Ho sceso dandoti il braccio

A mio parere è questa la poesia più bella di Eugenio Montale:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Ma esiste anche un Montale misconosciuto che, riflettendo su Lucrezio, trasfigura la legge di natura in poesia:

“Gli pareva che il mondo, corrotto, violento e ipocrita com’era, guardato con occhio di moralista stoico o di lodatore del tempo passato, fosse insopportabile. Perciò occorreva ricondurre l’uomo nel novero delle forze naturali, renderlo innocente e insignificante come gli animali che quando uccidono o derubano o si sporcano o tradiscono nessuno pensa a biasimarli e a dedurre che la civiltà va in malora, o come le piante che conoscono soltanto vita, procreazione e morte e tutto il resto è mistero […]. Abbastanza, pensava, si era parlato delle cose umane da storici, poeti, oratori, teatranti, satirici, filosofi: ora era venuto il tempo grave e deluso di sollevarsi nella luce perpetua del cosmo, là dove non ci sono più né regni né repubbliche né ricchi né poveri, né cose buone né cose cattive, ma soltanto leggi di natura, eterne e infrangibili, di vita e di morte“.

Il modo tuo d’amare

Ron Hicks - Café Kiss. Ron Hicks' works have been characterized as ... | Art painting, Romance art, Romantic art

Ron Hicks, Café Kiss

E se fosse il silenzio a raccontare meglio l’amore?

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io t’ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole e abbracci
mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.

E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’amarti solo io.

Pedro Salinas, Il modo tuo d’amare

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Marc Chagall, Compleanno

Il bacio con la finestra - Wikipedia

Edvard Munch, Il bacio con la finestra

Il bacio (Klimt) - Wikipedia

Gustav Klimt, Il bacio

Philip Larkin, che bella scoperta

Poesía reunida' de Philip Larkin

Ho letto il primo paragrafo del nuovo libro di Alessandro Piperno. Ho desistito dall’andare oltre, perché il tono malinconico mi è sembrato di risulta. Ma per onestà devo dire che la citazione in esergo mi ha imbambolata, politicamente scorretta alla maniera, volendo fare un esempio alla portata di tutti, della vecchia serie Due uomini e mezzo, riproposta da Mediaset durante il periodo di Natale. Serie che la dice lunga su quanto fossimo liberi di pensare e dire dieci anni fa, e mica in seconda serata. Ma tornando alla citazione. È di Philip Larkin, poeta a me sconosciuto prima di oggi. Una breve ricerca ha dato frutti sorprendenti. Questa volta non politicamente scorretti. Direi, piuttosto, sublimi.

Parto dalla citazione politicamente aberrante:

Quando ero giovane pensavo di odiare tutti, ma quando sono cresciuto ho capito che sono solo i bambini che non sopporto. Piccoli bruti egoisti, rumorosi, crudeli e volgari“.

E poi…

Matrimoni

Quando si stancano di stare da soli
quelli di noi che sembrano
immodestamente precise
trascrizioni di un sogno,
la loro sicurezza si unirà
solo ad un’altra simile –
a un simile splendore,
a un fecondo egoismo.

Non è così per gli altri:
dal vecchio bisogno infestati,
brigano in tutti i modi per un partner –
anche qualcuno d’indesiderabile,
col quale è già chiaro in partenza
che le parole ‘bellezza,
impulso, libertà’
non verranno neppure pronunciate.

Spaventapasseri di cavalleria
stringono strani patti –
Il single dal viso di vipera
sposa una fanciullezza segregata,
la scabbia fa meno paura
di una lieve paura della vita –
il vano chiacchiericcio è tollerato
da solitudine cronica.

Così si sostengono – insieme:
non li strazia il sagace rancore
che avrebbero sentito in solitudine,
né un’essenziale ostilità a se stessi.
Che si scordino o meno ciò che un tempo
hanno voluto o non voluto,  restano
opacizzati  a un’ancora tranquilla.

Luoghi amati

No, non ho mai trovato
un posto di cui dire
“È questa la mia terra,
qui voglio rimanere” –
né quella persona speciale
che all’istante reclama
tutto ciò che possiedo
e addirittura il nome;

simili circostanze proverebbero
che non c’è la necessità di scegliere
dove farsi la casa, o chi amare;
a quei luoghi  chiediamo solamente
di travolgerci  irrevocabilmente,
dimodochè non sia poi colpa nostra
se la città diventa inabitabile,
o la ragazza un’idiota.

Eppure, non avendoli trovati,
si è costretti ad agire, nondimeno,
come se ciò cui ci siamo adattati
ci avesse, di fatto, legati;
ed è più salutare trattenerci
dal pensiero che si potrebbe ancora
scoprire fino ad oggi inessenziali
i nostri posti, la nostra persona.

A mia moglie

Averti scelta chiude quel ventaglio
di pavone, il futuro variegato
di tante prospettive di natura.
Un potenziale certo incomparabile,
ma illimitato solo a patto che
non si scegliesse; il solo atto di scegliere
bloccò tutti i sentieri, tranne uno,
e cacciò via dai cespugli gli uccelli
dispettosi nel loro incauto volo.
Nessun futuro adesso. Io e te, da soli.

Così ogni volto per il tuo ho ceduto,
per la tua magra dote ho dato in cambio
il mio smagliante corredo, le insegne
di maschere e magie concesse all’uomo.
Ora tu sei il mio tedio, il mio disastro,
un altro modo di soffrire, un rischio,
ipostasi pesante più dell’aria.

Poeti del fare

In mezzo alle cose vecchie cerco quello che

è nuovo. In ogni fine vedo un principio;

e tutti i cocci tornano ad unirsi,

anche quando mancano i pezzi, o non

si sa a quale parte appartenga l’altra.

È lo stesso con la poesia: la faccio con le

parole vecchie, quelle che sono piene

di muffa, quelle che furono relegate in un angolo

del dizionario. Alcune, non so cosa

vogliano dire; altre, hanno detto tante volte

la stessa cosa che ormai ho perduto il senso

di ciò che dicono. Ma quando le unisco, nel verso,

quello che sento ha sempre un altro senso.

Questa poesia, per esempio, non ha

niente di nuovo. Le parole sono facili,

i sensi sono ovvi. Ed è per questo

che cammino, in mezzo ad essa, in cerca di

cose nuove; e quando arrivo alla fine,

vedo un principio, e so che tutto torna

a unirsi, come se qui non mancasse niente.

Nuno Júdice, Una poetica in soffitta

Verrebbe da dedicarla, questa poesia, alle persone che dalla poesia in quanto tale sono spaventate perché faticano a coglierne il senso o quantomeno i nessi con la realtà sensibile. Al punto da ritenerla, che sacrilegio, un inutile trastullo. Non che abbiano tutti i torti, in verità: talvolta i poeti sembrano divertiti dall’idea di disorientare i lettori, e restituiscono versi che sfidano l’umana comprensione. Non così Júdice che con la sua poetica da soffitta è di una immediatezza che lascia attoniti. Belli anche i versi seguenti che incontrano particolarmente il mio gusto e, suppongo, anche quello di tutte le personalità umbratili:

Allora, che ci faccio io in questa casa

da cui il sole non riesce a togliere le ombre? Perché

insisto a guardare negli angoli più bui, fuggendo

dalla luce?

Sfido il destino nel fare miei questi versi in quanto Arien si sentirà autorizzato a reiterare: “Il rischio era tutto suo e lei lo sapeva perché ero molto critico verso quegli scrittori di cui s’innamorava a giorni alterni. Una roba tipo leggere l’oroscopo e convincersi che fosse stato scritto proprio per lei“. Ma è in certi rischi che si realizza compiutamente la sintonia tra due persone. E io sono pronta a correrli tutti.

Il rifiuto della morte

Avevo lasciato il passaporto in un albergo

dove avevamo passato qualche notte

e di cui non ricordavo il nome. È cominciata così.

L’hotel successivo non volle accettarmi,

era bellissimo, in un aranceto, e vista sul mare.

Con quanta indifferenza tu hai accettato

la stanza che sarebbe stata nostra,

e, più tardi, con che allegria ti sei affacciato sulla terrazza,

bersagliandomi con cioccolatini in stagnola. Il giorno dopo

hai ripreso il viaggio che dovevamo fare insieme.

Il concierge mi procurò una vecchia coperta. Di giorno, sedevo davanti alla cucina. Di notte, stendevo la mia coperta

fra gli aranci. Tutti i giorni uguali, salvo per il tempo.

Dopo un po’ il personale si impietosì.

Il lavapiatti mi portava gli avanzi della cena,

magari una patata o un po’ d’agnello. Qualche volta arrivava una cartolina.

Nelle foto monumenti e opere d’arte patinati.

Una volta un monte innevato. Dopo circa un mese,

un poscritto: X manda saluti.

Dico un mese, ma in realtà non avevo idea del tempo.

Il lavapiatti scomparve. Ce n’era uno nuovo, poi un altro ancora, credo.

Di tanto in tanto, uno mi teneva compagnia sulla mia coperta.

Louise Glück, Il rifiuto della morte

Non siamo programmati per vedere qualcuno andar via. Per questo motivo il distacco dalla persona amata apre una ferita della cui crudeltà ci doliamo per anni. A nulla serve fare appello alla ragione giacché la dimensione fisica, cui nostro malgrado restiamo aggrappati, è altra cosa rispetto alla spazio metafisico nel quale speriamo di trovare, con tutta la cocciutaggine di cui siamo capaci, un ricongiungimento con la persona sottratta al divenire. Ora, l’elaborazione del lutto ha tempi lunghissimi che potrebbero contrarsi significativamente se solo non fosse persistente l’insensatezza del desiderio per un impossibile ritorno. Però, quando il dolore non farà più male ma resterà a eterno suggello di un amore, allora sapremo tessere un tempo nuovo. E quello passato non ci sembrerà più perduto.

Lazarus