Trasformarsi
Ogni volta che condivido un post, seguo più o meno lo stesso iter, una sequenza precisa di passi che finora non è cambiata tanto, anzi per nulla.
1 – Rispondo ai commenti.
2 – Scrivo il mio post.
3 – Pubblico il mio post.
4 – Visito gli utenti che hanno un posto nella mia mente.
5 – Leggo e commento (quando possibile) i contenuti pubblicati da questi utenti.
Oggi questi utenti si contano nelle dita di una mano. Non visito altri profili, né leggo altri blog.
Sinceramente non ne sento più il bisogno (ed è vero che sono solo quelli sempre quelli, che meritano.).
Nonostante siano pochi la diversità è tangibile, per contenuti ed emozioni.
Nell’ultimo anno i post si sono, molto, diradati. Oggi, passano tanti giorni tra un post e l’altro, agli inizi riuscivo ad inserirne uno al giorno, forse avevo più tempo o più voglia di scrivere.
Il motivo per cui si scrive è soggettivo in molti casi personale, è indubbio però che si prende spunto da quel che ci accade (direttamente o indirettamente), per tutti è così.
A volte si risponde ad un immaginario amico che ci pone quesiti sotto forma di scelte o inevitabilità.
A cosa si risponde?
La risposta che mi viene in mente è: Alla vita, alla nostra vita.
È nella natura delle cose, seguire un cammino che è tratteggiato da linee e punti, da interrogativi ed esclamazioni, smorfie che scavano e scavano solchi nell’anima. Piano piano li vedi affiorare dal buio e tatuarsi sulla pelle, colpi di rasoio che non sanguinano, né provocano dolore, ma sempre più somigliano a ferite. E vivi senza risparmiarti nessuna piaga o tradimento, fasciando la bocca al che nessun lamento possa essere udito.
Sorridi pure, fai il buffone, ti prodighi per gli altri e vivi come un burattino senza alcuna consapevolezza che piano piano muori, quando dovresti vivere e respirare.
E non ti resta che resistere, continuare a resistere.
La resistenza la panacea agli attacchi del male. Gandhi nella sua infinita saggezza ed esperienza disse: “Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso.”
Il primo nemico che incontriamo nel nostro cammino siamo noi stessi, ed è da lui che impariamo la sfiducia, la meschinità e il desiderio della colpa. Da lui impariamo a far del male.
Chi mi legge da tempo sa che amo l’arte, per dare forma ai miei pensieri uso ogni mezzo possibile, il pennello, lo scalpello e la penna. Tempo fa raccolsi in un manoscritto tutti i pensieri che scrissi. Alcuni qui, altri nella mia solitudine, una racconta che rimase nascosta ed è ancora nascosta.
Voglio riprendere alcuni pensieri.
“Ci sono versi di gioia, di incontenibile vivacità che riescono a trascrivere l’amore sulla pelle.
Ci sono, poi, versi d’infelicità, d’insostenibile tormento che scaraventano il cuore lontano da ogni fonte di luce.
Versi che raccontano le pene della guerra, le pene della malattia, le pene dell’amore e le pene d’una vita fallita.
Perché si leggono?
Per lo stesso motivo per cui si leggono le poesie d’amore, per dare integrità all’anima. Per dare quel senso di interezza che solo nell’equilibrio di emozioni e sensi, trovo e riesco a trovare.
Perché anche il dolore è un’esperienza. Un’esperienza che non va anestetizzata, né cancellata. Ci si può sentire stanchi, irascibili, privi d’ogni interesse, avere la percezione di non essere più quelli di prima e sentire nel cuore di non avere più via d’uscita.
Tutti!!! Tutti prima o poi si sentono o si sono sentiti così. Io mi ci sento molto spesso e raccontarlo è un modo per creare, un sentiero o, meglio, una porta e le porte sono vie d’uscita.
Il dolore va accolto al di là di quel che si può pensare: con dolcezza. Vissuto come si vive una persona cara. Per questo: poeti, cantori e artisti, ne fanno versi, melodie e opere. Per dare forma e identità a quel dolore, renderlo docile, romantico, persino amico.
Lo so! Son parole e a parole tutto è facile. Non è facile per niente, invece. C’è chi si arrende.
Per un istante, un solo istante, è capitato anche a me di pensare alla resa, un pensiero che è durato 300 metri, il tempo d’arrivare a casa […].
La salvezza per me è stata l’arte, può esserlo la musica, può esserlo lo sport, ma può essere anche una mano che ti prende in tempo o una parola che giunge in quel preciso momento, in quell’unico momento in cui serve. In ogni caso è, sempre, in noi la scelta di afferrare quella mano, di ascoltare quella parola.
Tra tutto quello che ho scritto, questo è il tema più imbarazzante per me. Perché si palesa il disagio. Perché diventa viva l’idea che un giorno ho pensato che nulla era più importante, che non c’era più via d’uscita.
Un pensiero può diventare un tarlo, scavare così in profondità da non sentire più dolore, non sentire più niente. Per un secondo, un solo secondo, tutto svanisce e ci si sente quasi felici, liberi.
Un cattivo uso della libertà può esser letale. A cosa aggrapparsi in quel momento? Alla paura? Alla speranza? All’effetto di chi ci circonda?
A tutto bisogna aggrapparsi, alla vita, alla paura, alla speranza, all’amore, al coraggio che abbiamo dentro. Ma soprattutto all’intelligenza. Credo che ci si arrenda nel momento in cui si perde la fiducia in sé stessi, nel momento in cui la mente smette di trovare soluzioni. Riprendersi il valore di sé è la parte più difficile, ma non impossibile. Nulla è impossibile se si ha una ragione, una sola ragione per vivere e credere in sé stessi è, una buona ragione. E qui torno al rapporto padre/figlio/a e al rapporto madre/figlio/a. Se si riesce a dare valore ad un bambino, a imprimere nella memoria, prima che qualunque trauma entri nella sua anima, un vero valore, si avrà una possibilità di ricordarsi chi si è e perché meritiamo di vivere.”
Ecco questo è un passo di quella raccolta di pensieri che pochi, anzi nessuno ha mai letto.
Perché li condivido ora?
Per rispondere alla vita e a chi si trova piegato con le ginocchia che toccano la nuda terra.
Pochi giorni fa, ho letto, i post di un’amica e si è accesa in me questa lezione forse mai imparata di sopravvivenza.
Resistere e sopravvivere. Il verbo del Dio uomo. Io sono un Dio nel mio universo, creo e distruggo in un ciclo perpetuo di pensieri.
“Nessuno sceglie un male capendo che è un male, ma ne resta intrappolato se, per sbaglio, lo considera un bene rispetto a un male maggiore.”
Epicuro.
Un tempo scrissi di “mostri”: Vampiri, lupi mannari, golem. Un altro passo mai letto.
“Mi hanno definito, anche, mostro da bambino.
Ed io un mostro l’ho scelto, tra fate, elfi, folletti e maghi ho scelto un mostro come espressione di quel che ero, […].
Un bambino impacciato, silenzioso, un bambino rotto, fatto di tanti pezzi. […].
Mostri! Non tutti i mostri sono simpatici. Ci sono mostri che vivono nell’oscurità e attendono. Aspettano che l’innocenza si avvicini.
Il Trauma?! Un mostro generato da un altro mostro.
Che cos’è il trauma?
È un’esperienza sconvolgente, improvvisa, che ci travolge e seppellisce. Sì, seppellisce. Il trauma ci blocca e ci impedisce di vivere il presente.
E se l’orrore è troppo per esser vissuto e rivissuto, accadde qualcosa nella mente. Come una batteria o una lampada che si sovraccarica il nostro sistema collassa, la nostra mente smette di immagazzinare e dimentica, rimuove l’insopportabile. Il ricordo non è più accessibile diventa un comportamento, un’anomalia nei gesti e nelle abitudini. Ad esempio: non riconoscere la destra, dalla sinistra.
Ho un ricordo non mio, di un mio trauma. Mia sorella è il mio ricordo rimosso, la testimone di quel che è accaduto. A volte ho la sensazione di vedere dei flash. Un bambino legato, costretto ad usare la destra, invece, che la sinistra. Ma c’è qualcosa di ancor più terribile, che non ricordo d’aver vissuto – forse, perché non l’ho vissuto – ma che ricorreva nei miei sogni un tempo, quando ancora sognato.
Un uomo dentro uno scuolabus, che si abbassa i pantaloni e costringeva i piccoli alunni a …………., questo vivevo in quel sogno, […].
Avevo rimosso questo ricordo, questo sogno, dopo trent’anni torna così.
Può la mente ingannarci? Mostrarci fantasia e illusioni? Sono passati trent’anni e in testa, ho solo confusione di quel periodo. Riesco solo ad avere sensazioni dell’infanzia. Non riesce a capire cosa sia vero e cosa è finzione. […]. Non è, però, importante non lo è più.
La verità?
Non vi è rimedio al passato, è scritto nella nostra anima e rimosso o no, condiziona quel che siamo. Ma è quel che siamo. Alla fine è questo a fare la differenza e a renderci unici. Quell’anima a pezzi non è e non deve essere un ostacolo, è e deve essere il valore aggiunto, un frammento della nostra unicità.”
È scritto da qualche parte che siamo destinata a questa vita?
No, non è scritto da nessuna parte, quel che viviamo è nel bene e nel male la nostra identità, non, però, la nostra catena.
Imparare a trasformarsi è vitale al che le ferite diventino seta per il bozzolo.
Questa è la lezione più importante che ho imparato dalla vita.
Mai restare uguale a sé stessi, la consapevolezza del tempo che trascorre non è un tormento, lo diventa se siamo sempre gli stessi in ogni istante della vita, le stesse ferite, gli stessi dolori, le stesse violenze.
P.S.
Non ho la presunzione di dare lezioni a nessuno, dimenticare quello che avete letto è un’opzione.
Tutte le opzioni sono valide, tutte le verità sono plausibile fino a morte accertata.