mi mancano le parole

 

“Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isolaLei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le aliStamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia.

Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole balticoLe sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava.”

Incipit del libro Alma di Federica Manzon, fresca vincitrice del Campiello 2024. E se volessimo capirne i motivi? Vediamo:

qualche facciata sfoggia = enfasi barocca

un gabbiano che si sgranchisce le ali = la sfida, presumibilmente, consisteva nel confrontarsi con un tocco di arditezza espressiva. Impresa fallita.

c’è un sole baltico = qui si vola con la fantasia sulle ali del gabbiano di cui sopra. Associare l’aggettivo baltico al contesto Zagabria è, per essere ironici e non cattivi, un atto di guerriglia contro l’ovvietà.

gli alberi sobbalzavano per la bora = se sobbalzare sta per “fare dei piccoli balzi continui” (Treccani) e balzo sta per scatto, com’è possibile che questo accada ad alberi che restano ancorati al terreno? (suggestione forse accettabile in poesia, in prosa no).

la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto = la pazienza del lettore/della lettrice non è inossidabile, e Prévert e i suoi ragazzi che si amano hanno stancato.

Chi sono io per giudicare?, si chiese meritoriamente Bergoglio. Ecco, prendendo Sua Santità come esempio di sobrietà etica, anch’io mi guardo dal giudicare. Però da lettrice analizzo, e soprattutto speculo sulla triste parata dei premi letterari italiani. Diventa chiaro che Alma è un libro che deve vincere perché ha più chances d’essere venduto: chi mai comprerebbe un libro scritto come dio comanda? solo quella cerchia “miserrima” di lettori doc, ovvio. Ma il mercato ha bisogno di ben altri introiti, e dunque tutto torna. Ivi compresi il dio degli atei e quello dei credenti.

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Sull’isola dei gabbiani una donna che diresti sui quaranta, con camicia bianca e gonna di lana mouliné, non sembra infastidita dalla suscettibilità del vento che scuote gli alberi con infatuazione nefasta: se ne dolgono a gran voce i rami ridotti in monconi. E a loro fanno eco le foglie.

Ambra sta percorrendo l’unica strada asfaltata su cui affacciano case dal lifting austero, appena contaminato da un’infilata di gerani rossi e bianchi. Sul limitare, nel punto in cui pare venirti incontro il mare, si trova l’albergo che ha prenotato per una settimana: di una semplicità rinfrancante, è proprio quello che fa per lei, intenzionata a mettere in pausa la vita e non ad aumentarne la realtà, a differenza di certe sue amiche che, nevrotizzate dalla routine, sgrammaticano a tavolino.

È  passato poco più di un anno dal giorno in cui ha passeggiato per l’ultima volta nella sua città a nord con l’uomo al quale era legata da una decade di sodalizio amoroso: mentre rientravano, lui aveva infilato la mano nella tasca del cappotto di lei, ed era bastato quel gesto a sbozzare la scena che avrebbero girato di lì a una settimana, quando in Ambra sarebbe tornata a prevalere l’indole nomade.

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L’ultima scena tra Ambra e il suo uomo me la immagino all’interno della pasticceria Marchesi a Londra. Ma poiché non sono brava con i dialoghi, in realtà neppure con tutto il resto, e una scena del genere li richiede, interrompo qui questa burla. (E comunque a me il Campiello neppure interessa).

Prada's Pasticceria Marchesi now open on one of the most prestigious streets in London - 2LUXURY2.COM

Il sapore della malinconia

I migliori libri di settembre secondo Wired | Wired Italia

Mi sono bastate poche pagine per capire che questo non era un libro da consegnare all’oblìo e così, visualizzandolo nella nicchia destinata ai preferiti, l’ho incastonato tra quelli col dorso che va dal glicine al blu. Colori a parte, succede lo stesso con le persone: ne incontri una che inspiegabilmente ti apre uno spiraglio sull’infinito e decidi di tenerla con te. Bastano pochi minuti. Se ci pensi, la mattina per prepararti il caffè ne impieghi qualcuno in più. Se poi la storia non ha un lieto fine, come questo libro che già svela in premessa dove vuole andare a parare, non importa.  Purché, dopo i titoli di coda, si giunga pian piano ad apprezzare “il sapore della malinconia”, che è un po’ come salvare il salvabile e pensarsi sopravvissuti, ma senza avvertire il retrogusto amaro dei primi tempi, quando a sprimacciare l’altro cuscino non ci si pensa proprio per paura di cancellare il solco. Tuttavia, se si appartiene alla schiera desiderante ricchi premi e cotillon, meglio lasciar perdere i minuti istintuali e agire per calcolo. Magari indossando i panni del burocrate dell’amore, che non concede al cuore il lusso di una tuta alare e al sole nega di smarrirsi tra le sue stanze.

Quante volte mi sembrava di trovarlo incupito, chiuso nell’involucro della sua ferinità, divinità pensosa all’ingresso di un mondo che doveva restare ignoto. C’erano cupezze che avrei potuto ascrivere nel catalogo delle emozioni mie. Le metteva in comune, mi ci lasciava entrare. Certamente il sapore della malinconia lo conosceva. Sedeva sulla poltrona blu del mio studio e sfiatava malinconia tutta di naso. Da Ponte avrebbe detto che aveva gran pensieri in mente, e di sicuro ce li aveva. Come li leggesse dentro di sé non saprei.

La poltrona blu sta nell’angolo della libreria fra Marcel Proust, Henry James, il teatro di Racine, Marivaux, Molière e Shakespeare. I saggi sono altrove, la filosofia lontanissima. Søren Kierkegaard irraggiungibile. Mi piace pensare che consultasse non visto quel po’ di patrimonio dell’umanità.

Una settimana dopo il suo arrivo fu come desse retta a Calibano, a cui Shakespeare fa dire: «Ricordati, per prima cosa, di impossessarti dei suoi libri, perché senza di essi non è che un interdetto come sono io, e non ha più alcuno spirito a cui dare ordini». Addentò La tempesta, ma poi prese a nutrire un rispetto davvero encomiabile per il libro cartaceo. Forse Calibano ambisce al potere di Prospero, alle sue magie. Per Billy il Cane si trattava di pura rabbia, immagino, o, meglio ancora, era in gioco la misura dei nuovi confini. Quel volume non l’ho conservato, ma c’è traccia dei suoi denti su Riccardo III e sono ancora lì, perché mi piace che abbia lasciato una sua personale selezione dell’opera shakespeariana. Certo che ha letto, ne sono sicuro – l’ha fatto per osmosi. In fondo siamo animali osmotici, ci passiamo l’un l’altro bene e sapienza.

Avrei qualcosa da dirgli, vorrei fermare la notte, vorrei svegliare la natura quando invece inclina verso il riposo e il sonno, che mi dica la strada, che il silenzio si volga in bisbiglio, che i volatili diurni collaborino con i notturni e concordino sulla via da prendere per trovarlo. Sto con la schiena contro l’albicocco e spingo lo sguardo sin dove può arrivare. Son pronto a perdonare.

Alberto Rollo, Billy il Cane

Retriva

Mauro Corona: biografia, alpinismo e curiosità su Mauro Corona - Montagna.TV

C’è il rischio d’essere bollati come retrivi confessando d’avere un’inspiegabile fascinazione per il tempo mai vissuto. Ma se quel tempo – a cui non sai dare un nome perché ne ha almeno cento – ti viene raccontato con la sapienza divertita di un Mauro Corona o di chiunque altro sia in grado di affabulare narrando, è probabile che una connessione esplicativa la trovi. Solo bisogna tenere per sé lo struggimento che ne consegue, ché certa contemporaneità mal sopporta i conservatori. Figuriamoci i retrivi.

Oggi mio padre avrebbe compiuto cento anni. Era del ’23. Scrivo questo “calendario sentimentale” anche per lui, per onorare la sua triste memoria. Tante cose, svolte nelle stagioni, le ho fatte sotto la sua guida. Erano azioni condotte in regime di terrore. Altre, più belle e importanti, le ho frequentate col nonno paterno, dentro un regime di bontà e pazienza. Entrambi sono morti da anni. Del primo non sento la mancanza, del secondo sì. […] Prima che il monte Toc perdesse la carne con la frana che ancora oggi gli lascia esposte le ossa, il nostro calendario divideva i mesi coi nomi dei lavori che si dovevano svolgere in quel periodo. Gennaio era il mese del letame, febbraio delle maschere, marzo degli sterpi, aprile era il mese delle vanghe. Maggio piegava i virgulti, giugno scuoteva i campanacci, luglio era mese del fieno. Agosto apparteneva a musiche e canti, settembre alle grappe che ubriacavano frutti di bosco. Ottobre mese delle foglie, novembre re delle cataste, dicembre degli abeti bianchi. Così si andava avanti. Pochi mezzi, poche illusioni, scarse speranze e molta serenità. […]

Gennaio era il mese del letame. Lo si spargeva sui campi innevati, che in autunno dovevano dar patate. […] Pochi conoscono il peso specifico del letame spostato a spalle. Piombo pastoso, compatto, denso e sgocciolante ancora fresco, marmoreo quando stagionato. I miei fratelli e io guardavamo esterrefatti e impauriti quel bianco puro, liscio, perfetto improvvisamente sporcato, contaminato, oltraggiato dalle chiazze scure del letame o dai numerosi mucchi a cono rovesciato. Qualcosa non tornava nelle nostre anime. […] Quando il materiale stercoso s’accumulava troppo in fretta, urgeva portarlo in loco a primavera, prima che l’erba premesse. A quel punto la faccenda cambiava musica. La pasta argillosa generava un percolato denso che usciva dalle gerle finendo sulla schiena. Per proteggersi alla buona, si metteva un sacco di iuta infilato a mo’ di cappuccio sulla testa che da lì scendeva alle anche. A portare il letame nelle gerle erano solo donne. […] Ogni tanto, quando il letame era tenero per la primavera incipiente, qualche cinico maschio fingeva di sbagliare badilata e buttava una zolla di merda bovina in testa alla portatrice, specie se carina. Dopodiché, inscenando scuse false, giù risate e commenti sarcastici.

D’inverno, quando il letame diventava marmo, e finiva sulla neve anch’essa di marmo, gli scherzi cambiavano forma. Sulla pala stava un blocco di pietra scavato a picconate. Cosa c’era di meglio che sollevare la badilata di sterco più in alto del necessario e calarla con forza nell’apertura della gerla? Prese alla sprovvista, le poverine piegavano le ginocchia fino in terra. Con l’ulteriore sforzo di doversi rialzare. Genuflessione obbligata agli dei dell’arroganza. Non sempre le prese di mira accettavano di buon grado. Una volta Genoèfa dal Col reagì di suo carattere. All’ennesima badilata di concime tenero sulla guancia, si voltò, lasciò cadere il carico, afferrò con le mani una grossa fetta di merda sgocciolante e la spalmò sulla faccia dell’incauto cretino. Accanto a lei, Zolìana de Bia disse: «Efa, non buttare così il letame, merda su merda è roba sprecata».

Mauro Corona, Lunario sentimentale