Settembre 2017: Talking Heads – REMAIN IN LIGHT (1980)

Remain in light

 

Data di pubblicazione: 8 ottobre 1980

Registrato a: Compass Point Studios (Nassau), Sigma Sound Studios (New York)

Produttore: Brian Eno

Formazione: David Byrne (voce, chitarre, basso, tastiere, percussioni), Jerry Harrison (chitarre, tastiere, cori), Tina Weymouth (basso, tastiere, percussioni, cori), Chris Frantz (batteria, percussioni, tastiere, cori), Brian Eno (basso, tastiere, percussioni, cori), Nona Hendryx (cori), Adrian Belew (chitarra), Robert Palmer (percussioni), Jose Rossy (percussioni), Jon Hassel (tromba)

Lato A

                                        Born under punches

                                        Crosseyed and painless

                                        The great curve

Lato B

                                        Once in a lifetime

                                        House in motion

                                        Seen and not seen

                                        Listening wind

                                        The overload

Spesso si pensa che non so cosa sto facendo. Ma in realtà non è così.

Se sei in grado di seguire il tuo istinto, allora vuol dire che sai cosa stai facendo

(David Byrne)

Il nuovo “Let it be”, a cominciare sin dalla copertina, che vede i quattro Talking Heads nella stessa posizione dei Fab Four per quello che fu il loro addio alle scene, per poi intraprendere ognuno la sua strada, dopo essersi rotti le ossa a furia di litigate e dissapori. Con la differenza che quello era una specie di “ritorno alle origini” per i Beatles, nonostante la ridondante produzione di Phil Spector (sempre invisa a Paul McCartney), a cominciare proprio da uno dei pezzi ivi contenuti “Get back”, ossia “torna indietro”, mentre Remain in light rappresenta l’innovazione pura, una specie di gioco di contrasti dove si alternano la retromania e l’avanguardia. Se Let it be era una specie di riconciliazione col passato, poiché per il futuro non vi era più spazio, Remain in light rappresenta invece il sovvertimento di tutto ciò che è stato prima. Anche all’interno della corrente d’avanguardia che stava scuotendo la New York degli anni ’70, tremebonda dei sussulti pre e post punk, e della new wave, i Talking Heads hanno rappresentato uno caso a sé stante, unico e importantissimo, creando nuovi equilibri tra il pop di facile fruibilità e l’avanguardia più colta, ponendo nuovi incroci tra la sperimentazione e la contaminazione, soprattutto imbastendo un nuovo territorio sonoro in cui cultura bianca e cultura nera potessero mescolarsi con grande disinvoltura. Non a caso il parallelismo con i Beatles che abbiamo preso in considerazione è da intendersi non tanto in senso pieno, quanto nella strutturazione di una nuova idea musicale (essì che di avanguardia i Beatles ne fecero parecchia!), e nella dissacrazione più totale di ciò che fu (non a caso i volti dei Talking Heads in copertina sono tinti di rosso, come dei cyber stregoni della nuova epoca), oltre che nella creazione di una musica che unisse le culture, ma non secondo l’utopia hippie degli anni ’60, ma nell’ossessione metropolitana e cacofonica di una proposta artistica eclettica ed estrosa.

Le “teste parlanti” si formano verso la metà degli anni ’70, in una New York che fermentava nuovi approcci all’arte e alla sua rappresentazione, grazie anche all’opera nuova di Andy Warhol. Alienazione, frenesia, colori erano la cifra artistica di questi nuovi sussulti, e di conseguenza anche la musica dei Talking Heads ne subirà la fascinazione. I membri sono un giovane di origine scozzese, David Byrne, e due ragazzi, Chris Frantz e Tina Weymouth, che già avevano una certa esperienza come turnisti per cover band. Questi tre giovanotti si incontrano alla Rhode Island School of Design, e da lì parte il progetto per la fondazione di una nuova band, che subisse il fascino del glam rock britannico e nello stesso tempo lo potesse unire agli umori della Grande Mela. Ben presto si unirà a loro un chitarrista proveniente dai Modern Lovers, Jerry Harrison.

Il primo passo della band sarà l’esordio Talking Heads ’77, pubblicato dopo aver fatto da spalla ai Ramones per un loro tour. L’album è una sorta di cinismo intellettuale, che tanto produrrà sementi opportune per l’influenza di altre band, dai Devo ai Tuxedomoon, dai Pere Ubu ai B-52’s, forte del martellante e delirante pezzo Psycho killer.

Ma come per tutte le grandi storie, anche per i Talking Heads, sarà l’incontro con un genio che eternerà la storia negli annali del rock, e quel genio si chiama Brian Eno. La sua prima produzione (anche se molto nascosta) si potrà rintracciare nel secondo album, More songs about buildings and foot, dove si può scorgere una sorta di maggiore primato del ritmo a scapito di assoli e melodie, prediligendo la cultura tribale come nuova colonna sonora della civiltà metropolitana. Il successivo Fear of music incrocia la nascente cultura disco con il funky nero, asssumendo nello stesso tempo un umore decadente e austero. Tre grandissimi dischi che poteranno direttamente alle sperimentazioni del capolavoro definitivo Remain in light (in mezzo vi sarà My life in the bush of ghosts dei soli David Byrne e Brian Eno, registrato prima, ma pubblicato l’anno seguente). Remain in light vede in primissima linea un David Byrne se possibile ancora più folle ma nello stesso tempo abilissimo nel saper maneggiare la propria personalità, e una musica che è una sorta di impazzita apoteosi funk, perfetta sintesi tra nevrosi urbana occidentale e primordialità nera. Quasi tutti i brani sono nati da improvvisazioni e sviluppati in sede di incisione, creando la loro struttura al mixer.

Apre il disco il funky impazzito di Born under punches, per un’atmosfera selvaggia, come una sorta di rito tribale arcaico, particolarmente sottolineato dalle linee snappate del basso e le percussioni. Segue la martellante e ossessiva Crosseyed and painless, densa di ritmi regolari e follia interpretativa, con un David Byrne in preda ad una sorta di crisi isterica. Chiude il primo lato la frenetica The great curve, in cui si incrociano cori tribali, inquietudini e isterie metropoliane.

Apre il secondo lato la leggerezza pop di Once in a lifetime, sorretta da una cadenza ritmica il cui scorrere si dispiega in suoni digitali e un ritornello melodico e funkeggiante. Houses in motion invece introduce la cultura reggae nel linguaggio nella cultura della new wave. Si intravedono i germi della cultura house invece nella sintetica Seen and not seen, mentre Listening wind è una ballata ipnotica e psichedelica densa di umori arabeggianti e orientali. Si chiude con The overload, una tenebrosa esplorazione dark, che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda con i fantasmi glaciali dei Joy Division e dei Bauhaus.

Remain in light rappresenta quindi lo zenit assoluto della sperimentazione dei Talking Heads, incrocio coraggioso e geniale della poliritmia africana e la new wave americana, apportando anche importantissime tecniche sperimentali anche in fase di registrazioni, preferendo la serie di ripetizioni e il loop alla presa diretta. Un album che ha lanciato messaggi e segnali molto importanti per l’incrocio delle varie culture, e in particolare nella pop art. Segnali che furono ben raccolti dagli U2 degli anni ’90 quando registrarono il loro sottovalutatissimo Pop (si riveda il paragone con i Beatles tenendo sempre presente la copertina), quando la band irlandese voleva fondere cultura dance e rock, tribalismo elettronico e antiche ballate, non a caso tra gli ispiratori intravidero i Talking Heads.

Dopo Remain in light niente fu più uguale, anche per i Talking Heads, nonostante riuscissero a sovvertire persino le leggi degli spettacoli dal vivo, come si può ammirare nello splendido film di Jonathan Demme, Stop making sense. Ripetersi agli stessi livelli non fu facile, e nonostante non scesero mai sotto il livello della decenza, Remain in light restò un episodio irripetibile. I Talking Heads chiusero la carriera alla fine degli anni ’80, dopo aver dato alle stampe un bel disco come Naked, dopodiché i quattro di dedicarono ai vari progetti solistici (nonostante Tina Weymouth e Chris Frantz avessero già lavorato in proprio con l’interessante progetto Tom Tom Club). I risultati saranno alterni, ma la grandezza resterà inalterata. E la loro eredità ancora oggi una fiorente sorgente di idee originali e bizzarre.

Album senza precedenti, allo stesso tempo audacemente sperimentale e orecchiabile, Remain in light è il definitivo momento dei Talking Heads

(Ryan Schreiber)

Settembre 2017: Talking Heads – REMAIN IN LIGHT (1980)ultima modifica: 2017-09-14T16:31:58+02:00da pierrovox

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