L’orrore è lo stesso da sempre

Guerra Israele-Palestinesi: il dramma dei bambini - Vatican News

L’orrore che ci viene restituito dai video girati in Israele potrebbe essere raccontato come nel brano che segue. A dimostrazione del fatto che cambia di nome ma non di faccia.

“La lista delle vittime della settimana precedente esposta all’Holiday Inn, preparata dall’Istituto della sanità pubblica, comprendente 218 morti e 1406 feriti in Bosnia-Erzegovina, di cui 90 e 540 rispettivamente a Sarajevo, diventò subito comprensibile all’obitorio, quando, come ho detto, sentii l’odore del raccolto giornaliero e vidi il sangue secco per terra. Senza elettricità né acqua l’obitorio non è il massimo. Vidi un uomo non identificato rimasto senza gambe a causa di una granata. Per legge dovevano tenerlo ventiquattro ore e intanto lui si gonfiava e puzzava sul tavolo, con un ammasso di merda e sangue a demarcare i confini dello stomaco. Vicino a lui giaceva un venticinquenne con il viso insanguinato (aveva solo una ferita, una mitragliata perfetta da contraerea); era coperto di mosche, serrava la mano e il suo corpo nudo era marrone rossastro ma cosparso di terribili chiazze bianche, e il contrasto con il giallo straordinario del cadavere del bambino (stroncato da una granata anticarro) sembrava quasi premeditato, estetico, a differenza della faccia da bambola del bambino, sorridente, gli occhi due fessure buie. Mandava odore di vomito all’aceto, come gli altri. Fu insopportabile vedere come gli si muoveva la testa, il piccolo cranio che ballonzolava quando il patologo cercò di srotolare il lenzuolo, girandolo e rigirandolo più volte; alla fine il patologo non riuscì a srotolarlo perché il corpo si era fossilizzato nel sangue secco, il lenzuolo si era indurito e scricchiolava sul ventre da cui usciva l’intestino spappolato. Eppure il patologo si sforzò di togliere il lenzuolo in modo professionale mentre la testa da bambola sobbalzava a tempo; allora mi venne in mente una bambina croata che avevo visto in un parco di Zagabria; aveva i capelli rosso-dorati e si dondolava su un’altalena. Si muoveva quasi come quella bambola. A volte sembrava solo abbandonarsi, protendendo le gambe intrecciate; altre puntava le ginocchia con insistenza disegnando un breve arco, ma il cigolio dell’altalena era sempre uguale. Un uomo con il taglio a spazzola fumava; e il fumo era del colore dei suoi capelli. Dopo un po’ aveva buttato la sigaretta nella sabbia. La sigaretta era rimasta accanto alla paletta di plastica di un bambino, senza spegnersi. Erano arrivati quattro bambini che l’avevano raccolta al volo. Se l’erano passata di mano in mano, provando a spartirsela fra loro. Quello che l’aveva trovata aveva tenuto il suo trofeo, contemplando il fumo che gli saliva dalle dita mentre si allontanavano tutti insieme urlando. La bambina aveva continuato a dondolarsi. Quell’altro è morto da parecchi giorni, disse il patologo. Forse non è il caso che lei guardi. La testa, minuscola e nera, era una palla brulicante di insetti che per qualche ragione non avevano ancora attaccato le tumefazioni gialle in basso. Aveva accanto una donna, sorridente, macchiata di sangue.

Secondo lei queste persone sono morte fra grandi sofferenze?, chiesi al patologo. Le vede ogni giorno; forse sa cosa hanno provato…”

William T. Vollmann

Storie della farfalla

Era la mattina dopo la sua prima notte di lavoro al ristorante cinese che era anche una sala da ballo.

Con quanti uomini hai ballato?, dissi.

Due.

E hai solo ballato?

Mi guardò negli occhi. No.

Com’erano?, dissi.

Meglio di te.

Prima mi dicevi che ero bravo.

È passato tanto tempo.

Quindi sono stati bravi anche loro.

Il primo mi ha fatto venire sei volte. Voleva andare avanti per tutta la notte, ma non aveva pagato per tutta la notte, perciò l’ho fatto smettere.

E il secondo?

È così bravo che me lo sposerò. Non mi stanco mai di averlo dentro.

Quanto ti ha dato?

Niente. È stato così bravo che non ho voluto i soldi. Ho preso tutti quelli che mi ha dato il primo e li ho dati a lui. Per questo mi hanno licenziata.

E sei felice?

Certo che sono felice. Ti lascio e sto per sposarmi. Avrò il migliore cazzo del mondo tutto per me.

Pare di sì.

Pare proprio di sì, caro.

Che lavoro farai?

Conosce la signora di qui. Cercherà di farmi riavere il lavoro. Le racconterà che sono stata bravissima.

Quindi lavorerai qui?

Spero.

Adesso lavori?

In che senso?

Cioè, se adesso ti pago, ci vieni a letto con me un’altra volta?

Con te? No. Non sei mio cliente.

Se ti pagassi, sì.

Non potrai mai essere mio cliente. Non sei altro che uno con cui scopavo tanto tempo fa.

Ieri non è tanto tempo fa.

Sì, invece.

Quanto ti ha dato il primo?

Un milione di dollari, va bene? Adesso lasciami in pace.

Ho cinquecento dollari. Te li do se mi concedi mezz’ora con te.

Dove li hai presi cinquecento dollari?

Li ho rimediati per darli a te.

Quando stavamo insieme non mi hai mai comprato nemmeno un mazzo di rose.

Era diverso. Prima stavamo insieme. Ma tu hai detto che non stiamo più insieme, per cui devo darti qualcosa di speciale se voglio fare l’amore con te un’altra volta.

Be’, cinquecento dollari sono abbastanza speciali, credo. Mezz’ora. Vieni in questa camera. Però ti devi mettere il preservativo, e non puoi baciarmi.

Perché?

Perché non ti amo più. Sono fidanzata con un altro.

E se ti bacio che fai?

La tua mezz’ora è appena iniziata. È già passato un minuto. Devo solo vederti per altri ventinove minuti, poi avrò cinquecento dollari e non dovrò vederti più.

Però non è giusto iniziare a contare prima di chiudere la porta.

Ecco. Adesso è chiusa. Mi slacci i bottoni dietro della camicetta?

Gli altri due l’hanno fatto?

Non portavo questa camicetta. Ma lo avrebbero fatto, anche ben volentieri.

Ecco qua.

Ti piace come me la sfilo? Sento che mi guardi la schiena. Sento il tuo sguardo sul gancio del reggiseno. Mi vuoi sganciare il reggiseno? Ho le tette eccitate. Ho i capezzoli duri perché tra un attimo mi sgancerai il reggiseno e io mi volterò e ti ficcherò le tette in bocca e sarà l’ultima volta che potrai ciucciarmi le tette.

Che cosa sono quei lividi sulla clavicola?

Succhiotti. Di quei due. Soprattutto il secondo. Tutto il mio corpo odora di lui.

Io non sento nessun odore a parte il tuo.

Hai voglia se lo senti. Mi senti addosso l’odore di tutti gli altri uomini. È un odore forte come quello di benzina. Vedi i graffi che mi hanno lasciato e tutto il resto. Però non lo ammetti. Sarebbe troppo umiliante. Ti metteresti a piangere, coglione patetico che non sei altro.

Gli slip te li togli?

Mi hai sentito. Ti ho detto che prima di fare qualsiasi altra cosa devi ciucciarmi le tette. Me le devi ciucciare finché non senti la saliva, l’alito e il sudore degli altri uomini.

No.

Me lo vuoi mettere dentro o no?

Non mi va più.

Ci hai ripensato? Bene. Ma mi devi ancora cinquecento dollari.

No.

Come, scusa?

Ho detto di no.

Ma infatti. Lo sapevo. Be’, mio marito ti pesterà a sangue. Perché non corri a casa ad aspettare? Gli do le mie chiavi. Verrà oggi a spezzarti braccia e gambe. È bravissimo a farlo. Lo fa di mestiere. Ecco, mi rimetto la camicetta. Me l’abbottoni o ti tiri indietro anche su questo?

Adesso ti strappo gli slip e ti violento.

Voglio proprio vedere. Basta che ti guardo e ti si ammoscia. Non potresti violentare neanche una medusa.

Mi hai amato?

Non mi ricordo. Non credo. Ma a volte mi facevi pena. Mi fai pena anche adesso. Non ce li hai i cinquecento dollari, vero?

No.

Volevi solo guardarmi un’altra volta.

Esatto.

Quanto mi ami?

Ti amo tantissimo.

Vuoi scoparmi adesso? Ci tieni tanto? Vai! vedi, mi ritolgo la camicetta. Ecco qua. Adesso mi puoi toccare. Ma non ho più le tette dure. Non stare lì a fissarmi. Guarda, anche gli slip mi tolgo; ho allargato le gambe, che altro vuoi? Ah, ma certo. Devo dire che ti amo. Ti amo. Te lo dico quando stai per venire. Serve altro?

No.

Be’, allora, lo fai o no?

Sì, grazie. Lo faccio.

Bravo. Eccoti il preservativo. Aspetta che mi spalmo il gel.

Sentiamo come ti alleni a dire ti amo.

Ti amo ti amo ti amo, va bene? Sbrigati.

Non sento niente.

Perché non sei abituato al preservativo. Non stai più scopando con me per davvero, stai scopando con un pezzo di lattice che casualmente si trova dentro di me.

Non mi riferivo a quello.

D’accordo. Quei due che mi hanno trombato hanno detto di avere l’AIDS. Quindi io ho l’AIDS. Togliti il preservativo, scopami e prenditi l’AIDS, se proprio ci tieni. Sai che me ne importa. Ecco. Tolto. Come sbucciare una banana. Adesso me lo rimetto dentro. Com’è?

È bello.

La senti la morte che s’insinua dentro di te?

Oh, è bellissimo.

Stai affondando sempre di più nella mia morte. Adesso la mia morte è dentro di te. Allora, stai per venire? Sembrerebbe di sì. Ti amo. Stavolta parlo sul serio. Ti amo. Ti amo perché morirai per me.

William T. Vollman

La perfezione di un racconto che pur avendo come perno il cinismo di lei, si chiude con un finale inaspettato, degno della migliore tradizione romantica.

L’ATLANTE (per chi ama la complessità palindroma)

William T. Vollmann quote: So he lent her books. After all, one of life's...

Il libro di William T. Vollmann meriterebbe d’essere letto sulla fiducia, solo basandosi sull’originalità della Nota del compilatore. Senza dimenticare che, al di là del guizzo quasi geniale di organizzare i racconti della raccolta in un palindromo, avremmo comunque tra le mani il libro di uno dei più grandi scrittori americani viventi. Unica avvertenza: essere avvezzi alla sovrabbondanza di aggettivi e alle frasi lunghe e complesse che tuttavia, e va sottolineato, nulla tolgono all’umanità del narrato.

Nota del compilatore

“Questo libro è ispirato ai Racconti in un palmo di mano di Yasunari Kawabata, che amo rileggere prima di dormire, nei cinque minuti tra quando mi metto a letto e quando spengo la luce. Così come è un piacere per me sfogliare un mio grande atlante, fermandomi su paesi ignoti mentre aspetto che la mia compagna della serata finisca di lavarsi i denti. Scrivere questi racconti mi ha dato lo stesso tipo di gioia rapsodica. Come osserva James Branch Cabell: «Nessuno dei temi predominanti nella mia epoca mi induce a occuparmene in maniera intelligente e spassionata». Quello che hai in mano, allora, non è che un atlante frammentario del mondo in cui io penso. Spero ti piaccia, malgrado l’omissione di un paio di continenti. E se lo terrai sul comodino e lo leggerai senza un ordine particolare, saltando i racconti che ti annoiano, appisolandoti sui brani più soporiferi, avrò l’impressione di aver finalmente fatto del bene al mondo quanto i produttori dei nostri sciroppi di codeina più potenti. Nascondilo sotto il sedere quando darai inizio ai piaceri notturni. Ammazza le orride mosche del sonno con la sua copertina rigida. Appoggialo sugli occhi per ripararti dalla luce. E che la tua anima volteggi libera su quel mondo! Perché, malgrado l’opinione di un certo trascendentalista, dal quale apprendiamo che «viaggiare è il paradiso degli sciocchi», altri filosofi venerano i cambiamenti d’aria perché sono salubri. Considera il componimento scolastico di un alunno di seconda elementare d’origine cambogiana. Il tema assegnato in classe era: «Il futuro». Il bambino scrisse:

NEL futuro vorrei che il mondo fosse una zona di guerra in CINA. Spero che sarò nella MARINA per aiutare la MARINA USA a Uccidere gli ALLEATI. Ucciderò polpot e i suoi uomini e familia. Tornerò da eore. Sarò l’unico CANBOGIANO sulla nave. Che si possa tutti uccidere i nostri migliori alleati prima che loro uccidano noi. E con questo, lettore, buonanotte.1

1A chi ha bisogno di giochi e calcoli per prendere sonno, sarà bene precisare che la raccolta è organizzata come un palindromo: il motivo del primo racconto viene ripreso nell’ultimo; il secondo racconto riecheggia nel penultimo, e così via. Inoltre, alcune storie hanno lo stesso titolo di libri che ho scritto in precedenza; sono riduzioni tematiche alla maniera di «Il paese delle nevi», il racconto di Kawabata derivato dal suo romanzo Il paese delle nevi(Tuttavia, mentre la metonimia di Kawabata contiene materiale presente nella storia madre, la mia tenta di usare materiale nuovo, perché noi americani amiamo le novità.) La storia che dà il titolo al libro invece contiene un poco di tutte le altre”.

È troppo difficile da spiegare

Sarajevo, Bosnia-Erzegovina (1992)

Sedeva a tavola vicino a me, totalmente prigioniera del silenzio mentre le risate le esplodevano intorno come bombe. Alla fine le chiesi perché era così infelice.

È difficile da spiegare, disse lei. 

Prova.

Ti mancano le parole. Mi mancano le parole.

Allora non è per la guerra, dissi. Secondo me sei sempre stata infelice.

Si sporse verso di me. Sì, disse.

Anch’io, dissi.

Sorrise. Posò la mano pallida sulla mia. Provai una violenta tenerezza per lei.

Vieni, disse. Devo cucinare per queste persone. Puoi farmi compagnia.

Mentre uscivamo insieme, gli altri gridarono di giubilo perché credevano che avessi fatto una conquista. Il padrone di casa, ferito due volte da quando era andato volontario un mese prima, era ubriaco fradicio. Il suo appartamento era fra quelli ancora intatti (o forse ristrutturato grazie alla speciale liquidità che la proprietà acquisisce in tempo di guerra), con moquette, vetrinette e finestre (incredibile vederle indenni), tappeti di pelliccia, Ballantine’s e vodka a volontà. Nel bel mezzo della festa aveva estratto la pistola e annunciato che voleva collaudare il mio giubbotto antiproiettile, direttamente addosso a me. Nei suoi occhi balenò una risata disperata, la canna della pistola ondeggiò. Prima posso finire di bere?, chiesi. Mi piace il tuo stile, James Bond!, esclamò. Avanzò verso la finestra e sparò tre volte, con un ruggito. Forse uccise un vicino o forse le pallottole andarono a vuoto. Ricordo che lei rabbrividì di dolore e disperazione, tremando al rumore degli spari. Sai, ho una paura patologica, mi disse. Vorrei venire con te, ma non posso. Ho paura di andare da qualunque parte. Questa strada si trova in centro. È una delle peggiori per i cecchini. E ogni mattina devo andare al lavoro, e anche dal medico per mia madre. Devo sempre correre. E la notte non chiudo occhio. Il rumore dell’artiglieria mi terrorizza. In quel momento avrei dato la vita per lei se fosse servito, ma niente poteva aiutarla. Così ci avviammo verso la porta insieme, e gli altri risero.

Fuori dell’appartamento al lume di candela era buio pesto, neanche a dirlo. Scendemmo a tentoni le due rampe di scale fino al pianerottolo dove si trovava la stufa e lei vi si chinò sopra. Non va, disse. Mi appoggiò la mano sulla stufa e scoprii che era fredda. Quel giorno non avrebbero cucinato niente.

Così tornammo alla festa e gli altri ci fissarono. Pensavano che avessimo litigato.

Lei mi disse: Non capisco perché dobbiamo vivere. La vita è solo tristezza.

Ma hai detto che amavi la musica. Non ti capita qualche momento di felicità?

Felicità? Oh, sì, a sprazzi. E poi tristezza per anni.

Cosa ti renderebbe felice?

Non dover lavorare. Vivere da sola. Ma non posso, perché non ho soldi. E non capisco perché i soldi sono indispensabili per vivere.

Quanti soldi ti servirebbero per essere felice?

Non lo so. Ma tanto è impossibile.

Centomila marchi tedeschi al mese?

No, no, sono troppi.

Quanto?

Forse duecento.

Al mese?

Sì.

Quindi se ti dessi duecento marchi tedeschi potresti essere felice per un mese?

Sorrise per la seconda volta. Pensava che scherzassi, ma lo scherzo le piaceva. Sì. Sei una brava persona…

Quando fu ora di andarmene tirai fuori i soldi e glieli diedi. Dovetti inginocchiarmi di fronte all’unica candela al centro della stanza per distinguere le banconote, e così tutti stettero a guardare e sentii le loro risa spegnersi misteriosamente nel nulla. L’ombra della mia mano e delle banconote tremò mostruosa sulla tenda anti cecchino. Macchiò di buio i loro volti.

Non voleva accettarli. Non capisci niente, ripeteva. Per favore, per favore.

Infatti non capisco niente, dissi. Prendili. Io posso farne a meno.

No, no. Per favore.

Alla fine ci rinunciai. Ma mentre uscivo, preparandomi a scendere con gli altri ospiti quelle scale fredde e immerse nel buio, ricordando la ringhiera marcia in fondo, poi il pericolo terribile quando dovevano aprire la porta d’ingresso e correre a cielo aperto; mentre il miliziano urlava di rabbia e di dolore perché si era ubriacato e aveva fatto qualcosa che gli aveva aperto la ferita al braccio dove la pallottola continuava a triturargli l’osso che adesso sanguinava dalla manica; mentre il padrone di casa mi urlava ridendo: ti vuole baciare, James!; mentre l’autista infilava una pallottola nella camera della pistola; mentre le donne si rimboccavano i vestiti per correre, lei venne da me e mi strinse forte la mano.

William T. Vollmann, L’atlante