Freedom Day

Il suo profilo ha l’andamento sinuoso appena accennato delle ombre cinesi, labbra a bacio, capelli folti e sottili, castani, raccolti dietro in qualche modo che nella semioscurità non vedo. Le note la penetrano, penetrano le note dal vivo, attraverso i corpi e lungo i nervi ed entrano in risonanza. In questo senso è nuda, come me, come tutti, non c’è abito che le rimbalzi via, le note. Lo sguardo è intento, allunga il collo a superare le teste, si ricompone. Il piede ben calzato batte giusto il ritmo contro il poggiapiedi del suo sgabello, al bancone, il bicchiere è sospeso in mano, come dimenticato con l’intruglio che contiene, sadiocosa. Stacca un attimo, lo sorseggia, muove la testa a tempo, un paio di battute. Lo fa in levare, poi recupera come un batterista. Il pezzo le piace. Sta suonando il suo concerto, o meglio lo sta danzando, impercettibilmente. Sente la musica ed è la sua natura, si capisce chiaro. E’ bellissima.

 

Unduettre

Ascolto dischi che sono una strage, i jazzisti muoiono come mosche. Passando il polpastrello sui vecchi solchi vi si trattiene un dito di genio. E io lo ciuccio, il sapore è di vinile e note e a questi ne bastano due. C’è chi in due secondi ne soffia troppe ma senza dire, senza soddisfare le libidini dell’orecchio.
Ci danzerei in questo walzer per niente viennese  ma intriso dell’odore di legno marcescente. Perché si sa che New York è città di legno, il concreto è parte minima in quelle architetture. E’ confinato nella punta sud, barriera alle ossidazioni del salmastro. E i boroughs sanno di contrabbasso, al di là dei ponti: interi quartieri poggiano sui timbri gravi, e odorano di legno in chiave di fa. Una moltitudine di case e condomini-contrabbasso, villette clarinetto-basso, nelle cui intercapedini scorrono fili elettrici fuori norma, spellati e spesso in corto. Scoppiano combustioni psichiche laggiù, e le sirene dei pompieri si incrociano, come ottoni squillanti in corsa.  In corsa. Sempre di corsa.

Sssstoc!

Da secoli ormai non c’è grigiore o uggiosità del tempo che ti cambino l’umore. Neanche le belle giornate, a dire il vero. La tristezza ormai da secoli è giusto un velo spalmato su un pane odoroso e fragrante. E ti piace così, meglio che certe oche giulive o i loro neuropatici contraltari. Nel loro tono eccessivo riconosci il singulto trattenuto dell’isteria e questo, pare, per antiche disattenzioni di mammà.

Tre o quattro le cose avanzate come opzioni definitive per l’ultimo terzo di vita, ancora una forse ne scarterai, ma danno senso e gioia prima e dopo il sonno. Un sonno quieto e ristoratore che in passato pareva impossibile. Obliare l’anelito alla felicità è forse il presupposto per riottenerla in qualche forma. Forse, dico. Ne sia una accettabile parvenza o un surrogato, è frutto di un graduale lavoro di scarto. I collaudi, spesso auto-inflitti, sono stati superati e gli obbiettivi raggiunti. Anche amore e desiderio e relative maschere e decodificazioni, col loro “giusto” dire ed agire e la rava e la fava, ti hanno stancato. Non ti manca nessuno, non senti la mancanza di questa mancanza e così cammini libero e rinfrancato.

Le mani in tasca, calci noncurante il sasso con effetto teso a rientrare, perfino colpendo la base del lampione, sssstoc! Proprio come insegna il monaco Zen col suo cazzo di arco, ma veh, magguardaben…

Glosse Laviche

Le parole sgorgano liquide e scivolano in colate principali e secondarie. La colata primaria è comunicazione, le colate secondarie sono poesia. Le posture e i movimenti del corpo nascono da altri crateri ma similmente, colano: la grande colata è quella del linguaggio corporeo e dell’attività pratica, le colate più piccole trasfigurano in danza. I suoni scivolano nella colata della fonazione e della comunicazione verbale. Nelle colate secondarie c’è la musica. Lo stesso per le immagini. Tutto ciò che nel linguaggio non ha valore pratico va nelle colate secondarie e consoliderà nel basalto dell’arte.
Le colate principali perderanno mano a mano di forza. Fino ad essere dimenticate.