Io resto a leggere “Le transizioni”

   Bujar è un ragazzo albanese alla ricerca della propria identità. Dice: “Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle”. Lo incontriamo bambino, troppo presto consapevole d’essere destinato a restare solo: il padre, rovinato dalla fatica e da una vita miserabile, gli compra delle biglie e gli rivela di essere malato. Da quel momento in poi Bujar sognerà di lasciare l’Albania e il fardello di orrori che a quella s’accompagnano e lo farà con l’amico Agim, rifiutato dalla famiglia per il suo orientamento sessuale. In un continuo oscillare tra identità maschile e femminile “sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini”, Bujar si fermerà a New York, Madrid e Roma ma da ogni città si sentirà tradito. il romanzo di Statovci, autore kosovaro cresciuto in Finlandia dove i genitori si trasferirono per fuggire dai conflitti etnici, contiene continui rimandi alle leggende albanesi e finlandesi, dove gli animali sono saggi e gli uomini ascoltano gli dèi.

Un estratto:

 “Spingemmo la barca in mare e salimmo a bordo, e in quel momento provai per Agim tutto l’amore che si può provare per un altro essere umano, con una passione che mi lacerava, con la forza di tutti i miei pensieri. Remammo lasciandoci dietro la linea nebbiosa delle luci della città. Poi Agim afferrò la cordicella di avviamento e diede uno strappo. Il motore scoppiettò qualche volta per poi spegnersi, ma al quarto tentativo iniziò a fare le fusa come un gatto. Agim rimase accovacciato, con le ginocchia sul mento come se non avesse sentito quel rumore, poi estrasse una bussola da una tasca posteriore e, quando la barca puntò verso ovest, si premette le mani sulla fronte e dalla sua bocca iniziarono a uscire strani gemiti: stava piangendo. Io gli porsi la mano e lui me la afferrò e per un attimo se la portò al viso. Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette e un accendino, ci sistemammo sullo stesso banco e fumammo sotto un cielo di seta nera, e procedemmo così, senza dire una parola, schiavi del buio riuscivamo a vederci a malapena. Per un po’ fu lui a reggere il timone, ogni tanto lo facevo io, rompendo il delicato fruscio della notte e fendendo la superficie del mare che pareva un pavimento appena laccato. Non importava dove saremmo finiti, perché tutti i luoghi dov’ero stato con lui erano stati una casa.