Puttane per Gloria

FRIEZE Talk with Jeff Wall — Musée Magazine

Non c’è niente di romantico o pacificante in questo romanzo di Vollmann, ma chi ha già letto qualcosa di lui sa che i “territori umani” che suscitano il suo interesse sono lontani anni luce da ogni forma di redenzione o perlomeno di apparente normalità. Eppure Vollmann restituisce i suoi personaggi come esseri umanissimi, ancora più umani di altri che, in narrazioni diametralmente opposte, vengono proposti come esempi edificanti. In rete ho trovato il paragrafo che segue. Nel suo taglio squallido ma quanto mai realistico scorre in filigrana una involontaria definizione dell’amore. Che non t’aspetteresti da uno, il Jimmy del romanzo, che spende tutti soldi in prostitute.

“Hai mai guardato la mano di una vecchia puttana di strada? Grinze sporche e screpolate, profonde come tagli, polpastrelli callosi e sbucciati, il pollice d’un colore fra il grigio e il nerastro, ma tutta la mano è così pallida sotto lo strato di lerciume, così magra e stanca, come il polso da cui parte una fila di lividi ed ecchimosi. Quella mano ha lavorato duro per dare l’amore a sconosciuti, o per dar loro ciò che quegli sconosciuti chiamano amore, o quello che gli sconosciuti vogliono al posto dell’amore, no, è proprio amore perché la fatica è amore sempre e comunque”.

William T. Vollmann, Puttane per Gloria

foto di Jeff Well

Almeno erano le lettere di lei

“[…] L’amavo? L’amo? Era sposata da tanti anni con un altro. Adesso aveva il cancro. Sulle buste delle sue lettere c’erano francobolli con le farfalle da tredici centesimi. Nell’angolo in alto a sinistra c’era il suo indirizzo da ragazza. Se mai l’avesse cercata, non sarebbe andato nella casa dove viveva con il marito e i tre figli. Sarebbe tornato nella città dove le strade non erano più popolate da persone che conosceva, ma lunghe, deserte e ampie come i viali di Tamatave. In realtà non ricordava affatto la città di quando lei era ragazza. La memoria cala, sprofonda sotto il proprio peso negli stagni melmosi. Il nuovo virus che a quanto aveva letto trasforma in tre giorni una persona in poltiglia nera forse era solo il contraltare di quello che l’oblio fa all’anima molto lentamente. Perché lui poteva ricordare l’emozione che aveva provato quando le sue lettere si erano posate, una dopo l’altra, nella cassetta della posta, ma ormai poteva solo simulare, non ricapitolare, l’emozione flagrante e fragrante che gli aveva invaso i polmoni quando aveva aperto ogni busta tanti anni prima. Ormai le lettere avevano quasi la stessa età di loro due da ragazzi. Una volta si mise a rileggerle, ma alcune erano battute a macchina e altre scritte nella sua calligrafia intensa e scontrosa; aveva letto solo le parti scritte a macchina perché era stanco e gli dolevano gli occhi. Sta andando troppo per le lunghe, gli aveva scritto, e lui pensò: Mi sa che vale anche per la mia vita. Volevo essere educata ma non amichevole. Ora sono egoista e meschina, quasi mai gentile. La mia vita mi piace così com’è perché è appartata e quasi tutta mia. Poi aveva cancellato due o tre righe e continuato: Ora sono maleducata. Voglio solo allontanarmi a pensare. Gli parve di ricordare (non ne era certo) di aver passato un’ora o più a cercare di individuare la parte maleducata e adesso, se proprio avesse voluto farlo, gli sarebbe toccato chiamare la CIA. Non perché non gli interessasse; la sua mente e la sua anima erano andate all’estero così tante volte, intrappolandolo ogni volta in nuove esperienze da cui, lottando per liberarsene o immergersi di più, aveva sparso polvere e sepolto il suo passato. Tutti quegli strati gli fecero venire il dubbio che amarla ancora (o amarne il ricordo) potesse essere grottesco. Tutto lo affaticava. Pensare a lei gli dava piacere anche adesso, ma quelle lettere ammuffite erano come ganci per trascinarlo in basso. Chiuse gli occhi e vide la sua firma formarsi all’interno delle palpebre come una scritta nel cielo. Le parole che lei aveva messo sulla carta erano immutabili. Il tempo l’aveva separata sempre di più da ciò che era stata. Almeno erano le lettere di lei. Le sue sarebbero state peggiori. I riflessi dei ciuffi d’erba nell’acqua scura circostante inverdivano anche la terra sul fondo che sembrava fluttuare nel buio. Si sarebbe tuffato a cercare le donne che lo avevano amato. Avrebbe vissuto per saltare sulle isole di roccia rossa nella foresta. Un uccello batteva le ali al ritmo del suo cuore.

Una madre lesse al figlio: Gli irochesi aspettavano nella foresta.

Il cielo era un soffitto di cristallo azzurro sorretto da colonne di betulle bianche rivestite di rigogliose felci crepuscolari. Era l’ora in cui la luce esce dai laghi. […]”

William T. Vollmann

Il profeta della strada

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“Povero il biologo costretto a dimostrare (mai scoperto perché) che il caribù nelle tundre canadesi cede un litro di sangue a settimana alle zanzare. Ovviamente il caribù ha più sangue di noi; forse non è così grave come sembra, pagare un litro di sangue a settimana per il privilegio di vivere. Ricordo giorni di estate in Alaska in cui quasi non mi vedevo il dorso delle mani perché era coperto di zanzare. Un pilota della forestale mi raccontò che una volta aveva sorvolato una collina dove un uomo sembrava fargli dei segnali con lunghe stelle filanti nere; anche lì si trattava di zanzare a migliaia, che usavano quell’uomo come frangivento mentre lo attaccavano, alzandosi e abbassandosi in spaventosa armonia con le sue braccia frenetiche, velandogli il volto di un nero ronzante e famelico. Di solito è difficile afferrare il concetto di oceano per analogia con una sola goccia d’acqua, ma nel caso di queste sgradevoli creature, l’alacrita’ vampiresca con cui una zanzara ci piomba addosso basterà a rappresentare l’intero sciame, a differenza della goccia di rugiada che giace così docile nel palmo di una mano da sembrare del tutto estranea alle maree e ai naufragi tra gli scogli. La goccia d’acqua è a riposo ovunque. La zanzara sembra soddisfatta solo quando si installa sulla nostra pelle, le sei ginocchia flesse sopra le ali, le zampe anteriori parzialmente in fuori come quelle di un cane sdraiato, le antenne dritte, la testa in giù, la proboscide affondata dentro di noi per succhiarci un altro po’ di vita. Anche in questo stato di soddisfazione la creatura appare in tensione. È pronta a ritrarsi dalla ferita in qualsiasi momento (anche se mentre si gonfia di sangue sarà sempre meno in grado di farlo alla svelta); ottiene, in breve, un orgasmo furtivo e semi distratto, tutto quello che la legge naturale permette a un pigmeo che stupra un elefante. Lo spettro delle sensazioni tra il piacere, la paura e l’appagamento nelle zanzare deve essere molto ristretto. Quando si rannicchiano smaniose sulle foglie o sui soffitti non sembrano tanto diverse da quando si nutrono. […]

Quando andai in autostop da San Francisco a Fairbanks le zanzare mi circondarono con un ronzante inno di laurea – non subito, ovviamente; solo quando arrivai in Canada. Finché ero in salvo su un camion non potevano toccarmi e io vissi la familiare emozione della velocità e della distanza, crogiolandomi sul retro dell’autocarro, con un bellissimo husky che mi baciava le mani e le guance, ma appena rallentammo per lasciar passare un alce mi giunsero di nuovo all’orecchio. Una zanzara mi punse. Ormai mi trovavo sull’Alaska Highway. Avevo scordato la notte in cui mi arresi, senza neanche essere in Oregon, e mi fermai in un motel, con il viso lurido e ustionato e gli occhi doloranti; mi parve un peccato spendere sedici dollari per la stanza ma era tutto il giorno che pioveva a dirotto, e nessuno mi avrebbe dato un passaggio. Più il mondo mi sporcava, meno probabile era che qualcuno mi accettasse. Ma la mattina dopo c’era il sole e mi ero fatto la doccia e la barba, ragion per cui in mezz’ora rimediai un passaggio da un furgone che mi portò in Oregon, e mentre viaggiavo tutto contento credendo di aver fatto progressi, non considerai proprio che l’interno del furgone non era tanto diverso dall’interno di un motel; ero di nuovo protetto. Quando ricordo quell’estate, ora così lontana, devo riconoscere che sono ancora protetto, sia pure in modo fluttuante, e così mi punge una domanda insistente: cosa è peggio, essere protetti troppo spesso e quindi dimenticare le altrui sofferenze, o soffrire di persona? Forse esiste una via di mezzo: stare al mondo abbastanza per fortificarsi ma avere un riparo sufficiente per tenere alla larga l’indifferenza e l’infelicità. Certo si potrebbe anche dire che la moderazione ha qualcosa di deprimente e perfino di degradante – com’è eloquente il fatto che medio è sinonimo di mediocre! Arrivammo sul lungo tratto di strada da Fort St. John a Fort Nelson, dove abbondavano le zanzare, e incontrammo l’indiana che ballava. Era quasi l’imbrunire, saranno state le nove o le dieci. I campi erano pieni di arcobaleni, nebbiolina e fiori gialli. Ogni ora dovevamo fermarci a pulire il parabrezza su cui le zanzare si spiaccicavano a frotte, giocando a unisci-i-puntini con i contorni di tutte le cose. […]

Il conducente non voleva fermarsi ancora, ma notai che sforzava gli occhi per vedere attraverso gli insetti morti, e stavo per dire che stavolta potevo benissimo pulire il parabrezza da solo (dopotutto stavo viaggiando gratis), quando più avanti, sulla strada vuota (non incrociavamo altri veicoli da due ore), la vedemmo sgambettare come se fosse felicissima e, avvicinandoci, vedemmo che saltava e si contorceva con disperazione affannosa, come un essere mezzo schiacciato che non riesce a morire. Non molto tempo fa ho versato soprappensiero qualche goccia di solvente nella terra secca ed è spuntato un lombrico, che si è teso verso di me con aria accusatoria, si è irrigidito ed è morto. Ma le convulsioni di quella donna non finivano più. La sua danza di presunta felicità mi era parsa del tutto autosufficiente come la masturbazione, ma poi mi sembrò la danza della tortura di una pazza irrecuperabile, che la isolava dagli altri esseri umani, quasi fosse un’alcolizzata che borbotta versando lacrime incomprensibili. Solo quando stavamo per superarla capii, da dietro i nostri finestrini ermetici, che urlava per chiedere aiuto. Non so dirvi quanto fossero terrificanti le sue urla in quel posto selvaggio. Il conducente esitò. Era un’anima buona, ma aveva già caricato un autostoppista. Doveva salvare il mondo? Tra l’altro, poteva essere matta o pericolosa. Gli strilli non si sentivano quasi più e stava diventando un puntino nello specchietto retrovisore quando lui rallentò per pensarci e solo allora capimmo cosa avevamo visto, perché i cervelli protetti lavorano a rilento: le zanzare le scurivano il viso come un grappolo di more, e le gambe sotto i pantaloncini rossi erano nere e insanguinate. Il conducente si fermò. Le zanzare cominciarono a scagliarsi sui finestrini. Ci toccò aiutarla ad entrare. Ci abbracciò con tutta la forza che le rimaneva, piangendo come una bambina. Quando lo toccai, il suo viso orribilmente tumefatto scottava. Era piena di punture intorno agli occhi e non ci vedeva quasi più. I lunghi capelli neri erano impiastrati di sangue e zanzare morte. Le guance gonfie come palline da tennis. Si era azzannata il labbro e il sangue le colava sul mento, dove ancora bacchettava una zanzara. La schiacciai.

Quel pomeriggio era stata senz’altro più bella, con gli zigomi pronunciati che riflettevano la luce, il viso ovale, scuro e levigato, le labbra scure ancora scintillanti, gli occhi neri e sani, che illuminavano ancora un po’ il mondo con il loro brillio mercuriale, i lucenti capelli neri ondulati di lato sulla fronte. Ecco perché l’uomo di Fort Nelson aveva deciso di patrocinare la sua attività. Una bella preda che arriva dritta dalle riserve, pensò. Lei montò sul suo camion, e ci trovò anche degli altri uomini; tutti usufruirono in abbondanza dei suoi servizi. Ma a differenza delle zanzare lente, che pagano il conto, se non altro con la vita, gli uomini assaggiarono la sua carne impunemente. Non furono del tutto ignobili. Non la picchiarono. La lasciarono solo in balia delle zanzare. Le permisero di rivestirsi prima di buttarla fuori…

Aveva provato a scavare una buca nel terreno ghiaioso, una tomba in cui nascondersi, ma dopo neanche due centimetri cominciarono a sanguinarle le dita, le zanzare le si infilarono nelle orecchie e non riuscì più a pensare, e si mise a correre per la strada vuota; corse finché non dovette fermarsi, allora le zanzare le scesero sulle palpebre come una neve scura. Erano passate due auto ma avevano tirato dritto. Avrebbe voluto uccidersi ma le zanzare non la lasciavano abbastanza in pace per farlo. Non scorderò mai il modo in cui mi strinse fra le sue braccia disperate – non dimenticherò mai il suo balletto. […]”

William T. Vollmann

Di Vollmann si è già detto ogni bene e infatti, per quel che vale, nel suo curriculum non mancano “prestigiosi riconoscimenti letterari”. Per parte mia ci aggiungerei pure un Nobel perché non è da tutti tessere una trama che verte sulle zanzare e farlo magnificamente. I fatti e i luoghi riportati non sono frutto della fantasia di Vollmann, ma del suo vissuto: in quanti avrebbero saputo farne una piccola opera d’arte?