scrittore. E’ mio padre, meglio, sono l’analisi dei miei rapporti con lui e delle difficoltà che, come accade spesso ai figli, ho incontrato per rendermi autonomo da lui, che conferiscono coerente unità ai miei romanzi. (Tra parentesi io sono un inguaribile fan di Aristotele e della sua regola aurea dell’unità di azione). A questo proposito consiglio ai miei venticinque lettori di far precedere la lettura di Giù nella valle da quella di Le otto montagne.
      Ma veniamo a bomba ed entriamo nel merito.
      Ma davvero credete, amici cari, che il titolo “Le otto montagne” mi sia imputabile? Davvero pensate che un tale obbrobrio letterale semantico sia farina del mio sacco e non provenga piuttosto dal mulino di quel balengo del mio Editore? Buona evidentemente la seconda.
      Ora converrete con me che il titolo di un romanzo deve avere un minimo di sex appeal letterario, deve catturare l’attenzione del lettore, deve far leva sul suo desiderio di sollevarsi dalla spesso faticosa realtà quotidiana per planare verso le sconfinate praterie della felicità. E’ una questione di marketing. Il titolo deve essere indizio della bontà del prodotto, il lettore consumatore deve convincersi ad acquistare quel tomo perché qualcosa nel titolo lo persuade della validità della scelta.
      Di là dal fiume e tra gli alberi, Per chi suona la campana, Addio alle armi, Pian della Tortilla, Uomini e topi, I pascoli del cielo, La capanna dello zio Tom, Racconti straordinari, Viaggio al centro della terra, Fiorirà l’aspidistra, Vedrò Singapore?, La stanza del vescovo, Il sergente nella neve, La fattoria degli animali, Il conte di Montecristo, Gita a Tindari, Il mulino del Po, La ragazza di BUBE, Papillon, Cronache marziane, La regina d’Africa, Nome d’arte Doris Brilli, Sofia si veste sempre di nero, Sentieri sotto la neve, La felicità del lupo, Il campo del vasaro, L’ultimo dei Mohicani sono esempi di titoli accattivanti, la cui forza attrattiva mi pare risieda in una certa solida concretezza semantica, che suggerisce una pari solidità e concretezza del volume.
      Intendiamoci, non vi è nulla di matematicamente certo in quello che dico, qui siamo in un campo, quello della suggestione commercial pubblicitaria, che non appartiene all’universo delle scienze esatte ma piuttosto confina con quello dei messaggi subliminali.
      Detto questo non vi è ombra di dubbio che un titolo quale “Le otto montagne” possieda il fascino evocatore di un bilancio societario o di un inventario notarile. Mi vengono in mente rassegne numeriche dall’indiscutibile charme ragionieristico quali I dieci comandamenti, Le sette virtù cardinali, I sette vizi capitali, Le dieci piaghe d’Egitto e via elencando.
      Ad essere sotto accusa è l’uso dell’articolo determinativo seguito dall’aggettivo numerale cardinale che dovrebbero qualificare un sostantivo, montagne, estremamente generico e anonimo, e che lasciano il lettore imbarazzato e disorientato. Si chiede il lettore: di quali montagne stiamo parlando? Il termine spazia dagli Appennini alle Ande, dalle Alpi agli Urali, dalle Cevennes alla catena himalayana, dai Pirenei agli ALLEGANI. E perché le montagne sono otto e non dieci o cinquanta?
      Ben altra potenza evocativa riveste il titolo “La montagna incantata”. La curiosità del lettore è stimolata dall’aggettivo qualificativo, che fa riemergere dai meandri della memoria echi di fiabe che lo riportano indietro nel tempo: l’aspettativa è che il libro compia il miracolo, annullando il trascorrere del tempo, di consegnarlo ad una eterna fanciullezza.
      Io non ho letto il romanzo di Mann e può darsi che, leggendolo, le mie aspettative sarebbero disattese. Certo è che il clamoroso successo della mia penultima fatica non è dipeso dal suo titolo bensì dalla intrinseca bontà del prodotto oltre che, se mi permettete, dal forte richiamo pubblicitario rappresentato dalla mia persona e dagli indubbi exploit dei miei precedenti romanzi.
      “La settima montagna” come titolo sarebbe stato più seduttivo, anche perché avrebbe riecheggiato il capolavoro BERGMANIANO Il settimo sigillo e il romanzo di evasione Il settimo papiro.
      Insomma, amici cari, qui non stiamo a disquisire del sesso degli angeli. E’ vero che esistono sempiterni capolavori della letteratura con un titolo che fa letteralmente cagare. Ma nessun editor con un minimo di sensibilità commerciale si sognerebbe oggigiorno di pubblicare La divina commedia o La Gerusalemme liberata con siffatti titoli.
      Ma passiamo adesso alla mia ultima fatica, costituita appunto dal romanzo Giù nella valle.
      Non sfuggirà certo ai miei venticinque milioni di lettori il palese richiamo contenuto nel titolo ad una celeberrima canzone degli alpini risalente alla prima guerra mondiale, ma che fa ancora prepotentemente parte dell’immaginario collettivo canoro degli alpini . Eccone alcune strofe:

      Giù nella valle
      c’è un’osteria
      l’è l’allegria
      l’è l’allegria
      giù nella valle
      c’è un’osteria
      l’è l’allegria
      di noi Alpin.
      E se son pallida
      nei miei colori
      non voglio dottori
      non voglio dottori
      e se son pallida
      come una strassa
      vinassa vinassa
      e fiaschi de vin.

      Giù nella valle
      c’è un punto nero
      l’è il cimitero
      l’è il cimitero
      giù nella valle
      c’è un punto nero
      l’è il cimitero
      di noi Alpin.
      E se son pallida
      nei miei colori
      non voglio dottori
      non voglio dottori
      e se son pallida
      come una strassa
      vinassa vinassa
      e fiaschi de vin.

      A dirla tutta, in realtà la canzone recita Là nella valle e non Giù nella valle, ma per piacere fatemi la cortesia di non sottilizzare troppo. Su, giù, qui, là, lì sempre di avverbi di luogo si tratta e poi guardiamo alla sostanza del discorso. Siamo in presenza di una geniale strategia di marketing. I lettori consumatori che hanno avuto, ed hanno, la fortuna di fare il servizio militare nel corpo degli Alpini si contano ancora a milioni. Per ognuno di essi il termine Giù nella valle è un riflesso condizionato di tipo pavloviano che li catapulta immediatamente in un passato fatto di amicizie virili, marce, di muli, di omeriche bevute e di altrettante omeriche cantate. Lo stimolo a fiondarsi in libreria per accaparrarsi il prezioso cimelio della memoria sarà irrefrenabile, facendo schizzare alle stelle le quotazioni delle mie royalties. Va da se che rivendico questo titolo come esclusiva farina del mio sacco, a differenza di quello su cui vi ho intrattenuto sopra che, ripeto, disconosco in toto.
      Vi è poi un aspetto che giudico di grande interesse e sul quale voglio attirare la vostra attenzione.
      Sia nella canzone che nel mio romanzo si respira un’atmosfera profondamente dionisiaca, ma di segno opposto.
      La canzone parla di un’osteria che fa rima con allegria, parla del vino che è non solo fonte di allegria ma anche un toccasana, un rimedio per curare i mali del corpo e dello spirito. La potenza salvifica del vino ha la meglio sul pallore fisico ma anche sul pallore dell’animo, entrambi destinati a riacquistare colore e vivacità.
      In parte diverso è il ruolo delle osterie, del vino e, in genere, dell’alcool, nel mio romanzo. Le osterie, trattorie, ristoranti, locande e bettole sono sì luogo di ritrovo e di socializzazione, dove peraltro il rito della bevuta trascende sovente in atti di cieca e insensata violenza. L’assunzione di alcool in quantità industriali e condotta con metodo meticoloso è la nota caratteristica e identitaria dei due fratelli protagonisti della storia.
      Alfredo, il più debole dei due, quello al quale ho assegnato il ruolo un po’ bohemien di bello e dannato, si stordirà a tal punto da compiere un tentativo di omicidio assolutamente gratuito, tra l’altro nei confronti di un suo amico, la cui unica spiegazione risiede nello stato di totale ottundimento causato da un mix micidiale di gin e prosecco.
      Ma anche Luigi, il fratello buono, al quale ho assegnato un posto di guardia forestale tutore della legalità soprattutto ambientale, è un convinto seguace del dio Dioniso.
      Va peraltro aggiunto che con l’aiuto di Dioniso i due riusciranno comunque a superare le difficoltà caratteriali di instaurare un rapporto positivo tra di loro e saranno in grado di manifestarsi reciprocamente un simulacro di stima e di affetto.
      Poi mi preme evidenziare che nella canzone degli alpini è presente un altro elemento che ritroviamo altresì nel mio romanzo.
      Parlo della morte. Nella canzone la morte è rappresentata dal cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati caduti in guerra.
      Nel romanzo la morte fa la sua apparizione in molteplici occasioni.
      Fin dall’esordio muoiono otto cani (e dagli con la cabala dell’otto!) assassinati da un loro collega, forse un incrocio con un lupo, assatanato e desideroso di sfogare sui suoi simili la rabbia accumulata in corpo, rabbia che trova probabilmente origine nelle sevizie e maltrattamenti cui è stato sottoposto.
      Di ognuno descrivo il decesso con dovizia di particolari, sembra quasi che io provi un qualche morboso piacere nel rendicontare queste morti.
      Descrivo poi la morte del killer ad opera di un branco di cacciatori e anche qui non mi risparmio i particolari.
      Ma la morte che nell’economia del romanzo riveste una rilevanza particolare è la morte del padre dei due fratelli, Grato, che si suicida sparandosi il fucile da cacciatore in gola.
      Anche in Le otto montagne vi è un padre protagonista. E’ un padre invadente, egoista, preoccupato unicamente di gareggiare con se stesso e con gli altri per il gusto di arrivare primo in cima alle vette. E’ un padre che il protagonista di quel romanzo mal sopporta, ma che un malinteso senso di devozione figliale costringe a rispettare e ad assecondare.
      In Giù nella valle, questo padre finalmente si toglie di mezzo, libera i figli della sua ingombrante presenza e i figli possono finalmente respirare. In particolare Luigi riuscirà a dare una positiva svolta alla sua esistenza, supportato dalla gradevole e benefica presenza della moglie Elisabetta, che lo renderà padre di un bel maschietto, e colla quale ricomincerà una nuova e forse appagante esistenza nella casa di montagna ereditata dal padre, che provvederà a ristrutturare.
      Diversa la sorte di Alfredo, condannato ad una esistenza di perpetuo fuggiasco latitante.
      Per concludere, dirò, “pappagallando” Flaubert, che sia Le otto montagne che Giù nella valle c’est moi.
      Quando poco sopra consigliavo di leggere i due romanzi uno di seguito all’altro volevo dire questo: nel primo il protagonista si muove un po’ alla cieca, a tentoni. Pietro cerca disperatamente di annullare le barriere che lo dividono dal padre, ma senza successo. E’ così che cerca un surrogato di padre, o di fratello maggiore, nella figura di Bruno, col quale stringerà una amicizia solida e inossidabile, fino alla morte dell’amico. Si tratta peraltro di un rapporto senz’altro autentico ma che, nella sua essenza simbiotica, evidenzia un rapporto di dipendenza psicologica di Pietro da Bruno.
      Per contro, in Giù nella valle Luigi diventa adulto, finisce per non avere più bisogno né di padri, né di fratelli, né di amici. La stella polare che da allora in avanti lo guiderà sarà una donna, Betta, e la prospettiva di diventare a breve padre.
      Leggo pertanto in entrambi i romanzi una filigrana di tipo psicoanalitico.
      Le montagne, come potete vedere, rivestono pertanto un ruolo decisamente da comparsa e non da protagonista.
      Il primo che si azzarderà a darmi dello scrittore di montagna, giuro che lo prendo a calci in culo.
      Ma voglio concludere questo ameno florilegio di sproloqui con una confessione.
      In realtà io sono perfettamente consapevole che la montagna non ha mai avuto finora una grande fortuna nella storia della letteratura, non ha mai praticamente funzionato come set di particolare successo.
      Gli autori la cui Musa alberga sulle innevate vette sono rarissimi e ho qualche difficoltà ad individuarne qualcuno di qualche spessore.
      C’è il vecchio buon Rigoni con le sue cronache di alpino in guerra sulle montagne della Valle d’Aosta e dell’Albania, c’è qualche passo del buon vecchio Ernst che va a sciare in Svizzera, c’è il caro buon vecchio Buzzati e la sua fortezza Bastiani arroccata in montagna ma in verità qui a rubare la scena non è tanto la montagna in quanto tale, quanto il deserto che la circonda. Vi sono i raccontini del buon Giacosa ambientati in Valle d’Aosta, ma sono talmente sbiaditi e privi di charme che è meglio non parlarne.
      Le colline, Pavese insegna, devo dire che hanno riscosso maggiore successo e sono decisamente più gettonate.
      E se passiamo dalla prosa alla poesia le cose non vanno poi meglio, anzi. A parte il camoscio che salta e la valanga che tuona non vedo altri grandi exploit.
      Rimanendo in tema di valanghe, la montagna ha avuto invece maggior successo nella cinematografia, soprattutto in quella catastrofista, con la pletora di valanghe assassine. Per non parlare del vecchio Herzog, beninteso su di un piano decisamente più alto.
      Per contro, volete mettere invece la popolarità di cui mari e oceani hanno goduto e continuano a godere in letteratura ?.
      A cominciare dal buon vecchio Omero e dalla sua Odissea ambientata nel Mediterraneo.
      E che ne dite di:
      Il vecchio e il mare, L’isola misteriosa, L’isola del tesoro, I mari del sud del vecchio Jack, buona parte dei romanzi del buon vecchio Salgari e del buon vecchio Cecil Scott Forester col suo capitano di lungo corso Hornblower, per non parlare di Moby Dick , di Conrad, di Melville, di Ventimila leghe sotto i mari e via veleggiando ?
      Il mare è evidentemente più fotogenico rispetto alla montagna, attira di più il pubblico.
      Il vecchio caro buon Sigmund spiegherebbe che forse il mare, e soprattutto la mer, rimandano alla madre (mère), all’inconscia nostalgia del grembo materno e via cazzeggiando.
      Tanto premesso, non stupitevi se il mio prossimo romanzo deciderò di ambientarlo sull’isola d’Elba.

      P.S.
      Voi tutti accaniti frequentatori di blog social fessbuc e amenità simili sapete che uno dei miei Virgili, lo mio principale duca e lo mio autore, il padre letterario di cui mi compiaccio di essere figlio, erede e fedele esecutore testamentario è il buon vecchio Jack LONDON. Sapete anche che al secondo posto figura il caro Ernst. Sapete anche, e se non lo sapete, vi aggiorno io, che entrambi hanno lasciato questa valle di lacrime suicidandosi.
      Hemingway sparandosi col fucile da caccia, LONDON come ultimo atto di una vita passata a nuotare nell’alcool. In somma, un po’ la fine che ha fatto il padre di Luigi e che probabilmente è destinato a fare suo fratello Alfredo.
      Buona sera a tutti.
      Claudio GARD

      1. Claudio GARD, se lei pubblicasse qualcosa, io leggerei tutto con avidità fino all’ultima riga.
        (Sono davvero desolata, il suo commento, così prezioso ai miei occhi, era finito nella casella spam)

  2. ” ha ritenuto che farci morire così presto sarebbe stata un’ingiustizia universale.”
    vorrei avere un millesimo della tua sicumera :)) sarebbe un corroborante per l’autostima.
    33 anni? stavo per scrivere con tutta l’ironia spicciola di cui sono capace, ma poi non so perché ho fatto una ricerca e ho scoperto che l’uomo a cui avrei alluso morì a 36 anni e non a 33 come si crede 🙂

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