Quando qualcosa sembra scritto proprio per te

Leggendo certe pagine, archiviati meraviglia e senso di gratitudine, non puoi che ringraziare l’autore. Perché nel suo racconto hai ritrovato la parte di te che si raggruma nel silenzio. Che è più articolato di quanto non si creda. Ma vaglielo a spiegare a chi per il silenzio nutre solo spavento e diffidenza.

“V come Vegetazione«È un vegetale» si dice dei malati terminali o dei sessantottini imborghesiti, di chi vive ormai solo di flebo o di pantofole. Un’espressione davvero stupida, infamante per gli alberi ed i fiori. Un’ennesima prova della limitatezza della vista umana, dell’ottusità quasi fiabesca della specie. Da parte mia sono persuaso che quella vegetale sia la forma di vita più felice, più intensa e più gioiosa su questo tragico pianeta. I vegetali: loro sì che sanno vivere! Nella nostra ansia di movimento a tutti i costi, nel nostro infantile dinamismo, li disprezziamo perché stanno fermi. Non cambiano indirizzo. Non vanno mai in vacanza. Non salgono e non scendono le scale. Non fanno a botte, non si prendono a cornate per la leadership del branco. Sembrano perfino poco interessati all’affermazione della loro personalità individuale. Come distinguere, in un ginepraio, un ginepro dall’altro? Ma il loro dinamismo è tutto di testa, come quello dei saggi, degli yogi. Di testa, non di piedi. Affondano le radici nel punto che il destino gli ha assegnato. Lo accettano, il destino, senza protestare. Ne succhiano gli umori. Trovano l’acqua, anche nel deserto. Qui, di certo, la trovano. Sembra poca, in superficie. Ma, sottoterra, c’è acqua dappertutto. Loro sanno trovarla. Viene su di tutto, qui, qualsiasi cosa: basta lasciar cadere un seme, anche per sbaglio: crescono foreste. Se poi piove, come quest’anno, bisogna aprirsi la strada col machete. È uno spettacolo stare a guardare come si muovono le piante, come muta di continuo lo spazio che le ospita, che invadono. Dove ieri c’era un insignificante cespuglio di sterpi, oggi puoi trovare un’esplosione di fiori, un trionfo di giallo o di azzurro, improvviso come un’idea, come un’illuminazione. Prendi l’asfodelo, fiore dal passato cimiteriale. L’asfodelo, per tutto l’anno, non è che un gambo trascurabilissimo, un tubicino di materia organica verdastra che se ne sta lì, dritto non si sa ben perché, a far cosa. Un nulla, fra gli ulivi, i mandorli, i mirti e i lentischi: come un pelo pubico, dal quale la vista non è minimamente attratta: al contrario, distratta da attrazioni ben più forti, lo oltrepassa fino a ignorarne del tutto l’esistenza. Questo, per undici mesi, è un asfodelo: un pelo della terra, e niente più. Poi, d’un tratto, fiorisce. Qui succede nel tardo gennaio, e dura a stento fino al far di marzo. Una mattina imbocchi il solito sentiero e, miracolo, lo trovi cosparso di asfodeli. Tutti fioriti, bianchi senz’esser troppo bianchi, senza dar nell’occhio individualmente, ma solo nell’insieme. Il paesaggio ne è trasformato a un punto che ti può cogliere il sospetto d’esser morto e di stare camminando sulle nuvole. Non riconosci più le stesse svolte, gli stessi arbusti torti, gli stessi formicai. Ora l’asfodelo assume un’importanza preponderante, enorme, l’occhio vede solo quello, fugge d’asfodelo in asfodelo fino alla cima del colle, misura i passi calcolando le distanze da fiore a fiore. Sarebbe come se i peli del pube dell’amante, un bel giorno, si facessero d’oro o di diamanti o di rubini, scintillassero al punto di trasformarsi nella vera attrazione della zona. Animalmente, non accade. Vegetalmente, sì. Mi sembra interessante, la creatività della natura vegetale, paragonata alla ripetitività dell’animale. Ho fantasie botaniche, talvolta.”

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario