L come Lontano

Come detto in precedenza, certe cose sembrano scritte proprio per me. E il piacere che ne traggo, in una sorta di compiacimento solipsistico, non subisce smerlature neppure in pieno agosto, con buona pace della pelle abbronzata che racconta altro. Quell’altro che per pochi giorni è stato altrove, ma ha continuato a farsi assenza perché, al pari di Clara, io sono lontano. E tuttavia impagabilmente presente a me stessa quando, dimentica della cacciata dall’Eden, faccio il morto a galla, e sento che vivere non è più un dovere.

[…] Lontano, di certo, è un aggettivo che mi piace: anzi, a voler essere puntigliosi, mi piace, ancor più che come aggettivo, come avverbio, nella sua assolutezza slegata da qualsiasi relazione, e dunque ulteriormente allontanata da ogni oggetto: lontano è una parola che pacifica, che libera: se posso pensar lontano, non sono prigioniero. Lontano non è altrove, avverbio che piace invece molto a Sara: altrove, evidentemente, può essere vicino, vicinissimo: semplicemente non è qui. […] Conosco una persona che è lontano: è Clara. Clara è la ragazza che, quando la sua lontananza si attenua leggermente, si avvicina: così si usa dire in Sardegna. […] Queste specificità lessicali non sono, com’è facile intuire, puramente lessicali, ma sono l’espressione di specificità caratteriali se non addirittura filosofiche che si addensano intorno alla complessa questione dello spazio, del movimento e delle relazioni. […] Clara si avvicina, circa una volta la settimana, con uno scopo ambizioso e disperato: rallentare gli effetti ineluttabili del secondo principio della termodinamica, opporsi all’entropia, ritardare il momento in cui la tendenza della materia a ristabilire il gaio equilibrio del disordine trasformerà questa casetta bianca in una raffigurazione in miniatura del caos primigenio […] Clara, in parole povere, e anzi, applicate alla sua graziosa persona, miserabili, è la ragazza delle pulizie. Clara è lontano: non solo perché si avvicina da una distanza del tutto sproporzionata allo scopo ed al compenso: abita a circa settanta chilometri da qui […] Clara è lontano: non solo perché ha ventisei anni e da sei ha scoperto nel suo sangue quella che, con tecnico distacco, chiama “l’infezione”: anche l’infezione, come l’indifferenza al calcolo, non è che un simbolo e una manifestazione del suo essere lontano. […] Clara, nella lontananza, cova qualche suo oscuro e limpidissimo progetto, della cui forma e struttura ed intenzione è al tutto ignara, ma che, come un pollone, preme dolcemente e imperiosamente in qualche punto di lei per spuntar fuori: c’è, nella sua sublime indifferenza al calcolo e alla misurazione dello spazio, nell’assorta accettazione del destino e nella vertiginosa superiorità alle sue radici, nel misterioso intreccio di consapevolezza e inconsapevolezza, di inerzia e movimento, di reperibilità e di lontananza, c’è in Clara la traccia di un’arcana difformità biologica che le conferisce ai miei occhi una natura vegetale: Clara, un giorno o l’altro, nella sua lontananza, farà qualcosa di miracolosamente superfluo, come un fiore. […] Clara accetta volentieri i miei caffè, quello mattutino, o più frequentemente meridiano, e quello postprandiale: sediamo a un angolo di tavolo sottratto provvisoriamente all’entropia domestica, in soggiorno o sul terrazzo, fra cucce e ciotole di gatti e scintillii di mare: bere il caffè con Clara e fumare con lei tre sigarette è per me sommamente piacevole perché, con Clara, mi è sommamente piacevole parlare: Clara è lontano, lontano al punto giusto: il suo pensiero, pulitissimo e attratto dall’oscuro, spazzola la realtà con effetti sorprendenti. Clara, poiché la lontananza è la forma meno moralistica e più personale d’innocenza, è al tempo stesso saggia e fanciullesca: Clara legge: è questo uno dei metodi più efficaci che ha trovato per portare a ebollizione il suo pensiero: di tanto in tanto, dietro sua richiesta, le presto qualche libro: scegliere un libro per Clara non è facile, perché è una lettrice di tipo un po’ speciale: non è corrotta dalle gerarchie convenzionali: non ce la si può cavare andando sul sicuro: le glorie della Francia, della Russia, le celebrità internazionali: Clara non legge per posa, ma per sete: Clara è abbastanza lontano per capire che l’ignoranza è una voragine infinita, un pozzo senza fondo, e non una lacuna che qualche libro ben scelto può colmare: un libro può aprire buchi, se è un buon libro, non richiuderne: Clara, in un romanzo, cerca un punto di vista originale sulla vita: perciò non è facile alimentarne con successo la sete di lettura: con Max Frisch mi è andata molto bene, con altri ho fatto fiasco.

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario

M come Mare

“Vivo al mare. Questo è risaputo. Chiunque mi conosca, poco o tanto, ne è al corrente. Ezio vive al mare. Lo so anch’io. Fra tutte le persone che conosco, sono quella che vive più vicino al mare: proprio appena sopra: ci arrivo in tre minuti, a piedi: nel giro di tre minuti, i miei piedi sono in grado di passare dalle lenzuola al mare: non è molto come tempo: e non è poco, come favore della fortuna: lo apprezzo ogni mattina. Il mare, nella mia vista, nella mia vita, occupa un posto immenso. Questo, del resto, è tipico del mare: dove c’è, occupa un grande spazio. Le mie giornate traboccano di mare: le mie finestre anche: è la prima cosa che mi allaga gli occhi ogni mattina: spalanco le imposte e, innanzitutto, al di sopra di tutto, vedo il mare: si può fare una prova, volendo, un giocoso tentativo di ignorarlo, o semplicemente di tardarne l’irruzione di un secondo: pensare, per esempio: ora getto fuori le imposte e non lo guardo: guardo il mandorlo, il plumbago, i piumini delle canne, l’ulivo, la mimosa: guardo il cielo: guardo il pavimento di cotto del terrazzo: guardo Idra, mentre mi salta addosso scodinzolando, mentre mi scalza il piede e se lo prende in bocca: guardo la superficie bianca del tavolo di plastica, per vedere se i calabroni che nidificano nei fori delle canne hanno fatto pulizia anche questa notte: niente da fare, li guardi, sì, ma dopo: dopo il mare: il primo spiraglio di luce, sottile, verticale, fra i due battenti spinti in fuori, è già tutto liquido di azzurro: o di grigio carico, sotto le nuvole, denso e mollemente instabile come metallo fuso: o di un biancoblù tumultuoso, festoso, spumeggiante alle frustate furenti del maestrale: liquido, comunque: il primo lampo di luce che entra in casa, che allaga gli occhi, è la mobilità del mare, il suo colore inquieto, il suo barbaglio. Scendo spesso al mare: quasi ogni giorno: solo le polmoniti e le tempeste mi trattengono dal posare i piedi nudi sulla sabbia: solo gennaio e febbraio mi persuadono a rinunciare pregiudizialmente al bagno: negli altri mesi, anche di primo o tardo inverno, purché il sole sia forte e il vento mite, nuoto: magari poco, però nuoto: sovente, nelle stagioni morte, da ottobre a maggio, sono il solo essere umano presente nell’universo a me visibile: cammino scalzo lungo l’arco della spiaggia, sulla sabbia compatta e sfriggolante, dove la risacca si frastaglia: ogni cinquanta o cento passi, mi curvo a raccogliere una pietra, grigia o rossastra, levigata ma non troppo leggera: nei giorni di bonaccia o in quelli tropicali di levante, quando il vento di terra spiana il mare, sottocosta, e sembra quasi ricacciato indietro, verso le creste bianche che fuggono oltre le due punte della baia, mi piace scagliare qualche pietra liscia a pelo d’acqua e vederla saltare cinque volte, sette, o dieci addirittura, e poi planare dolcemente, sollevando minuscoli spruzzi, come un surf in miniatura, e inabissarsi: è un gioco infantile e grazioso, che mi rallegra sempre: il sasso diventa come vivo, come intelligente, animato da un suo progetto segreto, da una sua idea di viaggio covata lungamente nel letargo, negli ozi soffici e roventi sulla semola bionda della sabbia: accade a volte che un’asperità della sua forma, una bizzarria del suo disegno o il dispetto improvviso di  un refolo di brezza che gli solleva dinanzi un ciuffo d’acqua imprimano una svolta così secca e decisa alla sua rotta da farmelo apparire un animale, e da lasciare me di sasso: la deviazione non ne rallenta la corsa: addirittura, nel liberarsi dalla linea prevista dal mio cuore, sembra acquistare un nuovo slancio, far scattare la molla di un suo proprio muscolo, saltare come un pesce, tuffarsi nell’abisso come una sua creatura: come se la mia mano, con il suo gioco tenero, innocente, gli avesse restituito una vita sospesa, sepolta nell’oblio. Ma è quando me ne tengo discosto, quando passeggio sull’asfalto della strada che discende in ampie svolte da casa mia verso la piana, o su per il sentiero che ne sale intricato, spinoso, fino alla chiesetta diroccata posata come un osservatorio in cima al colle, o sui tratturi d’erba stretti stretti, profumati, tagliati come soffici gallerie fra le villette bianche, è allora che il mare, accantonato, messo in disparte, irrompe nello spazio con tutta la sua forza incontenibile, grandiosa: non si può non occuparsene: gli occhi ne sono risucchiati, travolti da un’attrazione che vince qualsiasi deliberata resistenza, vi precipitano dalle vette come cormorani affamati, si arrampicano su per tutti i muri, su per tutti i rami per appendersi alla sottile striscia di azzurro che li sovrasta, guizzano obliquamente nella fenditura fra due case per tuffarvisi un istante, assetati, innamorati, insaziabili, monogami. Il mare è sempre là, là dov’è il suo posto e dove tu lo cerchi, come una montagna, ma non inerte: mobile, nervoso: il mare è vivo, benché sia il re della chimica inorganica: il mare rassicura, o forse inganna: anima l’inanimato e dà colore all’incolore. Di notte, poi, respira, con un ansito quieto e febbrile, infantile e poderoso, giocoso e disperato che non si può descrivere o evocare: si può solo stare, supini, a navigarvi: si galleggia su quel suono, si va, per ore e ore: con la stessa facilità irridente, schiacciante e vaporosa, indifferente, può inzupparti il cuore di esaltazione gioiosa o le palpebre di pianto. Questo, tutto questo e altro ancora, è il mare come presenza, come vicinanza. Poi c’è il mare come distanza, come assenza. L’oltremare. Il mare che ho messo fra me e il mondo: fra me e me.” Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario

Per me è come un déjà-vu di estati in cui esercitavo la meraviglia. E raccontarsela non era peccato.

U come umanità

Sardegna, Il Cuore”: un progetto per sviluppare il turismo nella Sardegna interna - S&H Magazine

C’è poco da fare: benché si fatichi ad ammetterlo, esistono persone che ci somigliano. Ma il riconoscersi nell’altro è un miracolo che spesso si risolve in un sguardo d’intesa fugace oppure in un ma dai anche tu così aleatorio che interrogare una fattucchiera per conoscere il futuro sarebbe una mossa meno azzardata. La mancata biunivocità di intenti, interessi, aspirazioni è giustificata dal fatto che l’umanità è da tempo asservita all’attimo fuggente, inteso nell’accezione opposta a quella dell’omonimo film di Peter Weir, ovvero priva di una qualsiasi forma di preziosità. A conti fatti, i miei neuroni specchio si attivano soprattutto quando mi imbatto in pagine di letteratura in cui è lampante la missione politica ed estetica di chi le ha scritte. Talvolta, bastano un lupo, una gatta e una lavatrice. Ma questa è un’altra storia.

U come umanità. Da quando abito in Sardegna l’umanità non è di certo, fra le varie manifestazioni della biologia, quella che frequento maggiormente. Ho rapporti assai più intensi con le piante e i fiori e, obtorto collo, con i gatti. Vivo lunghi periodi di volontario esilio, qui a Geremeas, che, nelle stagioni morte, non è meno deserta di un deserto. […] L’umanità è un fastidio non da poco. Ora che me ne sono allontanato, vedo con chiarezza abbacinante quanto sia fastidiosa, ingombrante, invasiva, maldestra e catastrofica. La Sardegna è in qualche modo un terreno di coltura ideale per lo studio dei comportamenti del batterio Uomo. Qui tutto è più violento, più forte, più luminoso e contrastato: il sole e le tempeste, il vento e le bonacce, la bellezza e l’orrore, la dolcezza e la ferocia. In questo quadro dal cromatismo così fondamentale, elementare, l’uomo non si cura affatto di edulcorare o di dissimulare la sua natura barbarica o, meglio ancora, la sua barbarica estraneità alla natura. Non ci sono, qui, cuscinetti illusori che ammorbidiscano l’impatto apocalittico dell’uomo sull’ambiente, dell’uomo sulle altre specie viventi e su sé stesso. […] Non c’è niente da fare, niente. L’umanità è mossa da un odio insondabile e feroce contro tutto ciò che può esser sospettato d’essere bello, pulito e dignitoso.”

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontario

Sull’amore e altri accidenti

Dell’amore si è detto tutto e il contrario di tutto. Spesso proprio in questi termini, in via liquidatoria. Ma con buona pace di speculazioni dotte e meno dotte, l’amore resta un assillo che non risparmia nessuno, eccezion fatta per chi l’amore ce l’ha o crede di averlo. Bene. Poi un giorno arriva la poetessa Patrizia Cavalli, e in un postprandiale durante il quale l’ultimo dei tuoi pensieri è quella forza oscura che causò la morte di Romeo e Giulietta, come di altri insigni personaggi letterari, lei ti parla d’amore tirando in ballo un gatto. Il quale, sottratto alla vulgata che lo vuole destinatario di coccole e croccantini, diventa un portale per una raffigurazione diversa dell’amore:

Un gatto che dorme il pomeriggio

nel larghissimo letto padronale

in un punto qualunque, però comodo,

che si sveglia in un’ora qualunque

perché qualcuno passa e lo carezza,

non si sveglia del tutto né si chiede

chi è che lo carezza, ma si porge

dal sonno solo un po’

per stirarsi in arrendevole lunghezza

perché duri di più quella carezza.

Forse così potrebbe essere l’amore.

(107 parole per spiegare l’inspiegabile in prosa. 65 per dirlo in versi. Ma non vale: poeti e poetesse leggono le stelle)

Per restare in tema di gatti, ma nella loro accezione terrena e nondimeno divina, una pagina di Ezio Sinigaglia tratta da Sillabario all’incontrario:

[…] Scotty, cuccioletta prelevata una notte dalla strada, grigia, pelo soffice, magrissima all’origine, rachitica, adesso bene in carne: vive in casa: la sola che abbia questo privilegio, necessario peraltro a causa dell’ostilità degli altri gatti: bisogna evitare gli incontri anche casuali: una sera Zoccola (vedi oltre) è andata a un pelo dal cavarle un occhio con un’unghia: un movimento fluido, disinvolto, come prelevare un acino d’uva dalla ciotolina della macedonia, a fine pasto: i gatti sono così, assassini noncuranti, criminali flessuosi, bisogna stare attenti: Scotty, dunque, vive in casa: pasti separati, anche per lei: un po’ di omogeneizzato, mischiato con un po’ di tonno in scatola, o carne trita, o altro ed eventuale: schiacciare bene il tutto con la forchetta, in modo che s’impasti, che si mantechi: servire a temperatura ambiente: Scotty ha anche il privilegio, sublime e turpe, della cassetta, di là dall’uscio della cucina, in un corridoio fra quest’ultima e il bagno di servizio, dove passa la notte: odori da non credere, specie il mattino, da svenire al solo rievocarli: necessità di cambiare la sabbia alla cassetta, di gettar via la merda più spesso che si può, per non parlar del piscio, che puzza atrocemente, pungentemente, un effluvio invasivo, che violenta l’olfatto, penetra le narici, sfonda ogni barriera, sale nel cervello, stimola secrezioni segrete, ributtanti: cionondimeno Scotty si fa amare, tenera, coccolosa, giocherellona, sempre pronta ad agguati ludici agli altri gatti, che le soffiano o la ignorano: lei, stupefatta, prende a giocar da sola: si appende ad una tenda come un impiccato alla sua corda, e dondola: insegue scarafaggi ed eventuali gechi, li tortura amabilmente: palleggia fra le zampette felpate, rapidissime, palline vere o di fortuna, tappi, gomme per cancellare, matite, temperini: poi, languida, mi sale al collo, lo mordicchia, lo lecca, gioca con il cordoncino degli occhiali, me li toglie, mi guarda socchiudendo gli occhiolini grigi come non potesse sostenere la mia luce: per le fusa dispone di un motore a scoppio, quattro tempi, cinque marce, con navigazione di crociera a regime costante, rumorosità piacevole, bassissimo consumo: la notte si lascia deporre nella sua scatola da scarpe, fra le lane e i balocchi, senza opporre resistenza, anzi, chissà, lusingata d’esser tenuta sotto chiave, di là dalla cucina, come un bene prezioso, da nascondere ai briganti.

Quando qualcosa sembra scritto proprio per te

Leggendo certe pagine, archiviati meraviglia e senso di gratitudine, non puoi che ringraziare l’autore. Perché nel suo racconto hai ritrovato la parte di te che si raggruma nel silenzio. Che è più articolato di quanto non si creda. Ma vaglielo a spiegare a chi per il silenzio nutre solo spavento e diffidenza.

“V come Vegetazione«È un vegetale» si dice dei malati terminali o dei sessantottini imborghesiti, di chi vive ormai solo di flebo o di pantofole. Un’espressione davvero stupida, infamante per gli alberi ed i fiori. Un’ennesima prova della limitatezza della vista umana, dell’ottusità quasi fiabesca della specie. Da parte mia sono persuaso che quella vegetale sia la forma di vita più felice, più intensa e più gioiosa su questo tragico pianeta. I vegetali: loro sì che sanno vivere! Nella nostra ansia di movimento a tutti i costi, nel nostro infantile dinamismo, li disprezziamo perché stanno fermi. Non cambiano indirizzo. Non vanno mai in vacanza. Non salgono e non scendono le scale. Non fanno a botte, non si prendono a cornate per la leadership del branco. Sembrano perfino poco interessati all’affermazione della loro personalità individuale. Come distinguere, in un ginepraio, un ginepro dall’altro? Ma il loro dinamismo è tutto di testa, come quello dei saggi, degli yogi. Di testa, non di piedi. Affondano le radici nel punto che il destino gli ha assegnato. Lo accettano, il destino, senza protestare. Ne succhiano gli umori. Trovano l’acqua, anche nel deserto. Qui, di certo, la trovano. Sembra poca, in superficie. Ma, sottoterra, c’è acqua dappertutto. Loro sanno trovarla. Viene su di tutto, qui, qualsiasi cosa: basta lasciar cadere un seme, anche per sbaglio: crescono foreste. Se poi piove, come quest’anno, bisogna aprirsi la strada col machete. È uno spettacolo stare a guardare come si muovono le piante, come muta di continuo lo spazio che le ospita, che invadono. Dove ieri c’era un insignificante cespuglio di sterpi, oggi puoi trovare un’esplosione di fiori, un trionfo di giallo o di azzurro, improvviso come un’idea, come un’illuminazione. Prendi l’asfodelo, fiore dal passato cimiteriale. L’asfodelo, per tutto l’anno, non è che un gambo trascurabilissimo, un tubicino di materia organica verdastra che se ne sta lì, dritto non si sa ben perché, a far cosa. Un nulla, fra gli ulivi, i mandorli, i mirti e i lentischi: come un pelo pubico, dal quale la vista non è minimamente attratta: al contrario, distratta da attrazioni ben più forti, lo oltrepassa fino a ignorarne del tutto l’esistenza. Questo, per undici mesi, è un asfodelo: un pelo della terra, e niente più. Poi, d’un tratto, fiorisce. Qui succede nel tardo gennaio, e dura a stento fino al far di marzo. Una mattina imbocchi il solito sentiero e, miracolo, lo trovi cosparso di asfodeli. Tutti fioriti, bianchi senz’esser troppo bianchi, senza dar nell’occhio individualmente, ma solo nell’insieme. Il paesaggio ne è trasformato a un punto che ti può cogliere il sospetto d’esser morto e di stare camminando sulle nuvole. Non riconosci più le stesse svolte, gli stessi arbusti torti, gli stessi formicai. Ora l’asfodelo assume un’importanza preponderante, enorme, l’occhio vede solo quello, fugge d’asfodelo in asfodelo fino alla cima del colle, misura i passi calcolando le distanze da fiore a fiore. Sarebbe come se i peli del pube dell’amante, un bel giorno, si facessero d’oro o di diamanti o di rubini, scintillassero al punto di trasformarsi nella vera attrazione della zona. Animalmente, non accade. Vegetalmente, sì. Mi sembra interessante, la creatività della natura vegetale, paragonata alla ripetitività dell’animale. Ho fantasie botaniche, talvolta.”

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario