Novembre 2018: MC5 – KICK OUT THE JAMS (1969)
Data di pubblicazione: Febbraio 1969
Registrato a: Grande Ballroom (Detroit)
Produttore: Jac Holzman & Bruce Botnick
Formazione: Rob Tyner (voce), Wayne Kramer (chitarra, chitarra ritmica, cori, e voce principale), Fred “Sonic” Smith (chitarra, chitarra ritmica, cori), Michael Davis (basso, cori), Dennis Thompson (batteria)
Lato A
Ramblin’ Rose
Kick out the jams
Come together
Rocket recuder no. 62 (Rama Lama Fa Fa Fa)
Borderline
Lato B
Motor city is burning
I want you right now
Starship
“Kick out the jams, motherfuckers!”
Forse pochi se ne sono accorti o lo considerano con la giusta attenzione, ma da Detroit in particolare, alla fine degli anni ’60, arrivò un messaggio rivoluzionario destinato a cambiare in maniera radicale la storia del rock, quello cioè del cosiddetto proto-punk, ossia ciò che era punk prima ancora che il punk venisse codificato come tale. La tendenza era quella di un suono sporco e riottoso, testi trasgressivi e di rottura con lo spirito idealistico che aveva preceduto questa fase, e una vera e propria animalità scenica. Una serie di band che avevano elevato a standard il cosiddetto triangolo “sesso, droga e rock’n’roll”, ma che volevano suonare lerci, perfidi, cattivi. Tutto questo non fu che un elemento anticipatore di ciò che poi alla fine degli anni ’70 divenne quella corrente destinata a trascinare giù tutto: dagli emblemi sociali ai dinosauri del rock’n’roll.
Tra queste spicca con particolare potenza appunto la band di Detroit MC5 (sigla che sta per Motor City 5, ossia Detroit 5). La band di Rob Tyner viene appunto considerata una dei precursori del genere punk: iconoclasti e politicizzati, hanno rappresentato, come gli Stooges, una delle rivoluzioni musicali più potenti della storia del rock, anche se rispetto a quelli, il loro successo all’epoca fu molto più ridimensionato, e la loro portata storica riconosciuta col tempo.
La loro proposta era un rock oltraggioso, fatto di musicalità dure e devastanti e un tessuto lirico sporco e carico di oscenità, oltre che di una presa di posizione politica violenta e rivoluzionaria, tanto da interessare niente meno che John Sinclair, leader delle Pantere Nere, che si poneva l’obiettivo di “assalire la cultura con ogni mezzo, compreso il sesso, la droga e il rock’n’roll”. La proposta sonora degli MC5 comunque era così devastante a tal punto che era limitante portare la band in uno studio per il loro disco d’esordio, e pertanto la Elektra pensò bene di riprendere una loro esibizione al Grande Ballroom del 30 e 31 ottobre 1968. Se ne ottenne un disco devastante, imponente, nonostante una storica stroncatura di Lester Bangs, che lo riteneva “ridicolo, prepotente e pretenzioso”.
Lo spettacolo si apriva con la violenza rabbiosa di Ramblin’ Rose, con un falsetto strozzato e un muro sonoro caotico e assordate innalzato dalle sature chitarre di Kramer e Smith. E un urlo disumano apre la forsennata title-track, uno dei brani più epilettici e nervosi di sempre, con il suono incendiario delle chitarre e il suono pestone della batteria. Un rock assordante e devastante, non pensato per la melodia e la rassicurazione, ma per la rivolta e la violenza per le strade. Se c’era qualcosa di più iconoclasta nell’America degli anni ’60, eccola servita su questo piatto. E Come together chiama appunto alle armi con una mitragliata di suoni hard e garage impattanti come una serie di lame lanciate ad altissima velocità, o di un baccanale dionisiaco denso di abissi rumorosi e marciume sonico. Feedback e distorsioni sono elementi portanti in Rocket reducer no. 62, per un nuovo assalto assordante. Borderline dal canto suo vanta delle chitarre scintillanti e vomitanti nero hard rock.
A questo punto giunge il blues malandato di Motor city is burning, sinistra cover di un pezzo di John Lee Hooker, con tanto di triangolazioni chitarristiche che disegnano accordi al veleno. Per I want you right now abbiamo l’ennesimo e malsano muro sonoro, questa volta però solenne e imponente. Chiude la rilettura di Starship del genio free jazz Sun Ra, fatta di progressione imperiosa del rumore, sarabande assordanti, distorsioni magmatiche, e ipnosi collettiva. Chi doveva essere lì in quei giorni non poté che uscirne tramortito da tanta energia malsana e da cotanto disastro strumentale. Gli MC5 erano la voce cattiva dell’America.
Il disco però di suo non ottenne un grande successo, e l’arresto di Sinclair non fece che peggiorare la situazione. Furono pertanto licenziati dall’Elektra, ma immediatamente accolti dall’Atlantic, con la quale registreranno due album: il primo, Back in The U.S.A. pubblicato nel 1970, tornava sui terreni del buon vecchio rock’n’roll, seppur i fans della prima ora mal digerirono la depoliticizzazione dei testi; il secondo High time, del 1971, tentava approcci di un rock’n’roll più accessibile. E sarà questo a chiudere la carriera discografica della band di Detroit, che comunque si riserverà nel futuro di fare le sue brave reunion, e addirittura tentare approcci col rock a venire, come fu la bella esibizione a Londra con i Primal Scream al Royal Festival Hall del 2008, pubblicata poi nel 2011 con un delizioso cofanetto, Black to comm. Pochi passi quindi nella carriera degli MC5, ma tutti ammantati da un’aura cattiva e devastante che nel rock ha lasciato più di una traccia importante, che ancora oggi brucia con sacro furore.
“La cosa che ci lega agli MC5 è che siamo persone ossessive, che da adolescenti erano insoddisfatte della proposta culturale che gli veniva offerta. Siamo stati e siamo ancora sognatori che vedono una via d’uscita dalla noia, dalla bruttezza”
(Bobby Gillespie)