Buttate pure via
Ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
Cos’è, nella sua essenza, una rosa.
Giorgio Caproni, Elogio della rosa
La Forma è forse un errore dei tuoi sensi, la Sostanza un'immaginazione del tuo pensiero. A meno che, essendo il mondo flusso perpetuo delle cose, l'apparenza non sia ciò che c'è di più vero, e l'illusione la sola realtà. Flaubert
Buttate pure via
Ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
Cos’è, nella sua essenza, una rosa.
Giorgio Caproni, Elogio della rosa
Il buio e il petalo
Se è vero che chi muore non muore del tutto
ma soggiorna nei posti dove ha vissuto
e va in giro a parlare con gli alberi
tu non sei morta perché ti vedo ogni tanto
nella dimora bianca del convolvolo
sotto il ciliegio che non hai visto fiorire.
Ora hai tutto il tempo e ti sorprendo
davanti questi fiori bianchi a domandare
qual è la verità, perché si vive; e qui seduta
ricordi il libro che ti avevo portato
la carta geografica dei viaggi non fatti.
Ora vai dove vuoi, ora che hai cambiato
il nome e il dove e il quando.
Se è vero che chi vive non vive del tutto
ci ritroviamo a metà strada, nell’antiscalo
tra la morte e la vita, il buio e il petalo.
Alberto Nessi
Vilhelm Hammershøi, Interno con giovane uomo che legge
Fu un istante
in cui posasti
sopra il mio braccio
con un tuo gesto
più di stanchezza
che d’intenzione
la tua mano
e la ritirasti.
Ma la sentii?
Non so. Però ricordo
e ancora serbo
una memoria
ferma e corporea
dove posasti
quella tua mano
con un suo senso
incomprensibile
da quanto lieve…
In fondo è niente,
ma in una strada
come la vita
davvero c’è molto
di incomprensibile.
Chi sa se quando
la mano tua
sentii posarsi
sopra il mio braccio
e forse un poco
sopra il mio cuore,
ci fu nel cosmo
un ritmo nuovo?
Fu come se
senza volerlo
tu mi toccassi
per avvertirmi
di un inatteso
mistero etereo
di cui ignoravi
però l’esistenza.
Così la brezza
senza saperlo
sui rami dice
un’imprecisa
cosa felice.
Fernando Pessoa
Quando la levità di un amore dischiude alla possibilità dell’altrove.
Ciao, mamma
Ciao, mamma. Metto per iscritto le parole
che ti ho detto quella sera, quando l’infermiera
asciugandoti un batuffolo bianco sulla bocca,
mi ha sussurrato: “Guardi che non c’è più”.
Non sono stato capace di dirti altro,
come i ciclisti dopo la vittoria di tappa
o come un marmocchio alla sua prima foto
da scolaro, mentre cerca i suoi nella folla
che si accalca dietro una Polaroid.
Ecco: il lampo del magnesio e poi un buio fitto.
Chissà dov’eri finché ti salutavo.
Eri in quel buio naturalmente,
con le tue scorte di cipria e il tuo
finissimo scialle rosa sulle spalle,
con i tuoi occhi grigi che, ho capito finalmente,
mi restavano in eredità.
Sono contento di avere i tuoi occhi.
Mi sa che perforavano un sacco di cose,
forse anche i muri di oblio che gli anni
ti avevano piazzato accanto a tua insaputa.
“Ciao, mamma” ho balbettato guardandomi intorno,
preoccupato che le tue compagne di camera
mi prendessero per scemo. E mi sentivo
per davvero scemo, un po’ stranito,
come se la tua morte fosse colpa mia
e, mentre le orecchie mi fischiavano,
come se un rimbombo oscuro
si stesse frantumando in mille suoni orribili.
Intanto si era alzato il vento. Dal finestrone
vicino al tuo letto vedevo le cime dei castagni
piegarsi. È lì che ho pensato che il vento
è la cosa più simile alla felicità: nessuno sa
dove nasca e neanche quando finisce.
Come quel brusco vento garbino
di sessant’anni fa quando, seduto sul sellino
della tua bici con una girandola in pugno,
salutavo un mondo di vetro che correva via.
E tu che sussurravi: sembra una poesia.
Devo averti presa sul serio. Per questo
quella sera non ho spiccicato altro.
Perché la poesia è un modo di vedere,
prima che di parlare. E basta molto poco
per riempire il silenzio fino all’orlo.
Mentre dottori e suore e infermiere
andavano e venivano, io e te ci siamo messi
a guardare quella girandola rossa fiammante
che loro non potevano neanche immaginare
e che girava all’impazzata come un tempo.
Ripensandoci, credo che ‘ciao’
fosse proprio la parola giusta.
poesia di Paolo Lanaro dalla raccolta Rubrica degli inverni
Parola chiave INVERNO
Tempo fa intitolai un blog Cahiers d’hiver. Funzionò. Forse piacque ai malinconici cronici, forse sedusse per le immagini evocanti il messaggio sotteso ai post. In realtà era semplicemente vergato di digressioni nostalgiche, romite. Bastava poco per averne un quadro d’insieme. Tenne alla larga cervellotici e ballerine di fila.
Sono passati parecchi inverni da allora. Nel frattempo, per sembrare normale, per prendere le distanze dagli amati giorni della merla, mi infilai di piatto nelle estati, sforzandomi di far parte di banalità darwiniane in riva al mare. Non funzionò. Neppure sotto le stelle a san Lorenzo. Presto la malinconia riprese il sopravvento, e con essa il bisogno d’appartenere al più bello degli inverni, quello in cui l’occhio non abusato coglie una struggente tenerezza. L’esorcismo bastevole al completamento di sé.
Scrivo per te parole senza diminutivi
senza nappe né nastri, Chiara.
Resto un uomo di montagna,
aperto alle ferite,
mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono
il suono dei “sì” pronunciati senza condizione,
dei “no” senza margini di dubbio;
penso che le parole rincorrano il silenzio
e che nel tuo odore di stagione buona
nel tuo sguardo piú liscio dei sassi di fiume
esploda l’enigma del “sí” assordante che sei.
Scriverti è facile; e se potessi verserei
la conoscenza tutta intera delle nuvole
la punteggiatura del cosmo
la forza dei sette mari, i sette mari in te
nel bicchiere dei tuoi giorni incorrotti.
Ma non sono che un uomo, e quest’uomo
ti scrive da un tavolo ingombro
e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini
sulla casa dalle grondaie rotte
quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere
non sa che l’inciampo nel dire come si resta
e come si preme
nel mistero del giorno nuovo in te
che prima non c’era
adesso c’è.
Pierluigi Cappello, Lettera per una nascita
… poesia