Febbraio 2020: Van Dyke Parks – SONG CYCLE (1968)

Song cycle

 

Data di pubblicazione: Gennaio 1968
Registrato a: Sunset Sound Studios (Hollywood)
Produttore: Lenny Waronker
Formazione: Van Dyke Parks (voce), Dick Rosmini (chitarra), Ron Elliot (chitarra), Steve Young (chitarra folk), Thomas Tedesco (balalaika), Allan Reuss (balalaika), Nicolai Bolin (balalaika), Leon Stewart (balalaika), William Nadel (balalaika), Vasil Crienica (balalaika), Randall Newman (pianoforte), George Washington Brown (pianoforte), Carla Fortina (organo), Earl Palmer (percussioni), James Gordon (percussioni), Gary Coleman (percussioni), Hal Blaine (percussioni), Gayle Levant (arpa), Virginia Majevski (viola), Misha Goodatieff (violino)

 

Lato A

 

                        Vine Street
                        Psalm desert
                        Widow’s walk
                        Laurel Canyon Blvd.
                        The all golden
                        Van Dyke Parks
 

Lato B

 

                        Public domain
                        Donovan’s colours
                        The attic
                        Laurel Canyon Blvd.
                        By the people
                        Pot pourri
 

Più invecchio e più miglioro
(Van Dyke Parks)

 

Esattamente come il vino buono. Qualche tempo fa Van Dyke Parks ebbe a rilasciare queste dichiarazioni, in cui sosteneva che con l’età sentiva che stesse migliorando. In genere è l’inverso, perché col tempo il talento affievolisce e vengono fuori i limiti di un artista. Ma qui quello che è chiaro è che la musica di questo geniale artista, che ha avuto un ruolo predominante nella strutturazione di Smile, il disco “fantasma” (per tanti anni) dei Beach Boys, di cui venne pubblicata la sola Good vibrations.
Van Dyke Parks è un musicista al di fuori di ogni schema, esattamente come Brian Wilson. Appassionato della classicità dei suoni, e dell’effetto sinfonico, ha contribuito alla formazione di un pop colto verso la seconda metà degli anni ’60, dove il motivetto non dovesse sostenere la canzonetta, ma dovesse essere a supporto di un’opera. Esattamente come le canzoni dei Beach Boys, che erano tutt’altro che canzonette da spiaggia!
La sua idea di musica quindi andava ben oltre i confini che il pop si stava prefigurando. Voleva essere ovunque, e dovunque, ma non solo nello spazio: nel tempo! Ed ecco che quelle dichiarazioni lasciate qualche anno fa alla stampa assumono un significato del tutto particolare (anche se erano riferite a ben altre realtà). Esattamente come la musica classica, la musica di Van Dyke Parks col tempo ha assunto un’aura del tutto leggendaria, facendo di lui uno dei musicisti più influenti di tutti i tempi (anche se piuttosto nascosto nel panorama della musica moderna).
E se si vogliono conferme sul talento basta ascoltarsi il suo disco d’esordio, che seguì il suo lavoro su Smile dei Beach Boys: Song cycle. L’album è un concentrato di classicità e di sonorità pop. Musica americana filtrata da una serie di suoni “antichi e moderni” che lo rendono qualcosa di alieno. Parte con le improvvisate classicheggianti di Vine Street, che alterna sinfonie e arpeggi country, e ci richiama alla memoria tanto Burt Bacharach quanto Scott Walker. Segue una stralunata Psalm desert, con i suoi cinguettii, coretti e intermezzi classicheggianti. Widow’s walk invece parte con piano elettrico per poi dispiegarsi come una sorta di musica da camera in salsa pop, coniugando modernità e classicismo, in sospensione tra la filastrocca, il canto del menestrello, il folk traditional e la pop song. Segue poi Laurel Canyon Blvd. che si divide in due momenti (presenti in entrambi le facciate): la prima è una sorta di girotondo medievaleggiante, mentre la seconda si dispiega in una folk song stralunata, con tanto di intrecci di violino e pianoforte fantasiosi. The all golden giunge col suo fascino misterioso, in bilico tra la ballata folk psichedelica e un impianto teatrale vicino a certe cose di Bertolt Brecht, peraltro già sperimentate dai Doors in Alabama song. Il primo lato si chiude con la scheggia di Van Dyke Parks, quasi un canto natalizio soffocato da tutta una serie di rumorismi.
Si riparte nel secondo lato con Public domain, incentrata sul suono dell’arpa, che fa pensare tanto ai Beach Boys di Pet Sound e tanto ai Beatles di She’s leaving home. E poi arriva la cover di Colours di Donovan, qui intitolata come Donovan’s colours. Diversamente dal folk psichedelico di Donovan, qui si assiste ad una rivisitazione classicheggiante e barocca sorprendente. The attic invece si sofferma sul tema della guerra, ma lo fa incentrando il suono non sul combattivo rock psichedelico della Summer of love, ma sul suono sinfonico disarticolato, che lascia intravedere anche qualche alambicco progressive. Ci si avvia alla conclusione con la surreale By the people, dove si articolano tutta una serie di rumori cosmici, violini, voci filtrate ed echeggiate, cambi di tono e di ritmo, per una dimensione che non fatichiamo a definire teatrale. Pot pourri chiude il disco, con pianoforte e voce in dissolvenza, qualcosa che si perde nel vento e continua ad echeggiare nel tempo…
Song cycle è quindi quello che si dice un disco senza tempo, che non mostra i segni del tempo, che è sempre attuale, o meglio, sempre in anticipo sull’attualità. Dischi così devono avere quindi lo spazio per poter offuscare ed ingannare il tempo! Non è pop che consuma, ma è musica che scalda i cuori e l’anima!

 

Van Dyke Parks è un ragazzo magrolino con un punto di vista unico
(Brian Wilson)

Febbraio 2020: Van Dyke Parks – SONG CYCLE (1968)ultima modifica: 2020-02-10T13:42:09+01:00da pierrovox

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