Kalahari B)

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Continua dopo Kalahari A) 

La foto in copertina è quella di un uccellino colorato tipico dell’Africa del centro-sud (l’ho visto anche in altri viaggi), che risalta particolarmente nel deserto del Kalahari, dopo il passaggio delle fiamme.

Poco dopo il Matswere Gate c’è un’area di sosta con un’esposizione dei crani di diversi animali, soprattutto antilopi, con degli esemplari di lunghissime corna sinuose; tra Matswere a Deception Valley diventa più probabile incontrare animali, a parte gli innumerevoli uccelli; io ho invece trovato il mio primo fuoco di boscaglia, che avanzava lentamente spinto dal vento, ma per fortuna non era alto nel tratto in cui attraversava la strada. In ogni caso, i quasi 100 km di cespugli bassi a partire da Rakops fanno risaltare ancora di più la maestosità della vallata di Deception, a cui ci si trova dinanzi all’improvviso superata un’ultima curva: la pista la attraversa, e c’è una vasta pianura su entrambi i lati, in cui spiccano rari gruppi di alti alberi.

Un termitaio vicino a un albero.
Un termitaio vicino a un albero.

È appunto in questa zona che avevano stabilito il loro campo base gli Owens, trascorrendovi anni a studiare in particolare le iene brune e la loro organizzazione familiare; è infatti piuttosto nota e ci sono vari siti per campeggiare, che ne hanno fatto in particolare nel mio caso il posto ideale per le prime notti, perché quando si è soli sapere di avere altra gente a portata di voce aiuta a superare l’ansia, che almeno all’inizio io ho provato, ritrovandomi al buio sapendomi circondata da animali di tutti i tipi. Inoltre questa vallata, e soprattutto la vici-na Deception Pan, dove l’effetto miraggio che fa sembrare la distesa coperta d’acqua nei periodi di maggiore siccità è particolarmente caratteristico, restano uno dei punti di partenza ideale per vedere proprio le iene, verso il tramonto o nelle prime ore della notte, quando escono a caccia, e si può sperare di di trovarsele davanti illuminate dalla luce dei fari. Tuttavia, almeno nella stagione secca, incontrarle non è così scontato, infatti non le ho viste, e forse sarebbe stato necessario parecchio più di qualche giorno per riuscirci, ma gli innumerevoli altri animali notturni ed il fatto stesso di trovarsi sotto un cielo stellato in cui sembra di poter nuotare meritano da soli l’esperienza. Ho visto invece, soprattutto la mattina presto e nel tardo pomeriggio, branchi di erbivori nella vallata.

Un impala nell'ambiente tipico della zona centro-settentrionale del Kalahari.
Un impala nell’ambiente tipico della zona centro-settentrionale del Kalahari.

Come in molti altri parchi africani, ed in particolare nel Krüger, l’antilope che si incontra più frequentemente è anche quì l’impala; l’altra antilope comune, di cui pure si vedono facilmente interi branchi che si spostano, riposano all’ombra dei rari alberi nelle ore più calde o pascolano nelle pianure, è l’orice, di taglia nettamente più grande, e di pelo tendente al grigio, ma anche in questo caso con zone di bianco e strisce nere; ha in particolare il muso bianco e nero, dalle lunghe corna dritte caratteristiche sia dei maschi che delle femmine; può avere piccoli durante tutto l’anno ed anche nella stagione secca è possibile vederli, senza corna e di colore più sul marrone, che saltellano qua e là giocando o inseguono le madri per prendere il latte.

Un orice nell'ambiente caratteristico del Kalahari centro-settentrionale.
Un orice nell’ambiente caratteristico del Kalahari centro-settentrionale.

Ho visto spesso dei branchi misti, di impala ed orici assieme, ed uno degli aspetti più affascinanti del Kalahari è che gli animali hanno avuto pochi contatti con gli uomini, per cui si lasciano avvicinare senza problemi; ci si trova anzi costretti a fermarsi perché un branco di antilopi sta attraversando la pista senza fretta. Ho visto anche individui isolati, più spesso orici, ed abbastanza sorprendentemente soprattutto queste antilopi sembrano non curarsi affatto della eventuale vicinanza del fuoco: un orice che bruca tranquillo al limite di una distesa nera di erba bruciata e magari ancora in parte accesa di fiamme vive a poche decine di metri è qualcosa di surreale e veramente spettacolare.

Degli orici tranquilli, a poca distanza dalla linea del fuoco, che brucia l'erba secca.
Degli orici nell’insieme tranquilli, a poca distanza dalla linea del fuoco, che brucia l’erba secca.

(Continua… )

 

Kalahari A)

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Sono stata nella zona centro-settentrionale, della parte del Kalahari appartenente al Botswana, nel 2006. Questa è la prima di alcune pagine dedicate a un viaggio particolarmente originale, tra i vari che ho fatto.

Premetto che quello che segue lo scrissi poco dopo avere fatto il viaggio stesso, quindi è un resoconto abbastanza corretto e non è mai stato pubblicato. La foto in copertina è di un uccellino caratteristico della regione, abbastanza comune, che è simile a un nostro corvo in miniatura, ma con la coda che si divarica, ed è chiamato “drongo”. Stranamente, a ripensarci, mi ricordo ancora di avere deciso di andare nel Kalahari chiedendomi se sarebbe stato l’ultimo viaggio in Africa della mia vita (per il momento infatti lo è stato), in quanto, come spiego, era dall’adolescenza che desideravo visitarlo.

Da quando, da adolescente, ho letto “Il grido del Kalahari” degli Owens sognavo di andarci e, per una volta nella mia vita, ho fatto le cose in regola e pianificato un minimo il viaggio e l’itinerario. In pratica, questo ha significato andare appunto nel deserto del Kalahari attrezzatissima, avendo affittato una jeep, portandomi dietro letteralmente un quintale di acqua nonché la riserva indispensabile di benzina, più vari ritrovati possibili della tecnologia in fatto di aggeggi da campeggio, ma da sola e nel pieno di una “stagione secca”, che per loro corrisponde al nostro inverno, che si è rivelata arida nel vero senso della parola.

Due Tockus leucomelas, i "tucani" che mi sono trovata davanti la prima mattina nel campeggio più vicino all'entrata.
Due Tockus leucomelas, i “tucani” che mi sono trovata davanti la prima mattina nel campeggio più vicino all’entrata.

Come spiegano tra gli altri appunto gli Owens, il Kalahari non è tutto un vero deserto, è in gran parte coperto di bassa vegetazione cespugliosa e ricco di isole di alberi; infatti, almeno nella parte settentrionale a volte piove, anche se non tutti gli anni e, quando succede, le distese aride si trasformano in praterie di erba alta. Il problema principale di questo clima variabile sono le conseguenti migrazioni degli animali: in particolare i branchi di erbivori, un tempo così abbondanti da riempire le pianure a perdita d’occhio, nei periodi di siccità si vorrebbero spostare verso la regione ricca di laghi che si trova più a nord, mentre si trovano la strada sbarrata dai “cordoni di difesa” veterinari, ovvero da dei reticoli di filo spinato che circondano gran parte dell’aerea protetta e che inizialmente avevano lo scopo di evitare il temuto propagarsi di epidemie tra il bestiame selvatico e quello domestico: c’erano già ai tempi degli Owens, ovvero negli anni ’70, e ci sono tuttora, non so se per un vero rischio di propagazione delle epidemie o se perché tra il Kalahari e le aeree protette più a nord passa una delle strade principali del Botswana e ci sono diverse zone abitate. In ogni caso, al momento del mio viaggio, oltre ai reticoli di filo spinato c’era anche il fatto che l’unico lago che si trovava abbastanza a sud perchè gli animali potessero raggiungerlo era completamente asciutto da anni, e che i pochi pozzi con pompe all’interno del parco erano tutti o quasi in via di riparazione per guasti; purtroppo, in gran parte del paese la scarsità dell’acqua costituisce un problema per gli abitanti prima che per gli animali, al punto che la moneta locale si chiama pula, che letteralmente, in Setswana, significa “pioggia”.

Un "tucano" sull'albero, sempre nel campeggio del primo giorno.
Un “tucano” sull’albero, sempre nel campeggio del primo giorno.

Con questa premessa, il Kalahari è un posto talmente incredibile da essere qualcosa di più che semplicemente bello, ed è difficile renderne l’idea, anche perché il mio è stato un breve viaggio di una decina di giorni, in cui ho potuto percorrere solo le strade sterrate più note della parte settentrionale del parco, il cui nome in Setswana è Kgalagadi; in realtà il deserto ricopre una regione enorme, estendendosi verso il sud del Botswana nonché in parte nella vicina Namibia; però, è stato un breve viaggio durante il quale mi è capitato di tutto, ed ho potuto vedere molto più di quanto sia capace di descrivere.

Un esempio di "effetto miraggio" dovuto ad una "Pan" arida vista da lontano.
Un esempio di “effetto miraggio” dovuto ad una “Pan” arida vista da lontano.

In particolare, ho visto le innumerevoli Pans, le distese che si riempiono d’acqua quando piove, e che nella stagione secca diventano lande di terra arida coperte a tratti da erba giallognola ma nelle quali può sembrare a distanza che vi sia ancora dell’acqua, perché c’è una forte variazione di temperatura tra giorno e notte e nelle ore più calde l’umidità che si è raccolta evapora in modo tale da creare un “effetto miraggio”; poi, mi sono trovata varie volte di fronte al fuoco vero e proprio, questo perché l’erba secca diventa così asciutta da incendiarsi per cause naturali, ed è stato affascinante ed inquietante nello stesso tempo.

Tra le situazioni un minimo "da affrontare con sangue freddo" in cui mi sono trovata. Non si deve rallentare, perché il rischio è che prendano fuoco gli pneumatici.
Tra le situazioni un minimo “da affrontare con sangue freddo” in cui mi sono trovata. Non si deve rallentare, perché il rischio è che prendano fuoco gli pneumatici.

Ho preso l’aereo fino a Maun, che è la principale città nel nord del paese, ed è infatti piacevole ed abbastanza grande; da lì, ci si reca anche in posti che devono essere almeno altrettanto spettacolari come il delta dell’Okawango, appena più a nord, in cui l’acqua abbonda e di conseguenza abbondano gli animali, anche nella stagione secca; io volevo invece vedere proprio il Kalahari. Il centro abitato più vicino ad una delle entrate nella parte settentrionale del parco si trova a circa 200 km a sud-est di Maun e si chiama Rakops: è piuttosto piccolo, e nell’insieme poco turistico, ma quando ci sono arrivata, nel tardo pomeriggio, si è rivelato accogliente, ed in particolare la proprietaria del supermercato locale è stata gentilissima, abbastanza da guidarmi con la sua auto ad un albergo che altrimenti non avrei mai trovato, perché era a pochi chilometri dalla cittadina ma perso nel nulla, con i suoi alti tetti a cono ed i bungalows sul retro.

Delle casupole, abitate, con il tetto di paglia ai bordi della cittadina di Maun.
Delle casupole, abitate, con il tetto di paglia ai bordi della cittadina di Maun.

I primi animali che ho visto, appena sveglia la mattina dopo, sono stati degli asini che brucavano in gruppo; il viaggio vero e proprio è cominciato così, tranquillamente, con diverse decine di chilometri di strada sterrata ed in parte sabbiosa che si snodava tra cespugli bassi, percorrendo la quale a volte sembrava di vedere un’antilope sfrecciare ai lati della macchina, ma succedeva in modo talmente rapido che non si riusciva a rendersi conto se fosse stata una realtà o meno.

Sono giunta all’ingresso, ovvero al Matswere Gate, di primo pomeriggio, un’alta entrata la cui cima in legno svettava nella distesa brulla, ed intorno qualche casa in cui abitavano i guardia-parco con le loro famiglie; ho compilato la lista dei pernottamenti previsti, che nell’insieme costituiva un itinerario già molto meno ambizioso di quello che avevo fornito all’ufficio del Department of Wildlife and National Parks di Maun appena un paio di giorni prima, quando avevo prenotato; per fortuna, comunque, nei giorni successivi sono in realtà stata libera di pernottare in qualunque sito a cui mi fossi trovata vicino al calare della notte.

La regione centro-settentrionale della Central Kalahari Game Reserve. A = Matswere Gate; B = Deception Valley; C = Leopard Pan; D = Sunday Pan; E = Deception Pan; F = Lekhubu; G = Letiahau; H = Piper Pan; I = Xade; L = Phokoje Pan; M = Tau Pan; N = Motopi Pan; O-Q = Passarge Valley. La linea marcata rappresenta il Veterinary Cordon Defense che segna i confini a nord del parco; le linee appena meno marcate corrispondono alle piste più frequentate, in particolare nella stagione arida, ma ci sono anche delle piste che costeggiano il Cordon Defense, che (linea sottile) collegano Xade a Matswere inoltrandosi nel deserto vero e proprio, nonché che proseguono verso sud fino al confine del parco più prossimo a Gaborone. Le due piste principali che portano fuori dalla regione nord-centrale del parco, vanno rispettivamente da Matswere a Rakops (circa 50 km) e da Xade a Ghanzi (180 km). Per avere un’idea approssimativa delle distanze: i tratti A-B e H-L sono di circa 40 km; tra Piper Pan e Xade ci sono circa 70 km di pista particolarmente sabbiosa; il bivio tra Tau Pan e l'inizio di Passarge Valley dista circa 45 Km da Motopi Pan e 60 Km dal Cordon Defense; invece i vari siti lungo le piste più seguite, ovvero lungo il tratto che parte da Deception Valley verso sud o quello che attraversa Passarge Valley, sono in media a 10-15 km l’uno dall’altro.
La regione centro-settentrionale della Central Kalahari Game Reserve. A = Matswere Gate; B = Deception Valley; C = Leopard Pan; D = Sunday Pan; E = Deception Pan; F = Lekhubu; G = Letiahau; H = Piper Pan; I = Xade; L = Phokoje Pan; M = Tau Pan; N = Motopi Pan; O-Q = Passarge Valley. La linea marcata rappresenta il Veterinary Cordon Defense che segna i confini a nord del parco; le linee appena meno marcate corrispondono alle piste più frequentate, in particolare nella stagione arida, ma ci sono anche delle piste che costeggiano il Cordon Defense, che (linea sottile) collegano Xade a Matswere inoltrandosi nel deserto vero e proprio, nonché che proseguono verso sud fino al confine del parco più prossimo a Gaborone. Le due piste principali che portano fuori dalla regione nord-centrale del parco, vanno rispettivamente da Matswere a Rakops (circa 50 km) e da Xade a Ghanzi (180 km). Per avere un’idea approssimativa delle distanze: i tratti A-B e H-L sono di circa 40 km; tra Piper Pan e Xade ci sono circa 70 km di pista particolarmente sabbiosa; il bivio tra Tau Pan e l’inizio di Passarge Valley dista circa 45 Km da Motopi Pan e 60 Km dal Cordon Defense; invece i vari siti lungo le piste più seguite, ovvero lungo il tratto che parte da Deception Valley verso sud o quello che attraversa Passarge Valley, sono in media a 10-15 km l’uno dall’altro.

La figura vorrebbe dare un’idea delle piste e delle soste possibili nella parte centro-settentrionale del Kalahari: i circuiti nel nord sono anche quelli consigliati dal DWNP ed attraversano la regione dove incontrare animali è più facile, soprattutto nella stagione secca; una deviazione possibile è rappresentata dalla visita della Motopi Pan, vicino al confine nord-ovest, tenendo conto che non ci si può fermare a campeggiare; poi, anche se il tragitto è piuttosto lungo e la pista diventa molto sabbiosa, credo valga comunque la pena di includere una sosta a Xade, l’entrata più vicina a Ghanzi, a sud-ovest di Maun, per rendersi conto di come cambia il paesaggio, con le prime vere e proprie dune, quando ci si inoltra nel centro; la zona oltre Xade, che io non ho visto, si estende fino nel vero sud del paese, ed è in questa vasta regione realmente desertica e poco accessibile che ancora vivono di caccia i boscimani, ma sono rimasti in numero relativamente piccolo, e si parla di trasferirli fuori dai confini del parco.

Un racifero (Racipherus campestris) nella boscaglia, andando verso la zona più a sud del parco.
Un racifero (Racipherus campestris) nella boscaglia, andando verso la zona più a sud del parco.

Continua in Kalahari B)

Come reagire all’impennata del cambiamento climatico

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Ho scelto come copertina una bellissima veduta aerea dell’isola di Capraia, una foto di Guglielmo Giambartolomei che ho trovato su internet. L’isola ha un po’ la forma di una tartaruga gigante. A chi conosce il Mar Mediterraneo suggerisce ricordi belli.

Scarpinate in discesa, attraverso la macchia mediterranea, appunto, con rametti che graffiano le gambe abbronzate e faticose risalite, in cui gli odori penetranti e lo iodio si respirano a pieni polmoni.  In mezzo, una qualche caletta appartata e un tuffo in un’acqua limpida; poi una nuotata con la maschera e le pinne per affacciarsi sul piccolo e affollato mondo sommerso, popolato di pesci e pesciolini, su un fondale con ricci di mare tra i quali spicca qualche stella marina, e magari qualche polipo, qualche granchio, addirittura qualche aragosta. Infine, uno scoglio abbastanza poco appuntito dove ci si possa sdraiare, e chiudere gli occhi per rilassarsi grazie ai raggi di sole che penetrano attraverso le palpebre.

Sapevo che almeno alcune delle isole italiane erano in salvo, ovvero che si era riusciti a renderle praticamente autonome e dipendenti solo da fonti proprie di energia rinnovabile. Pensavo che ci fosse più tempo, che con più calma, dopo aver iniziato dalle isole, si sarebbe potuto estendere il ricorso a fonti di energia rinnovabile ad altre zone naturali altrettanto particolari e uniche nel loro genere che si trovano qua e là per la bellissima penisola italiana, e nelle sue due isole maggiori. Non mi ero resa conto che il cambiamento climatico potesse avere un’impennata, dovuta evidentemente intanto alla pandemia, ma anche al fatto che l’Italia si trova in una posizione abbastanza centrale nel Mar Mediterraneo, e questo la rende più fragile, dal punto di vista del cambiamento climatico in particolare.

Nella situazione attuale, la maggioranza delle persone è intanto affaticata dalle conseguenze dello scoppio della pandemia, nonché disturbata dalle variazioni inaspettate del clima che cambiando così bruscamente è diventato anche instabile. Anche per questo, mi sembra si pensi che non si possa fare altro che aspettare che questo periodo passi. Questa posizione però la trovo preoccupante, intanto in Occidente e in particolare in Italia.

Sono abbastanza convinta, su basi scientifiche qualitative, che questo periodo non passerà, che se non si interviene al più presto si continuerà ad assistere a quello che è l’opposto di una glaciazione (la glaciazione che ha portato alla nota estinzione dei dinosauri, e alla conseguente diffusione dei mammiferi, in un periodo così lontano nel tempo da essere difficilmente immaginabile, perché si parla dell’ordine di un milione di anni fa). Nel caso attuale, la temperatura globale si è innalzata oltre il livello di guardia, e si sta avendo invece, nell’insieme, una desertificazione (vedi Colpo d’occhio sulla desertificazione , nello stesso blog).

Una bella foto delle Dolomiti trovata su internet.
Una bella foto delle Dolomiti trovata su internet.

Forse si dovrebbe tener conto in contemporanea dei due punti di vista che immagino diversi, tra quello delle persone al governo, che si preoccupano magari di mantenere l’ordine e di salvare almeno in parte l’economia, e quello della popolazione, che si ritrova già danneggiata più di quanto potesse aspettarsi e vorrebbe invece delle risposte immediate ai problemi pratici che si sono creati e si stanno creando. Il vero problema diventa forse che si tenta di affrettare, di dare appunto delle risposte sufficientemente rapide per mantenere il controllo, e questo ha come risultato che invece si danno delle risposte miopi, che tengono conto solo dell’immediato futuro e sono destinate a rivelarsi fallimentari su tempi più lunghi. Dall’altro lato la popolazione, anche se magari solo in maggioranza, è disinformata, e non ci tiene ad essere informata di qualcosa che spaventa e che appare senza risposta possibile proprio.

Non è vero che non si possa fare niente, ci sono una quantità di cose banali che potrebbero migliorare la situazione. Mi limito a prendere esempio proprio dall’autosufficienza energetica già raggiunta in alcune piccole isole.  Intanto va premesso che l’energia che proviene da fonti rinnovabili si ottiene di base nella forma di energia elettrica. Poi, magari, andrebbe ricordato che si hanno già soluzioni tecnologiche in abbondanza per ottenerla, anche se naturalmente si possono sempre ideare nuovi metodi che si rivelino ancora più efficienti. Dai mulini a vento a quelli che trasformano in energia elettrica le onde marine, passando per le dighe che permettono di sfruttare la potenza del flusso di un fiume. Aggiungendo a tutto questo le note cellule fotovoltaiche, che possono rendere autosufficienti intanto dei piccoli edifici. In particolare, si potrebbe intanto allargare l’uso di queste ultime ai tetti dei palazzi in città, permettendo di contribuire almeno in parte all’alimentazione elettrica degli appartamenti.

C’è un aspetto ottimista, in tutto questo, che si potrebbe riuscire a passare alle fonti rinnovabili più rapidamente proprio in quanto in questo periodo c’è una sovrabbondanza di energia sprigionata da eventi naturali, ed il sole scalda anche troppo. D’altra parte, arrestare l’ulteriore innalzarsi della temperatura globale, e con il tempo riportarla al di sotto dei valori troppo alti attuali, lascerebbe aperto in seguito un’adattamento più lento alle reali possibilità energetiche, minori di quelle che si hanno in un periodo di crisi.

Come ho accennato in un’altra pagina del blog ( Colpo d’occhio sulla desertificazione ), la desertificazione e il caldo sempre maggiore in media sono legati principalmente all’aumento della CO2 (anidride carbonica) nell’atmosfera, quindi l’altro passaggio fondamentale, che è in sé stesso reso possibile appunto dallo sfruttare le fonti rinnovabili ed ottenerne energia elettrica, è quello del passaggio alle automobili elettriche, il cui funzionamento è basato su delle batterie ricaricabili. Qualcosa che si può forse dire in un blog meglio che altrove è che non si tratta di un’utopia, perché 6 o 8 delle 2 batterie di un buon motorino elettrico sono sufficienti per dare autonomia dignitosa e far muovere ad una velocità dignitosa un’automobile. Da un confronto banale dei prezzi, notando che si possono direttamente produrre batterie più grandi ed avvantaggiarsi ulteriormente, sembrerebbe emergere che le automobili elettriche attualmente disponibili sul mercato sono nettamente più costose dell’indispensabile.

Per concludere, se si partisse dalla prospettiva che questo aumento del caldo medio si può ancora invertire, invece di stressarci ulteriormente a procurarci in fretta dei condizionatori nuovi e a muoverci tra fornitori di energia elettrica più economici, forse si potrebbe chiedere di accelerare in questa prospettiva.

Perché in competizione tra di loro?

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La foto in evidenza l’ho fatta in una tranquilla fine di pomeriggio al laghetto più grande di villa Ada, ovvero in un noto spazio verde di Roma, nell’autunno del 2020. E’ un esempio in piccolo di competizione tra animali della stessa specie in natura, in questo caso dei gabbiani, i quali si stavano litigando una preda, che mi pare fosse una tartarughina acquatica. Sullo sfondo dei palazzi riflessi sulla superficie dell’acqua, alla luce del tramonto, mentre la scattavo, mi ha suggerito l’interpetazione metaforica delle cosiddette “guerre tra poveri”, delle quali un esempio classico sono i fenomeni di razzismo, ma che possono purtroppo andare anche oltre.

Una bella giovane donna, dall'espressione seria e dignitosa, di una tribù dei nomadi del Sahel (foto di Jean Marc Dureau).
Una bella giovane donna, dall’espressione seria e dignitosa, di una tribù dei nomadi del Sahel (foto di Jean Marc Dureau).

La foto di sopra è di una giovanissima donna di una tribù di nomadi del Sahel, dei quali so qualcosa da mio padre. Appunto che vivono ancora come nomadi, spostandosi con i loro accampamenti e con il loro bestiame, in particolare delle caratteristiche mucche. Questo succedeva ovunque nella preistoria, in un determinato periodo, mentre solo più tardi, diverse popolazioni del mondo in periodi diversi, si è iniziato anche a coltivare il terreno, quindi ad essere più stanziali. In ogni caso, ancora in tempi molto recenti, la cosiddetta transumanza era comune, in Italia, e permetteva appunto di portare le mucche a mangiare in pascoli in luoghi diversi, a seconda delle stagioni.

I nomadi del Sahel, che è un deserto nel nord del Continente Africano, più piccolo e distinto dal Sahara, hanno poi un fascino tutto loro, essendo appunto abituati ad un clima particolarmente secco, intanto per la loro propria cultura, i propri usi e costumi che sono di conseguenza originali, secondo me anche in quanto persone di alta statura e magre, tra le quali delle donne particolarmente belle, come nella foto che ho scelto.

Era poi all’epoca veramente bella, e ha colpito la mia immaginazione da quando vidi la foto per la prima volta da giovane, come forse quella di tanta altra gente nel mondo, la giovanissima donna con gli abbaglianti occhi verdi nella foto seguente.

Il volto di una bella giovane donna Afghana, dagli occhi verdi (foto di Steve McCurry),
Il volto di una bella giovane donna Afghana, dagli occhi verdi (foto di Steve McCurry).

Le espressioni di queste bellissime giovani donne, poco più che delle bambine, sono dignitose e serie, in entrambi i casi. In effetti, sanno di rappresentare una minoranza etnica destinata probabilmente a scomparire, nel primo caso, ed una popolazione nella quale in particolare le donne non riescono ad ottenere il minimo di diritti e di rispetto che gli spetterebbe, nel secondo.

Sono persone che sicuramente speravano in un futuro migliore, sulla base che a migliorare le loro vite, rispetto a quelle della media delle altre persone sul pianeta, bastava un niente. In effetti questo niente era però basato su un processo di integrazione, che doveva essere se non voluto almeno accettato dagli altri. Hanno avuto dalla vita invece, temo, solo dell’emarginazione in più, quindi è meglio ricordarle in queste foto della loro prima giovinezza, nelle quali erano ancora orgogliose e non stanche, nelle quali è evidente che non volevano impietosire.

Non so se ci rendiamo conto, in Occidente, del livello a cui abbiamo umiliato, e di come, dopo averlo fatto, adesso distruggiamo proprio, senza guardare in faccia nessuno, talmente presi dal nostro lungo momento di crisi personale e di riadattamento da non voler renderci conto che c’erano tante persone che non avevano a disposizione niente della nostra tecnologia, delle nostra medicine, della nostra cultura. Per le quali  ci sarebbe semmai ancora spazio abbondante, ma alle quali stiamo rendendo impossibile la sopravvivenza. Non ci vogliamo accorgere che essendo stati noi a non fermare a tempo la pandemia, a causare il cambiamento climatico, troppo rapido e che rischia di essere definitivo, saremmo noi a doverci prendere la responsabilità di aiutarle, mentre le lasciamo schizzare via dalla superficie del pianeta.

Queste due giovani donne non si sono sicuramente mai conosciute, impossibile che abbiano avuto la possibilità di incontrarsi, tra il Sahel e l’Afghanistan. Eppure siamo riusciti, dall’Occidente, a metterle in competizione per la vita tra di loro.

Colpo d’occhio sulla desertificazione

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Sulla sinistra della foto l’immagine satellitare risale al 2015 (da una versione non aggiornata di Google Earth) mentre sulla destra c’è un’ingrandimento di un’immagine satellitare recente (da un sito della Nasa ). Vorrei sottolineare quanto sia già estesa l’area che appare già prevalentemente desertificata in Africa del Nord nel 2015, e vi siano in più delle zone che appaiono come tali anche in Italia nel 2022 (in Sicilia, in Sardegna, nella parte Sud-Est della Puglia, in particolare).

L’argomento mette già di per sé tristezza, ma merita di essere approfondito un minimo. Vorrei farlo partendo da questi dati sull’andamento della

Il grafico con l'andamento della temperatura globale dal 1880 al 2020 (dati pubblici NASA).
Il grafico con l’andamento della temperatura globale dal 1880 al 2020 (dati pubblici NASA).

cosiddetta temperatura globale Tg (la media della temperatura nel pianeta), che si misura dal 1880. Mi limito a sottolineare che tra 1940 e il 1960 l’andamento è nell’insieme abbastanza costante, mentre la Tg inizia ad aumentare intorno al 1980, anche se ancora intorno al 2000 l’aumento non è evidente. Poi diventa veramente preoccupante proprio nell’ultimo ventennio.

Non sono un’esperta sull’argomento ma ho frequentato persone che lo erano, in particolare quanto alle diverse ipotesi sulla causa di quest’aumento della temperatura globale, la cui maggiore percentuale veniva attribuita al corrispondente aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera.

L’anidride carbonica è una molecola, di struttura lineare, ovvero un segmento al cui centro si trova un atomo di carbonio e ai cui estremi due atomi di ossigeno (CO2), che viene assorbita dalle piante ed emessa, oltre che dagli altri organismi viventi, nelle combustioni in genere ed in particolare nei gas di scarico.

Modello a sfere e bastoncini (la realizzazione è di Benji9072 - Wikimedia Commons)
Modello a sfere e bastoncini (la realizzazione è di Benji9072 – Wikimedia Commons)

L’osservazione secondo me più importante che si può fare dall’andamento della temperatura globale riportato nel grafico è che ha iniziato ad aumentare negli anni ’70, quando si stavano diffondendo sempre di più i veicoli a motore. Per questo, a parte le emissioni di CO2 delle industrie, penso sarebbe estremamente utile passare il più rapidamente possibile all’eliminazione dei gas di scarico di questi veicoli, il che è attuabile, in linea di principio, grazie in particolare alle auto elettriche. Questo andrebbe fatto a maggior ragione tenendo conto dei recenti incendi, che hanno diminuito ulteriormente, in proporzione significativa nell’intero pianeta, le piante  che assorbono questa molecola.