Ottobre 2019: Wilco – A GHOST IS BORN (2004)
Data di pubblicazione: 21 giugno 2004
Registrato a: New York
Produttore: Jim O’Rourke
Formazione: Jeff Tweedy (voce, chitarre, sintetizzatori, basso acustico, loops), John Stirratt (basso, chitarra, piano, sintetizzatori, cori), Glenn Kotche (batteria, percussioni, dulcimer, sintetizzatori), Leroy Bach (piano, organo, basso, vibrafono, chitarra, sintetizzatori), Mikael Jorgensen (piano, rocksichord, farfisa, organo, sintetizzatori), Jim O’Rourke (piano, basso, chitarra, ARP 2600, sintetizzatori), Frankie Montuoro (dulcimer), Karen Waltuch (viola), Tim Barnes (percussioni)
Tracklist
At least that’s what you said
Hell is chrome
Spiders (Kidsmoke)
Muzzle of bees
Hummingbird
Handshake drugs
Wishful thinking
Company in my back
I’m a wheel
Theologians
Less than you think
The late greats
“La musica mi ha salvato la vita”
(Jeff Tweedy)
Apparentemente “sfigati”, i Wilco sono diventati una delle voci più importanti della scena indie rock degli ultimi vent’anni. La loro formula nasce dalle sorgenti dell’epico roots rock americano, per allargare lo sguardo sulla tradizione folk e country, e miscelarsi in una dimensione rock decisamente d’ampio respiro, attraverso una propensione per il songwriting del leader Jeff Tweedy assolutamente superiore.
La loro storia in un certo senso inizia negli anni ’80, quando Jeff Tweedy ancora militava nell’alternativa country band Uncle Tupelo, dividendo il ruolo di cantante con Jay Farrar. La band si sciolse quando quest’ultimo la abbandonò per formare i Son Volt, e Jeff Tweedy con i membri restanti decise di formare i Wilco. Il nome della band veniva da un’espressione utilizzata in aviazione, da una contrazione di “Will comply”.
I Wilco hanno dovuto percorrere il loro cammino in assoluta ascesa, poiché le prime mosse della band, nonostante fossero di pregevole fattura (si pensi al doppio album Being there), non riuscissero a “sfondare” del tutto. E se aggiungiamo il fatto che i Wilco rifiutassero del tutto il cliché della rockstar devastata e maledetta, ma ci tenevano del tutto a difendere la propria immagine di persone comuni, appassionate della musica, e interessate solo a questa, possiamo capire che questa immagine era in un certo senso poco spendibile su un mercato desideroso di nuovi eroi.
Mettiamoci pure la cecità della Warner che li scaricò nel 2001, quando presentarono il master di Yankee Hotel Foxtrot, disco che rimase nel cassetto per oltre un anno, proprio perché lo considerava poco convincente, e difficilmente vendibile. Ma come sempre gli scherzi del destino in qualche modo ti si ritorcono contro, perché nel 2002 i Wilco firmano per la Nonesuch (che comunque gravitava nel circuito Warner), che pubblica immediatamente l’album (che comunque nel frattempo era stato reso disponibile gratuitamente online), che rappresentò un cambiamento radicale nelle sonorità del gruppo, che lasciava la tradizionale convenzione folk country, per addentarsi dentro atmosfere sperimentali, elettroniche e sintetiche, che trovavano in una formula pop di ampio respiro una eccellente dimensione espressiva. E quello che avrebbe potuto essere un fallimento diventa un successo vero e proprio: ad oggi Yankee Hotel Foxtrot rappresenta il successo commerciale più ampio dei Wilco, oltre ad essere uno dei loro dischi migliori.
Ma per poterli rappresentare in questa sede, ci siamo orientati sul suo successore: A ghost is born, che seguiva e approfondiva il discorso sperimentale intrapreso, dichiarando apertamente di voler rompere una volta per tutte col passato.
Coadiuvati da Jim O’Rourke, i Wilco pubblicano un disco vero e proprio di rinascita, in tutti i sensi. Durante le registrazioni dell’album infatti Jeff Tweedy sarà vittima di una seria depressione che lo poterà ad un abuso di farmaci antidepressivi, antidolorifici e alcool. Dovette letteralmente disintossicarsi da tutta questa dipendenza malsana, che rischiava seriamente di distruggerlo. Questo disco quindi rappresentava una sua rinascita, l’aver a che fare con i propri fantasmi e le proprie manie, e il tornare in vita. Ma nello stesso tempo attraverso tutto questo dolore, facendolo quasi in punta di piedi.
Ed è così che si viene travolti magicamente dalla bellissima At least that’s what you, che apre il disco. Il pezzo emerge quasi dal nulla, con leggerissimi puntelli di pianoforte, un sussurro e delle corde di chitarra appena pizzicata, quasi a non voler per nulla interrompere quel magico incanto che offre “il silenzio”. Ma questo incanto viene interrotto da una chitarra elettrica che entra e comincia a sovvertirlo inaspettatamente, tra vorticose distorsioni e una ritmica che impazzisce incontrollatamente, per poi spegnersi in un eco. Un pezzo che apre un disco in questo modo non può che essere il preludio per un grande capolavoro.
La segue la ballata lenta e tetra di Hell is chrome, ispirata ad una vera e propria testimonianza di vita di Tweedy, trasportata dalla sua fantasia, e con un assolo di chitarra spezzato, come quello di un groppo in gola. Spiders (Kidsmoke) invece cambia le atmosfere sposando le incursioni elettroniche declinandole in una surreale veste pop psichedelica, e con un riff d’intermezzo che associa epicità ed enfasi. Muzzle of bees invece riporta emotivamente il disco su territori sonori sospesi e bucolici, guardando per un attimo a Donovan o Nick Drave, con una tonalità cantautoriale densa di tristezza. Hummingbird invece è l’omaggio della band a John Lennon, tanto nelle melodie quanto in un inconfondibile suono di pianoforte. Handshake drugs invece si accosta ad un cantautorato americano sullo stile di Randy Newman, senza dimenticare le acide incursioni psichedeliche, che distorcono il brano in un ammasso sonoro assordante. A questa segue la spumeggiante Wishful thinking, elegante e malinconica, e l’indie folk di Company in my back, che un po’ si associa ad alcune cose dei Noir Desir di Des visages, des figures, ma con molta meno drammaticità, e molta più solarità. E quando meno te lo aspetti giunge il garage beat di I’m a wheel, a metà strada tra i Beatles di Rubber soul e i Beach Boys di Pet Sounds. Theologians è il secondo omaggio implicito a John Lennon, anche questo visibilmente riconoscibile dal suono del pianoforte e dalla melodia. E poi giunge la sorprendente Less than you think, il pezzo più lungo e strambo del disco. Esattamente come il pezzo d’apertura, pare che emerga dal nulla, sospesa e suadente, si arricchisce col crescendo di alcuni strumenti come il vibrafono, e poi si sospende in una lunghissima cacofonia di suoni elettronici, frequenze, quasi senza senso. Qualcuno pensa al krautorock, ai Can, i Tangerine Dream, e quella roba lì, altri lo trovano una onanista trovata autoindulgente. Certo è che si tratta di qualcosa assolutamente fuori dagli schemi. Ma dopo questo torna la musica cantata, e si chiude con la vibrante The late greats, che non fa che confermare la straordinaria peculiarità artistica di Tweedy e la sua propensione per la composizione e la melodia.
A ghost is born è un album semplicemente bellissimo, che eguaglia in magnificenza Yankee Hotel Foxtrot, e guarisce le ferite del leader. In ognuna di queste note, di queste melodie, di questi suoni, si rasenta la perfezione e l’intelligenza. Altro che “sfigati” quindi, e con buona pace della Warner, i Wilco proseguiranno il loro percorso artistico con album sempre molto buoni, da Sky blue sky, che seguirà A ghost is born di tre anni, fino a Star wars del 2015, pubblicato a sorpresa e in download gratuito sul sito della band, e che ancora una volta ha dimostrato che la classe di questa band non è affatto acqua, ma vino buono, che migliora col tempo!
“In tutta la carriera dei Wilco Tweedy ha sempre cercato di sfidare le aspettative”
(Jim DeRogatis)