Siamo ombre: le nostre anime sono morte. Il racconto di una sopravvissuta ad un gulag cinese, l’avanzata di Pechino e i pericoli per l’Occidente

L’arresto di Jimmy Lai e il silenzio del Vaticano

Lo scorso 2 dicembre è stato arrestato ad Hong Kong il noto imprenditore, giornalista ed attivista Jimmy Lai (pseudonimo di Lai Chee-Ying), 73 anni, uno dei più noti sostenitori del movimento a favore della democrazia della grande metropoli. L’accusa che gli è stata mossa è quella di aver presumibilmente commesso una frode relativa all’uso illecito dei beni della sua azienda. E’ già la seconda volta durante il 2020 che Lai viene arrestato dalle autorità locali in circostanze sospette. La prima volta, è stato accusato dalle autorità di aver violato le sezioni della legge sulla sicurezza nazionale recentemente approvata. Rilasciato su cauzione subito dopo il primo arresto, al noto magnate dei media è stata invece negata la libertà su cauzione per le nuove accuse di frode ed incarcerato il giorno dopo, in quanto costituirebbe un rischio per la sicurezza nazionale.

Molti attivisti, politici e giornalisti hanno espresso profondo rammarico per la notizia dell’arresto di Jimmy Lai, fondatore dell’Apple Daily, uno dei quotidiani più popolari di Hong Kong: il ministro degli Esteri del Regno Unito, Dominic Raab, ha chiesto che “le autorità di Hong Kong e Pechino pongano fine alla loro battaglia per soffocare l’opposizione”. Anche il Segretario di Stato Mike Pompeo e il sovietico Natan Sharansky hanno condannato l’arresto del giornalista, mentre Sarah Champion del partito laburista inglese, insieme ad altri membri del Parlamento, hanno sollevato la situazione di Lai alla Camera dei Comuni britannica, come ha riportato il 7 dicembre dello scorso anno un articolo della grande testata americana Wall Street Journal, a firma di William McGurn. L’arresto del magnate era stato preceduto dall’arresto, nei giorni precedenti, da altri tre eminenti attivisti di Hong Kong.

Il giornalista americano, nel darne notizia pone una sconcertante considerazione, che non è passata inosservata anche in altre testate americane:

“Ma c’è un posto in cui la prepotenza cinese suscita solo silenzio: il Vaticano. Il che è strano, perché Jimmy Lai non è solo il più noto sostenitore della democrazia di Hong Kong; è anche il cattolico laico più eminente del luogo.”

A metà aprile 2021 Jimmy Lai è stato condannato ad un anno di carcere per aver organizzato e partecipato a una marcia di protesta non autorizzata nel 2019. Per Lai, che si trova in carcere già da dicembre, è la prima condanna per il suo ruolo nelle manifestazioni a favore della democrazia.

A processo insieme a Lai c’erano in tutto 9 attivisti per la democrazia. Quattro di loro hanno ricevuto pene che vanno tra gli 8 e i 18 mesi di carcere, mentre altri quattro sono stati condannati, ma la loro pena è stata sospesa: tra questi ultimi ci sono gli ex parlamentari Martin Lee, 82 anni, un rispettato avvocato noto come “il padre della democrazia” a Hong Kong, considerato uno dei fondatori del movimento, e l’avvocato Margaret Ng. E’ quanto ha riportato il sito Aljazeera, il 16 aprile.

Il genocidio degli Uiguri in Cina

Dalle vicende accadute ad Hong Kong ci spostiamo quindi alla vecchia Europa dove, il 25 febbraio scorso, il parlamento olandese ha approvato una mozione non vincolante che definisce “genocidio” i crimini contro gli uiguri in Cina. La mozione è stata presentata da Sjoerd Sjoerdsma, del partito di centrosinistra Democraten 66, il quale ha proposto inoltre di porre pressioni sul Comitato Olimpico Internazionale allo scopo di spostare le Olimpiadi invernali del 2022 fuori dalla Cina. La mozione afferma che “misure intese a prevenire le nascite” e “avere campi di punizione” rientrano nella risoluzione 260 delle Nazioni Unite, nota in generale come convenzione sul genocidio. E’ quanto riporta il giornalista Marco Respinti sulla rivista Bitter winter. Il testo della mozione olandese afferma senza ombra di dubbio che “in Cina si sta verificando un genocidio contro la minoranza uigura”. Dall’alto lato dell’oceano, la Camera dei Comuni del Parlamento canadese ha votato a sostegno di una mozione, che ha riconosciuto in modo formale i crimini del PCC come genocidio lo scorso 22 febbraio 2021.

L’ambasciata cinese nei Paesi Bassi ha risposto definendo il genocidio nello Xinjiang “una vera e propria menzogna”, diffusa con “totale disprezzo dei fatti e del buon senso”, attraverso una mozione che “ha deliberatamente imbrattato la Cina e interferito grossolanamente negli affari interni della Cina”. Scrive Marco Respinti, caporedattore di International Family News: «Corteggiando il ridicolo, l’ambasciata cinese ha anche aggiunto che “[negli] ultimi anni, la popolazione uigura nello Xinjiang ha goduto di una crescita costante e il loro tenore di vita ha visto un miglioramento significativo”, ribadendo la classica menzogna negazionista del regime: “Le questioni relative allo Xinjiang non riguardano mai diritti umani, etnia o religione, ma sulla lotta al terrorismo violento e alla secessione”. Indubbiamente, questa reazione ha confermato che i sostenitori della mozione hanno colpito il PCC dove fa male».

Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Guardian il 22 marzo scorso, anche Stati Uniti, insieme a Canada, Regno Unito e Unione Europea si sono avviati quindi verso un’azione congiunta per imporre sanzioni verso gli alti funzionari cinesi coinvolti nell’internamento di massa dei musulmani uiguri della provincia dello Xinjiang. E’ la prima volta da trent’anni che Regno Unito o Unione Europea abbiano punito la Cina per aver violato i diritti umani.

In una dichiarazione, la Cina ha affermato: “La parte cinese esorta la parte dell’UE a riflettere su se stessa, ad affrontare apertamente la gravità del suo errore e a rimediare. Deve smetterla di dare lezioni ad altri sui diritti umani e di interferire nei loro affari interni. Deve porre fine alla pratica ipocrita dei doppi standard”.

L’eurodeputato Guy Verhofstadt ha dichiarato: “La Cina ha appena ucciso l’accordo di investimento UE-Cina sanzionando le persone che criticano il lavoro schiavo e il genocidio nello Xinjiang. Come potremmo mai fidarci di loro per migliorare la situazione dei diritti umani degli uiguri se le chiamano semplicemente ‘fake news’?”.

Molti attivisti ed esperti delle Nazioni Unite hanno affermato che almeno un milione di musulmani sono detenuti nei campi dello Xinjiang. La Cina tuttavia nega le violazioni dei diritti umani e afferma che i suoi campi forniscono formazione professionale e si rendono necessari per combattere l’estremismo.

L’influenza di Pechino sulle università occidentali

Intanto il settimanale francese Le Point ha pubblicato, lo scorso 26 febbraio, un’indagine clamorosa sulle modalità in cui la Cina si stia procurando il favore delle università occidentali. Molte scuole inglesi sono ormai sotto la marcata influenza e la propaganda di Pechino. Nigel Farage, il leader del Reform UK Party britannico, ha recentemente twittato che “i miliardari cinesi con collegamenti diretti al PCC stanno comprando le scuole britanniche – e inondando il curriculum con la loro propaganda”. Farage ha poi elencato i nomi di alcuni nel Regno Unito “sotto il controllo cinese”Abbots Bromley School, Bournemouth College, Saint Michael School, Bosworth College, Bedstone College, Ipswich High School, Kingsley School, Heathfield Knoll School, Thetford Grammar, Wisbech Grammar, Riddlesworth Hall, Myddelton College, GATTI College

Anche il Daily Mail, in un’inchiesta, conferma come molti istituti prestigiosi britannici siano finiti in mano cinese, fornendo in tal modo un’istruzione secondo le linee approvate dal regime comunista. In grave crisi finanziaria innescata dal CoVID, a causa della diminuzione delle iscrizioni o dall’abbassamento delle tasse per la mancata frequenza fisica degli studenti, gli istituti privati – per riempire le casse ormai languenti – hanno accettato di passare sotto il controllo di Pechino, ricevendo in cambio lauti finanziamenti. In quattro anni sono stati conclusi ben 17 accordi tra istituti britannici e società cinesi, molte delle quali sono riconducibili ad alti funzionari del Partito Comunista cinese. Gli studenti cinesi, appartenenti a facoltose famiglie con legami al Partito Comunista, beneficiano di corridoi privilegiati per accedere a queste prestigiose scuole.

E’ evidente come ormai per Pechino l’istruzione – opportunamente orientata – stia divenendo strategica, affiancando tecnologie, risorse minerarie e infrastrutture.

Fabio Massimo Parenti, professore associato dell’Istituto Internazionale “Lorenzo de Medici” di Firenze, è stato ospite nello Xinjiang, dove si stima che fino a due milioni di uiguri siano stati rinchiusi in “campi di rieducazione”. E’ quanto riporta il sito Scenarieconomici, in un articolo a firma di Giuseppina Perlasca.

Da settembre 2019, a Urumqi, capitale della regione uigura dello Xinjiang nella Cina occidentale, Christian Mestre, decano onorario della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Strasburgo, ha partecipato a un “seminario internazionale sulla lotta al terrorismo, alla deradicalizzazione e la tutela dei diritti umani”. Il seminario è stato organizzato dalla Repubblica Popolare Cinese. Le dichiarazioni di Mestre sono state trascritte dai media statali, dall’agenzia di stampa Xinhua e dal quotidiano nazionalista Global Times. Sembra che i metodi usati in Cina piacciano agli accademici francesi; il professore ha affermato infatti: “Spero che la Francia ed altri Paesi europei possano adottare le risposte fornite dallo Xinjiang”. Mestre ha fatto riferimento ai “centri di formazione professionale”, il nome dato dalla Cina ai suoi campi di rieducazione. “Queste persone non sono in carcere”, ha affermato il professore, “ma mandate alla scuola dell’obbligo”.

La terribile prigionia di Gulbahar Haitiwaji

Appartenente alla minoranza islamica uiguri, Gulbahar Haitiwaji viveva in Francia da dieci anni insieme con il marito Kerim e le loro due figlie: erano entrambi uiguri dello Xinjiang.

La loro vita era scorsa tranquillamente nel loro appartamento di Boulogne, quando Gulbahar riceve all’improvviso una telefonata dalla Cina: l’uomo che è al telefono dice di chiamare per conto della compagnia petrolifera in cui lei e suo marito avevano trovato il primo impiego come ingegneri, e le chiede di tornare a Karamay per firmare dei documenti. Gulbahar non vuole tornare a Karamay, la città nella provincia cinese occidentale dello Xinjiang dove aveva lavorato per la compagnia petrolifera per più di 20 anni. Ha un brutto presentimento e chiede la possibilità che un amico possa occuparsi dei suoi affari per procura. L’uomo le risponde che l’avrebbe richiamata tra due giorni, dopo aver esaminato la possibilità che un amico di Gulbahar agisse per suo conto. Due giorni dopo, l’uomo richiama la donna dicendole:  “La concessione della procura non sarà possibile, madame Haitiwaji. Dovrà venire a Karamay di persona”.

Karamay era il luogo che Gulbahar e il marito Kerim si erano lasciati alle spalle, era il luogo dove si leggeva “niente uiguri” alla fine degli annunci di lavoro, il luogo dove le minoranze riscuotevano buste paga rosse, meno pesanti delle paghe dei colleghi Han, il gruppo etnico dominante. Kerim tuttavia si sforza di tranquillizzare la moglie e alla fine Gulbahar decide di partire. Al suo arrivo si reca presso l’ufficio della compagnia petrolifera a Karamay per firmare i decantati documenti relativi al suo imminente pensionamento. «Nell’ufficio dalle pareti scrostate sedevano il contabile, un Han dalla voce aspra e la sua segretaria, curvi dietro un paravento», scriverà ricordando – lunghi anni dopo – Gulbahar.

«La tappa successiva si è svolta nella stazione di polizia di Kunlun, a 10 minuti di auto dalla sede dell’azienda. Lungo la strada, ho preparato le mie risposte alle domande che probabilmente mi sarebbero state poste. Ho cercato di farmi forza. Dopo aver lasciato le mie cose alla reception, sono stata condotta in una stanza stretta e senz’anima: la stanza degli interrogatori. Non vi ero mai stata prima. Un tavolo separava le due sedie dei poliziotti dalle mie. Il ronzio silenzioso della stufa, la lavagna mal pulita, l’illuminazione pallida: tutto questo catturava il mio sguardo e creava atmosfera. Abbiamo discusso i motivi per cui sono partita per la Francia, il mio lavoro in un panificio e in una caffetteria nel quartiere degli affari di Parigi, La Défense».

Ricorda, ancora molto nitidamente, Gulbahar:

«Poi uno degli agenti mi ha infilato una foto sotto il naso. Mi sono sentita allora ribollire il sangue nelle vene: era un viso che conoscevo bene quanto il mio: quelle guance piene, quel naso sottile. Era mia figlia Gulhumar. Era in posa davanti a Place du Trocadéro a Parigi, infagottata nel suo cappotto nero, quello che le avevo regalato. Nella foto, stava sorridendo, una bandiera in miniatura del Turkestan orientale in mano, una bandiera che il governo cinese aveva vietato. Per gli uiguri, quella bandiera simboleggia il movimento per l’indipendenza della regione. L’occasione è stata una delle manifestazioni organizzate dalla sezione francese del Congresso mondiale degli uiguri, che rappresenta gli uiguri in esilio e si pronuncia contro la repressione cinese nello Xinjiang.

Una manifestazione pro-uigura a Hong Kong nel 2019.Una manifestazione a favore degli uiguri a Hong Kong nel 2019. Foto: Jérôme Favre / EPA


Che tu sia politicizzato o meno, questi raduni in Francia sono soprattutto un’opportunità per la comunità di riunirsi, proprio come i compleanni, l’Eid e la festa di primavera di Nowruz. Puoi andare a protestare contro la repressione nello Xinjiang, ma anche, come aveva fatto Gulhumar, a vedere amici e raggiungere la comunità degli esiliati. A quel tempo, Kerim era un assiduo frequentatore. Le ragazze saranno andate una o due volte. Io non l’avevo mai fatto, la politica non fa per me. Da quando avevo lasciato lo Xinjiang, ero solo meno interessata.

 All’improvviso, l’ufficiale ha sbattuto il pugno sul tavolo.

“La conosci, vero?”

“Sì. È mia figlia.”

“Tua figlia è una terrorista!”

“No. Non so perché si trovasse a quella dimostrazione.”

Continuavo a ripetere: “Non lo so, non so cosa ci facesse lì, non stava facendo niente di male, lo giuro! Mia figlia non è una terrorista! Nemmeno mio marito! “

Non ricordo il resto dell’interrogatorio. Tutto quello che ricordo è quella foto, le loro domande aggressive e le mie futili risposte. Non so per quanto tempo tutto questo sia andato avanti. Ricordo che quando finì dissi, irritata:

“Posso andare adesso? Abbiamo finito qui?”. Poi uno di loro mi disse: “No, Gulbahar Haitiwaji, non abbiamo finito.”

“Destra! Sinistra! Riposo!” Eravamo in 40 nella stanza, tutte donne, in pigiama blu. Era un’anonima aula rettangolare. Una grande persiana metallica, perforata da minuscoli fori che lasciavano entrare la luce, ci nascondeva il mondo esterno. Undici ore al giorno, il mondo era ridotto a questa stanza. Le nostre pantofole scricchiolavano sul linoleum. Due soldati Han hanno tenuto inesorabilmente il tempo mentre marciavamo su e giù per la stanza. Questa era chiamata ‘educazione fisica’. In realtà, equivaleva a un addestramento militare.

I nostri corpi esausti si muovevano nello spazio all’unisono, avanti e indietro, da un lato all’altro, da un angolo all’altro. Quando il soldato urlò: “Riposo!” in mandarino, il nostro reggimento di prigionieri si bloccò. Ci aveva ordinato di restare ferme. Questo poteva durare mezz’ora, ma altrettanto spesso un’intera ora, o anche di più. Quando lo fece, le nostre gambe iniziarono a formicolare dappertutto con spilli e aghi. I nostri corpi, ancora caldi e irrequieti, lottavano per non ondeggiare nel caldo umido. Potevamo sentire l’odore del nostro alito cattivo. Ansimavamo come bestie. A volte, una o l’altra di noi sveniva. Se non si fosse ripresa, una guardia l’avrebbe tirata in piedi e la avrebbe svegliata con uno schiaffo. Se fosse crollata di nuovo, l’avrebbe trascinata fuori dalla stanza e non l’avremmo rivista mai più. Mai. All’inizio questo mi aveva scioccato, ma ormai ci ero abituata. Puoi abituarti a qualsiasi cosa, anche all’orrore.

Era giugno 2017 e mi trovavo qui da tre giorni. Dopo quasi cinque mesi nelle celle di polizia di Karamay, tra interrogatori e atti casuali di crudeltà – a un certo punto sono stata incatenata al mio letto per 20 giorni come punizione, anche se non sapevo per cosa – mi è stato detto che sarei andata a “scuola”. Non avevo mai sentito parlare di queste scuole misteriose o dei corsi che offrivano. Il governo le ha costruite per ‘correggere’ gli uiguri, mi è stato detto. Le donne che hanno condiviso la mia cella hanno detto che sarebbe stata una scuola normale, con insegnanti Han. Ha detto che una volta finita, gli studenti sarebbero stati liberi di tornare a casa».

Gulbahar verrà detenuta cinque mesi nelle celle della stazione di polizia e poi inviata alla “scuola”. La scuola consiste in un programma di rieducazione destinato alla minoranza islamica e rientra nella cornice della campagna Strike Hard contro il terrorismo violento; si tratta di strategie di difesa che risalgono alle pagine più buie della storia della Cina, ma che hanno trovato sempre più pretesti a partire dagli attacchi dell’11 settembre e successivamente dagli attentati terroristici a Pechino, alla stazione di Kunming e al mercato di Urumqi più di recente, come ha riportato il settimanale Espresso, in un articolo del 14 gennaio scorso.

Si ritiene che il Centro di servizi di formazione per l'istruzione professionale di Artux City a nord di Kashgar, nello Xinjiang, sia una struttura di rieducazione.Si ritiene che il Centro di servizi di formazione per l’istruzione professionale di Artux City a nord di Kashgar, nello Xinjiang, sia una struttura di rieducazione (The Guardian, 12 gennaio 2021. Foto: Greg Baker / AFP / Getty)


Prosegue Gulbahar:

«Questa “scuola” era a Baijiantan, un distretto alla periferia di Karamay. Dopo aver lasciato le celle di polizia, tutte le informazioni che ero riuscita a raccogliere, provenivano da un cartello piantato in un fosso secco dove vagavano alcuni sacchetti di plastica vuoti. A quanto pare, l’addestramento doveva durare due settimane. Dopodiché, sarebbero iniziate le lezioni di teoria. Non sapevo come avrei resistito. Come avevo fatto a non crollare già? Baijiantan era una terra di nessuno da cui sorsero tre edifici, ciascuno delle dimensioni di un piccolo aeroporto. Al di là del recinto di filo spinato, non c’era altro che deserto a perdita d’occhio.

Il mio primo giorno, le guardie femminili mi hanno portata in un dormitorio pieno di letti, semplici assi di legno numerato. C’era già un’altra donna: Nadira, Bunk N. 8. Mi è stata assegnata Bunk N. 9.

Nadira mi ha mostrato il dormitorio, che aveva l’odore inebriante della vernice fresca: il secchio per fare i tuoi affari, che ha preso a calci con rabbia; la finestra con la persiana metallica sempre chiusa; le due telecamere che fanno una panoramica avanti e indietro negli angoli alti della stanza. Questo è stato. Nessun materasso. Niente mobili. Niente carta igienica. Niente lenzuola. Nessun lavandino. Solo due di noi nell’oscurità e il fragore delle pesanti porte delle celle che si chiudono sbattendo.

Questa non era una scuola. Era un campo di rieducazione, con regole militari e un chiaro desiderio di spezzarci. […] Le guardie ci avevano sempre tenuto d’occhio; non c’era modo di sfuggire alla loro vigilanza, nessun modo di sussurrare, asciugarsi la bocca o sbadigliare per paura di essere accusate di pregare. Era contro le regole rifiutare il cibo, per paura di essere definita una ‘terrorista islamista’. […] Non vedevamo la luce del giorno da quando eravamo arrivate: tutte le finestre erano bloccate da quelle dannate persiane di metallo. Sebbene uno dei poliziotti avesse promesso che mi avrebbero dato un telefono, non lo avevo mai ricevuto”. […] Il campo era un labirinto dove le guardie ci conducevano in giro in gruppi per dormitorio. Per andare alle docce, al bagno, all’aula o alla mensa, venivamo scortate lungo una serie infinita di corridoi illuminati da lampade fluorescenti. Anche un momento di privacy era impossibile.

[…] Avresti potuto distinguere le nuove arrivate dalle loro facce sconvolte. Stavano ancora cercando di incontrare i tuoi occhi nel corridoio. Quelle che erano lì da più tempo si guardavano i piedi. Si trascinavano in fila ravvicinata, come robot. Scattarono sull’attenti senza batter ciglio, quando un fischio ordinò loro di farlo. Buon Dio, cosa era stato fatto per renderle così?

[…] Pensavo che le lezioni di teoria ci avrebbero portato un po’ di sollievo dall’allenamento fisico, ma erano anche peggio. L’insegnante ci osservava sempre e ci schiaffeggiava ogni volta che poteva. Un giorno, una delle mie compagne di classe, una donna sulla sessantina, chiuse gli occhi, sicuramente per la stanchezza o per la paura. L’insegnante le diede uno schiaffo brutale: “Pensi che non ti vedo pregare? Sarai punita!”. Le guardie la trascinarono violentemente fuori dalla stanza. Un’ora dopo tornò con qualcosa che aveva scritto: la sua autocritica. L’insegnante gliela fece leggere ad alta voce. Lei obbedì, con la faccia color cenere, poi si sedette di nuovo. Tutto quello che aveva fatto era chiudere gli occhi.

[…] Incollate alle nostre sedie, ripetevamo le nostre lezioni come pappagalli. Ci hanno insegnato la gloriosa storia della Cina: una versione disinfettata, ripulita dagli abusi. Sulla copertina del manuale, che ci era stato dato, era scritto “programma di rieducazione”. […] Ma con il passare dei giorni, la stanchezza era iniziata come un vecchio nemico. Ero esausta e la mia ferma determinazione a resistere era rimasta inalterata. Avevo cercato di non arrendermi, ma la scuola andava avanti. Era rotolata proprio sui nostri corpi doloranti. Quindi questo era il lavaggio del cervello: intere giornate passate a ripetere le stesse frasi idiote. Come se non bastasse, avevamo dovuto fare un’ora di studio in più dopo cena la sera prima di andare a letto. Rivedemmo un’ultima volta le nostre lezioni ripetute all’infinito. Ogni venerdì sostenevamo una prova orale e scritta. A turno, sotto l’occhio diffidente dei capi del campo, recitavamo lo stufato comunista che ci era stato servito.

[…] Ci fu ordinato di negare chi eravamo. Sputare sulle nostre tradizioni, sulle nostre convinzioni. Criticare la nostra lingua. Per insultare la nostra stessa gente. Le donne come me, che sono uscite dai campi, non sono più quelle che eravamo una volta. Siamo ombre; le nostre anime sono morte. Mi è stato fatto credere che i miei cari, mio marito e mia figlia, fossero terroristi. Ero così lontana, così sola, così esausta e alienata, che quasi finivo per crederci.

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Gulhumar Haitiwaji, figlia di Gulbahar, mentre rilascia un’intervista al programma di notizie Arte, nel febbraio 2019. La ragazza, fino a quel momento, era riuscita a raccogliere oltre 436.000 firme da tutto il mondo per la liberazione della madre, ottenendo anche il sostegno di un avvocato per i diritti umani per perorare il caso.


[…] Nei campi di “trasformazione attraverso l’istruzione”, la vita e la morte non significano la stessa cosa che hanno altrove. Un centinaio di volte ho pensato, quando i passi delle guardie ci hanno svegliate nella notte, che era giunto il momento di essere giustiziate. Quando una mano ha spinto brutalmente le forbici sul mio cranio e altre mani hanno strappato via i ciuffi di capelli che cadevano sulle mie spalle, ho chiuso gli occhi, offuscata dalle lacrime, pensando che la mia fine fosse vicina, che mi stessero preparando per la sedia elettrica, o l’annegamento. La morte era in agguato in ogni angolo. Quando le infermiere mi hanno afferrato il braccio per “vaccinarmi”, ho pensato che mi stessero avvelenando. In realtà, ci stavano sterilizzando. Fu allora che capii il metodo dei campi, la strategia in atto: non ucciderci a sangue freddo, ma farci sparire lentamente. Così lentamente che nessuno se ne sarebbe accorto.

Durante i violenti interrogatori della polizia, mi sono inginocchiata sotto i loro colpi, tanto che ho persino fatto false confessioni. Sono riusciti a convincermi che prima avrei ammesso i miei crimini, prima sarei stata in grado di andarmene. Esausta, finalmente ho ceduto. Non avevo altra scelta. Nessuno può combattere contro se stesso per sempre. Non importa quanto instancabilmente combatti il lavaggio del cervello, fa il suo lavoro insidioso. Ogni desiderio e passione ti abbandonano. Quali scelte hai a disposizione? Una lenta e dolorosa discesa verso la morte o la sottomissione. Se giochi alla sottomissione, se fingi di perdere il tuo potere psicologico nella lotta contro la polizia, almeno, nonostante tutto, ti aggrappi al frammento di lucidità che ti ricorda chi sei.

Non credevo ad una sola parola di quello che stavo dicendo loro. Ho semplicemente fatto del mio meglio per essere una brava attrice.

Il 2 agosto 2019, dopo un breve processo, davanti a un’udienza di poche persone, un giudice di Karamay mi ha dichiarata innocente. Ho sentito a malapena le sue parole. Ho ascoltato la frase come se non avesse niente a che fare con me. […] Mi avevano condannata a sette anni di rieducazione. Avevano torturato il mio corpo e portato la mia mente sull’orlo della follia. E ora, dopo aver esaminato il mio caso, un giudice aveva deciso che no, in realtà, ero innocente. Ero libera di andarmene».

Il racconto di Gulbahar Haitiwaji è stato tratto da un estratto modificato di Rescapée du Goulag Chinois (Survivor of the Chinese Gulag) di Gulbahar Haitiwaji, scritto in collaborazione con Rozenn Morgat e pubblicato da Editions des Equateurs. Alcuni nomi sono stati cambiati. La traduzione originale in lingua inglese è di Edward Gauvin. L’articolo riportante l’estratto è apparso originariamente sul quotidiano britannico          The Guardian, il 12 gennaio 2021. La traduzione in italiano è mia.

Un campo di "educazione politica" nella provincia cinese dello Xinjiang.Un campo di “educazione politica” nello provincia cinese dello Xinjiang (The Guardian, 2 aprile 2020. Foto: Greg Baker / AFP via Getty)           


La pericolosa strada imboccata dall’Europa

Sempre secondo il sito Scenarieconomici, “in Francia, negli ultimi 15 anni sono stati aperti 18 Istituti Confucio, apparentemente per insegnare il cinese e promuovere la cultura cinese. In Europa, nel 2019, il Belgio ha espulso il rettore dell’Istituto Confucio della Libera Università fiamminga di Bruxelles, dopo che i servizi di sicurezza lo avevano accusato di essere una spia“.

Françoise Robin, dell’Istituto nazionale di lingue e civiltà orientali (Inalco) ed esperto del Tibet, definisce questi istituti come “armi di propaganda”. Inalco ha invitato nel 2016 il Dalai Lama per tenere una conferenza, ma Francoise Robin ha affermato: “Abbiamo ricevuto lettere ufficiali dall’ambasciata cinese che ci chiedevano di non riceverlo”.

Ancora, nel settembre 2014, la Facoltà di Giurisprudenza del professor Mestre, presso l’Università di Strasburgo, ha ospitato una serie di eventi sul Tibet: sono state tenute conferenze, sono stati organizzati mostre, balli e concerti  “su richiesta del Consolato Generale della Cina a Strasburgo”, secondo i termini espressi in una mail inviata dal preside. Il professore di diritto Nicolas Nord ha dichiarato: “La conferenza inaugurale ha assicurato [a tutti] che il Tibet non è mai stato annesso, [e] che l’intervento cinese del 1950 era stato richiesto dai tibetani”. Una clamorosa falsità che diventa tuttavia reale per l’Università di Strasburgo.

Secondo il settimanale britannico The Economist, il regime cinese in Tibet sta cercando di sradicare l’influenza del buddismo dalla cultura e dalla mente della loro gente.

Il nuovo capo della CIA, William J. Burns, ha affermato che chiuderebbe tutti gli Istituti Confucio nelle università occidentali, se rientrasse nelle sue possibilità.

Inoltre, il quotidiano britannico The Times ha rivelato che l’Università di Cambridge, nel regno Unito, ha ricevuto un “regalo generoso” da Tencent Holdings, una delle più grandi società tecnologiche in Cina coinvolta nella censura statale.

Ma anche in Italia risuona un grido di allarme, che è arrivato dal Copasir: le nostre aziende strategiche a causa delle conseguenze della post pandemia sono finite nel mirino dei potentati bancari e finanziari e dei fondi esteri. Ed in particolare, oltre alle banche che sono nel mirino francese, i nostri porti e le principali infrastrutture per la logistica sono nel mirino della Cina. Mentre molte aziende, che si sono rivelate essenziali per rilanciare il Made in Italy nel mondo, sono adesso a serio rischio di acquisizioni estere. L’obiettivo è infatti quello di chiudere il più alto numero di operazioni nel più breve tempo possibile, prima che lo stato di emergenza legato al CoVID possa sbiadirsi, ed approfittando delle gravi difficoltà che stanno attraversando le realtà produttive che devono fare i conti con un mercato interno contratto come mai prima di adesso e con canali esteri bloccati. L’ultima relazione dei servizi di intelligence al Parlamento parla ha mostrato senza ombra di dubbio come le minacce agli asset strategici italiani hanno avuto un’impennata senza precedenti a partire dal 2020. Le società italiane rappresentano infatti un target privilegiato per l’alta specializzazione industriale. Le maggiori minacce provengono attualmente da Cina e Francia, ma le aziende e gli asset del paese sono finiti anche nel mirino degli Stati Uniti e di altri paesi del nord Europa, come ha anche ricordato di recente lo scrittore napoletano Francesco Amodeo.

Lo strumento del Golden Power permetterebbe al Governo italiano di bloccare molte di queste acquisizioni predatorie, consentendo al Governo di decidere quali acquisizioni bloccare. Tuttavia Mario Draghi, attuale Presidente del Consiglio, proviene proprio da quegli ambienti dell’alta finanza mondiale che hanno posto il nostro Paese nel mirino.

Tutto ciò mentre gli italiani, preoccupati dal virus di Wuhan e dalla corsa ai vaccini, sono troppo distratti per accorgersi realmente della gravità di quanto sta accadendo. Lo strapotere in primis della Cina sta rischiando di travolgere l’Italia, che già da molti decenni persegue una politica di immigrazione forsennata. E’ a rischio l’economia, l’indipendenza ma anche l’identità nazionale, le radici, la cultura, come anche la fede. Sono altrettanto a rischio quei diritti democratici che i nostri avi conquistarono a prezzo del loro sangue e che per lungo tempo abbiamo creduto inalienabili, ma che domani potrebbero non esserlo più.

Anche i popoli europei e l’intera civiltà occidentale, così come la conosciamo, rischiano di rimanere travolti, mentre la Cina, dopo la crisi legata al CoVID, sta già riprendendo benissimo la sua economia e vede lievitare enormemente i propri introiti. Ma vede anche allargare sempre più la sfera della sua influenza in Occidente.

La cultura cristiana, a fondamento della maggior parte delle Costituzioni europee, potrebbe venire spazzata per sempre, complice la scristianizzazione dell’Europa, che prosegue ormai speditamente da parecchi decenni. Riporto qui virgolettate le incredibili parole pubblicate su Repubblica lo scorso 15 marzo da Eugenio Scalfari:

 “Il pontificato di Francesco segna un punto di non ritorno nel dialogo tra le fedi. E la premessa perché tutte le confessioni convergano in un cammino unitario”

E’ questo il medesimo obiettivo perseguito dalla Cina e lo testimoniano, oltre il genocidio della minoranza islamica degli Uiguri, anche le non meno feroci persecuzioni inferte ai cattolici che vanno dal carcere durissimo alla tortura disumana dei sacerdoti, con un ulteriore peggioramento della situazione dei cattolici dopo l’accordo segreto Vaticano Cina. L’obiettivo è formare un unico calderone senza identità dove siano comprese tutte le religioni, obiettivo perseguito anche da papa Bergoglio, come si è già visto durante il Sinodo dell’Amazzonia, in Iraq e in attesa del prossimo appuntamento interreligioso programmato ad Astana.

Il calderone globalista delle religioni che sta perseguendo la Cina del Partito Comunista ha il suo evidente punto di arrivo nell’ateismo più assoluto.

Ma in Europa e in tutto l’Occidente, ha anche l’obiettivo di spazzare via radici, cultura e diritti fondamentali della persona che scaturiscono direttamente dalla cultura cristiana, di cui il Continente europeo è stato intessuto per tanti secoli.

Se alla crisi imposta dal CoVID non farà seguito un rapido e brusco risveglio dei popoli occidentali, le Nazioni, un tempo cristiane, per voler parafrasare le parole di Gulbahar Haitiwaji, potrebbero davvero divenire l’ombra di ciò che furono: le loro anime, morire per sempre.

 

 

 

 

 

 

Siamo ombre: le nostre anime sono morte. Il racconto di una sopravvissuta ad un gulag cinese, l’avanzata di Pechino e i pericoli per l’Occidenteultima modifica: 2021-05-06T06:48:53+02:00da daniela.g0

2 pensieri su “Siamo ombre: le nostre anime sono morte. Il racconto di una sopravvissuta ad un gulag cinese, l’avanzata di Pechino e i pericoli per l’Occidente

  1. Fossi anche l’ultima cristiana sulla terra…. pregherò fino alla fine il mio credo… perché Dio ci salvi tutti….il più grande dei miracoli….la fine del comunismo in Cina….prima o poi avverrà…..ne sono sicura…..

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