M come Mare

“Vivo al mare. Questo è risaputo. Chiunque mi conosca, poco o tanto, ne è al corrente. Ezio vive al mare. Lo so anch’io. Fra tutte le persone che conosco, sono quella che vive più vicino al mare: proprio appena sopra: ci arrivo in tre minuti, a piedi: nel giro di tre minuti, i miei piedi sono in grado di passare dalle lenzuola al mare: non è molto come tempo: e non è poco, come favore della fortuna: lo apprezzo ogni mattina. Il mare, nella mia vista, nella mia vita, occupa un posto immenso. Questo, del resto, è tipico del mare: dove c’è, occupa un grande spazio. Le mie giornate traboccano di mare: le mie finestre anche: è la prima cosa che mi allaga gli occhi ogni mattina: spalanco le imposte e, innanzitutto, al di sopra di tutto, vedo il mare: si può fare una prova, volendo, un giocoso tentativo di ignorarlo, o semplicemente di tardarne l’irruzione di un secondo: pensare, per esempio: ora getto fuori le imposte e non lo guardo: guardo il mandorlo, il plumbago, i piumini delle canne, l’ulivo, la mimosa: guardo il cielo: guardo il pavimento di cotto del terrazzo: guardo Idra, mentre mi salta addosso scodinzolando, mentre mi scalza il piede e se lo prende in bocca: guardo la superficie bianca del tavolo di plastica, per vedere se i calabroni che nidificano nei fori delle canne hanno fatto pulizia anche questa notte: niente da fare, li guardi, sì, ma dopo: dopo il mare: il primo spiraglio di luce, sottile, verticale, fra i due battenti spinti in fuori, è già tutto liquido di azzurro: o di grigio carico, sotto le nuvole, denso e mollemente instabile come metallo fuso: o di un biancoblù tumultuoso, festoso, spumeggiante alle frustate furenti del maestrale: liquido, comunque: il primo lampo di luce che entra in casa, che allaga gli occhi, è la mobilità del mare, il suo colore inquieto, il suo barbaglio. Scendo spesso al mare: quasi ogni giorno: solo le polmoniti e le tempeste mi trattengono dal posare i piedi nudi sulla sabbia: solo gennaio e febbraio mi persuadono a rinunciare pregiudizialmente al bagno: negli altri mesi, anche di primo o tardo inverno, purché il sole sia forte e il vento mite, nuoto: magari poco, però nuoto: sovente, nelle stagioni morte, da ottobre a maggio, sono il solo essere umano presente nell’universo a me visibile: cammino scalzo lungo l’arco della spiaggia, sulla sabbia compatta e sfriggolante, dove la risacca si frastaglia: ogni cinquanta o cento passi, mi curvo a raccogliere una pietra, grigia o rossastra, levigata ma non troppo leggera: nei giorni di bonaccia o in quelli tropicali di levante, quando il vento di terra spiana il mare, sottocosta, e sembra quasi ricacciato indietro, verso le creste bianche che fuggono oltre le due punte della baia, mi piace scagliare qualche pietra liscia a pelo d’acqua e vederla saltare cinque volte, sette, o dieci addirittura, e poi planare dolcemente, sollevando minuscoli spruzzi, come un surf in miniatura, e inabissarsi: è un gioco infantile e grazioso, che mi rallegra sempre: il sasso diventa come vivo, come intelligente, animato da un suo progetto segreto, da una sua idea di viaggio covata lungamente nel letargo, negli ozi soffici e roventi sulla semola bionda della sabbia: accade a volte che un’asperità della sua forma, una bizzarria del suo disegno o il dispetto improvviso di  un refolo di brezza che gli solleva dinanzi un ciuffo d’acqua imprimano una svolta così secca e decisa alla sua rotta da farmelo apparire un animale, e da lasciare me di sasso: la deviazione non ne rallenta la corsa: addirittura, nel liberarsi dalla linea prevista dal mio cuore, sembra acquistare un nuovo slancio, far scattare la molla di un suo proprio muscolo, saltare come un pesce, tuffarsi nell’abisso come una sua creatura: come se la mia mano, con il suo gioco tenero, innocente, gli avesse restituito una vita sospesa, sepolta nell’oblio. Ma è quando me ne tengo discosto, quando passeggio sull’asfalto della strada che discende in ampie svolte da casa mia verso la piana, o su per il sentiero che ne sale intricato, spinoso, fino alla chiesetta diroccata posata come un osservatorio in cima al colle, o sui tratturi d’erba stretti stretti, profumati, tagliati come soffici gallerie fra le villette bianche, è allora che il mare, accantonato, messo in disparte, irrompe nello spazio con tutta la sua forza incontenibile, grandiosa: non si può non occuparsene: gli occhi ne sono risucchiati, travolti da un’attrazione che vince qualsiasi deliberata resistenza, vi precipitano dalle vette come cormorani affamati, si arrampicano su per tutti i muri, su per tutti i rami per appendersi alla sottile striscia di azzurro che li sovrasta, guizzano obliquamente nella fenditura fra due case per tuffarvisi un istante, assetati, innamorati, insaziabili, monogami. Il mare è sempre là, là dov’è il suo posto e dove tu lo cerchi, come una montagna, ma non inerte: mobile, nervoso: il mare è vivo, benché sia il re della chimica inorganica: il mare rassicura, o forse inganna: anima l’inanimato e dà colore all’incolore. Di notte, poi, respira, con un ansito quieto e febbrile, infantile e poderoso, giocoso e disperato che non si può descrivere o evocare: si può solo stare, supini, a navigarvi: si galleggia su quel suono, si va, per ore e ore: con la stessa facilità irridente, schiacciante e vaporosa, indifferente, può inzupparti il cuore di esaltazione gioiosa o le palpebre di pianto. Questo, tutto questo e altro ancora, è il mare come presenza, come vicinanza. Poi c’è il mare come distanza, come assenza. L’oltremare. Il mare che ho messo fra me e il mondo: fra me e me.” Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario

Per me è come un déjà-vu di estati in cui esercitavo la meraviglia. E raccontarsela non era peccato.

The Bear (every second counts)

  • The Bear - Hulu Series - Where To Watch

Che peccato. Era partita così bene da mettere d’accordo pubblico e critica: serie imperdibile, dicevano. Poi è arrivata la terza stagione ed è parso subito evidente che la forza affabulatoria che aveva decretato la spettacolarità delle prime due si era dissolta. Non è bastato l’innesto di ulteriori flashback, né hanno fatto la differenza le canzoni usate pretestuosamente a riempire spazi che la trama scarna aveva lasciato vuoti di parole. Sono mancate le nevrosi di chef Carmy (in realtà ancora presenti ma sotto forma di digressioni inutili) e l’irascibilità di Richie, redento dallo stage a base di every second counts della seconda stagione. Ma, soprattutto, a mancare sono state scene come quella in cui un’impareggiabile Jamie Lee Curtis, nel ruolo della madre alcolista dei fratelli Berzatto, durante la cena di Natale perde il controllo e lascia affiorare il peggio di sé.

Ora, è noto a tutti che se un prodotto funziona va tenuto in vita, e che in assenza di spunti interessanti si opta per una ricetta svuotafrigo (fuor di metafora un escamotage interessante, meno se si ha la pretesa di intrattenere). Ma cosa dire degli spettatori che, nonostante subodorino fin dal primo episodio che niente è come prima, sono incapaci di scavallare l’asfittica prolissità di un racconto che non racconta più? C’entra forse quella forma di attaccamento morboso che ci tiene uniti all’altro/a pur consci che l’amore ha saldato il debito alla delusione? Va da sé che non sarà d’aiuto dare la stura alle lagnanze, specialmente se precedenti sessioni di binge watching ci avevano messo sull’avviso. Meglio, dovessero ripresentarsi le stesse premesse, risolversi per una sollevazione di tipo gandhiano. Sollevazione dalla poltrona, of course.

Fire the bastards

Dicono che d’estate si legge di più. Non è vero. Si comprano più libri, questo sì, ma solo perché resiste la tradizione di portarsi un best seller in vacanza: il piacere della lettura non c’entra una mazza, direbbe l’amico Arien. I libri più venduti sono i romanzi, i meno venduti i libri difficili, ovvio. Ma siamo proprio certi dell’esistenza dei libri difficili? non sarebbe più corretto dire che ogni lettore sceglie in base al sostrato culturale, e che se tale sostrato è poca cosa opta per un titolo che non lo affatichi? Ora, posto che ognuno fa come gli pare e che scegliere un libro facile non è di per sé un disvalore, resta il problema dell’approccio sbagliato, e imperdonabile, che certa critica ha con i libri difficili. Illuminante a tal proposito quanto scrive Vanni Santoni recensendo Le peripezie di William Gaddis:

“Decisivo nella rivalutazione della Peripezie fu il critico Jack Green, con un pezzo uscito sulla rivista autoprodotta «Newspaper» e intitolato Fire the bastards, ovvero «licenziate quei bastardi», in cui i bastardi in questione erano i critici che avevano ignorato il romanzo o ne avevano parlato male; e tanto veemente fu Green nella difesa dello status di capolavoro delle Peripezie da essere accusato di essere egli stesso William Gaddis”.

Ecco, in questo momento vorrei essere Jack Green e fustigare la giuria del Premio Strega 2024, perché è lampante che quei signori il libro di Tommaso Giartosio, benché non lo abbiano ignorato, lo hanno letto solo in parte. Forse i libri difficili esistono… per beffarsi dei critici incompetenti.