FONTE

La fonte che zampilla e scorre

MARGHERITA GUIDACCI
FONTE
Que bien sé yo la fuente que mana y corre
Aunque es de noche (San Juan de la Cruz)
Io so la fonte che zampilla e scorre
benché sia notte, la so ritrovare
benché sia notte e un grappolo di notti:
notte del cielo e notte
del bosco, notte della lontananza,
notte di tutto il tempo ch’è trascorso
dal primo scaturire… La raggiungo
lungo i bruni sentieri dove mi guida
il suo richiamo d’argento. E vi tuffo
le mani, le sollevo
congiunte a coppa fino alle mie labbra
ed alle tue. Riconosci anche tu
nell’arcana purezza che ci disseta
il nostro pianto d’un giovane addio
(disceso ad irrorare le profonde
radici della vita), riconosci
quelle nostre visibili
e invisibili lacrime?

(da Anelli del tempo, Edizioni Città di Vita, 1993)

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“Sottraggo i giorni ad uno ad uno, li sigillo / e metto via, quando sono compiuti, / benedicendo il loro sole, la loro pioggia / o qualunque sia stato il loro dono; / benedicendo soprattutto la notte / che, seppur lenta, li accolse alla fine”. La notte – “notte dei sensi e dell’anima”, in attesa della “notte di Dio” – acuisce il senso di assenza e il desiderio. La poetessa fiorentina Margherita Guidacci parte da una frase del poeta e mistico San Giovanni della Croce e sviluppa quella mancanza di respiro, quel “senso di morire / quando mi stringe improvviso / il desiderio di te tanto lontano”.

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SALLY STORCH “LA BREZZA DELLA NOTTE”
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Solitaria bagnante

In quel brivido breve

RAFFAELA FAZIO
SOLITARIA BAGNANTE, L’ANIMA
Solitaria bagnante, l’anima
si arrende alla mano che l’asciuga
dal sonno.

Trema.
E in quel brivido breve
si appaga.

(da A grandezza naturale (2008-2018), Arcipelago Itaca, 2020)

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La poetessa Raffaela Fazio ha riunito dieci anni di poesia in una raccolta che ha intitolato A grandezza naturale: “Si tratta di quelle che, a mio parere, hanno mantenuto l’urgenza iniziale camminando sulla corda tesa, dal passato fino ad oggi” scrive per giustificare la scelta, sempre difficile per un poeta. Questa Solitaria bagnante, l’anima spicca tra le prime, quelle che appartengono alla sezione Il senso e l’andatura, che il prefatore Daniele Barbieri definisce così: “Le cose del mondo vi sono concrete, materiali, e lo stesso vale per gli eventi, ma ugualmente rimandano al tempo, alla vita, all’anima, all’essere”.Bagnante
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Come un immenso petalo di magnolia

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ISABEL FRAIRE
COME UN IMMENSO PETALO DI MAGNOLIA
Come un immenso petalo di magnolia
si srotola la luce del mattino

non ci sono case né uccelli
né boschi

il mondo
si è svuotato
c’è solamente luce

(da Solo questa luce, 1969)

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Un mattino d’estate, o forse meglio di fine primavera, quando la luce di giugno pervade ogni cosa, regna cancellando prestissimo il buio della notte e si trascina fio alle tarde ombre del crepuscolo: ma nel mattino, come nota la poetessa messicana Isabel Fraire, si impossessa di tutto.https://cantosirene.blogspot.com/

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Giugno poesie

Poesie per giugno VI

Giugno è il mese della luce: le serate con la complicità del solstizio d’estate sembrano non finire mai, il crepuscolo si spegne lentamente fin quasi alle dieci. Quella luce ritrovata cantano il poeta statunitense Richard WIlbur, che la associa al dono – una pera “Bella di giugno” – ricevuto dall’amata, e il poeta gallese WIlliam Henry Davies, abbagliato dal suo splendore in un campo di ranuncoli.

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RICHARD WILBUR
LUCE DI GIUGNO
La tua voce, nel chiaro mondo dei giorni di giugno,
mi ha chiamato da fuori la finestra. Stavi lì,
leggera ma composta, come nel giusto sguardo,
fisso e lieve, dell’estate incontestata tutte
le cose elevano le loro sembianze nell’aria intatta.

Il tuo amore pareva allora semplice e intero
come la pera appena colta che mi hai lanciato e il tuo viso
nitido come i puntini e le macchie sulla pelle della pera,
che son sempre promessa di buon vino, accanto a un fuoco
screziato, dalle forme più fatali di qualsiasi grazia umana.

E il tuo dono allegro – oh quando l’ho visto cadermi
tra le mani, attraverso tutta quella luce ingenua,
mi è sembrato benedetto dalla verità e da una gioia nuova
come dev’esser stato il primo, più grande, dono.

(da I bellissimi cambiamenti, 1947 – Traduzione di Paola Loreto)

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NOI NON SAPPIAMO QUALE SORTIREMO

Parole senza rumore

EUGENIO MONTALE
NOI NON SAPPIAMO QUALE SORTIREMO

Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tòcche radure ci addurrà
dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno; smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s’esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un’eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l’erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.

(da Ossi di seppia, 1925)

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La precarietà dell’esistenza, l’ambiguità del futuro venano la prima metà di questa poesia di Eugenio Montale tratta dalla sezione “Mediterraneo” di Ossi di seppia: ma quel male di vivere, quella discesa in terre nelle quali restiamo straniati, alienati, in un buio nel quale, consapevoli del fallimento cui siamo destinati, dimentichiamo persino la luce del mattino, possono tuttavia placarsi, trovare pace nei versi, nelle parole, che il lettore sensibile ai problemi che angosciano il poeta saprà cogliere bene.

.Mare

LEONID AFREMOV, “LIGURIA BELLA”
.da https://cantosirene.blogspot.com/2020/05/parole-senza-rumore.html

Poesia di Cappello Pierluigi

Le belle lettere

A Eraldo Affinati

I polpastrelli premuti sulla terra battuta,
la combustione degli istanti liberata in uno scoppio

poesia
poesia

nel corpo lanciato verso cento metri che non finiscono più
che sono già finiti,
i lunghi ritorni a casa, estenuanti,
dove qualcosa dentro noi andava puntellato
nella desolazione, per catturare il mondo in un dettaglio,
come guardato attraverso una fessura.
Siamo antichissimi e giovani,
abbiamo visto Vienna liberata dai cavalieri alati,
chiuso le belle lettere in un tascapane,
accanto alle cartucce
scalato le marce e aperto il gas in un ruggito
dopo l’ultima curva
e ancora la bellezza e il dolore sono un cielo
che entra nella voce e la spezza.
Non orgoglio del compito svolto
ma per orgoglio del compito
qualcosa rimane del nostro dire
abbiamo inciso i nomi sul tronco folgorato,
siamo passati di lì.

Stato di quiete. Poesie 2010-2016 (BUR Rizzoli, 2016)

L’alba

images (1)Rabindranath Tagore, L’alba

Ogni Alba porta un nuovo giorno,
lavando con la luce della speranza
le macchie e la polvere dello spirito
vuoto di ogni giorno passato.
Vuoi celare te stesso!
Il cuore non ubbidisce,
diffonde luce dagli occhi.

Nella vita non c’è speranza
di evitare il dolore:
che tu possa trovare nell’animo
la forza per sopportarlo.

Cieco, non sai che l’andare e il venire
camminano sulla stessa strada?
Se sbarri la strada all’andata
perdi la speranza del ritorno…
https://aforisticamente.com/poesie-sulla-speranza/

Poesia di Silvio Ramat

Tutto di sé

SILVIO RAMAT
DIRLE TUTTO DI SÉ
Dirle tutto di sé – lei non lo chiede
ma che importa? Non celarle gli azzardi,
le smanie di un amore se dispera.
Ma non coinvolgerla nel proprio buio,
nelle spire noiose di un declino.
Gli basta a volte pensarla che corre,
in un paesaggio da sempre a lei il più caro,
in un giorno di festa, la mattina,
affaticata e lieve. Amore, è tardi.

(da Poesia, 300, Gennaio 2015)
.Northrop

Amare è condividere tutto? È denudare completamente la propria anima davanti all’altra o all’altro? Secondo il poeta e traduttore fiorentino Silvio Ramat c’è un limite cui fermarsi ed il punto in cui all’altra o all’altro toccherebbe portare il fardello della sofferenza.
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https://cantosirene.blogspot.com/2020/05/tutto-di-se.html

HARDLEY NORTHROP, “DONNA AL CAFFÈ”

MAGGIOLATA poesia di Carducci

Maggio risveglia i nidi,
maggio risveglia i cuori;
porta le ortiche e i fiori,
i serpi e l’usignol.
Schiamazzano i fanciulli
in terra, e in ciel li augelli:
le donne han ne i capelli
rose, ne gli occhi il sol.
Tra colli prati e monti
di fior tutto è una trama:
canta germoglia ed ama
l’acqua la terra il ciel.
E a me germoglia il cuore
di spine un bel boschetto;
tre vipere ho nel petto
e un gufo entro il cervel.

Giosuè Carducci
DA Maggiolata-Carducci-usignolo

DELLA STERILE E TETRA VITA VENEZIANA

OSIP EMIL’EVIČ MANDEL’ŠTAM

DELLA STERILE E TETRA VITA VENEZIANA

Della sterile e tetra vita veneziana
m’è chiaro il senso.
Ecco che guarda con un frigido sorriso
dal decrepito vetro azzurro.


L’aria tersa della pelle. Le venature azzurre.
La candida neve. Il verde broccato.
Si viene tutti distesi su lettighe di cipresso,
assonnati, caldi si viene tratti dal sudario.


E ardono, ardono nei canestri le candele,
come se una colomba fosse entrata nell’arca.
A teatro e in oziosa pubblica assemblea
un uomo sta morendo.


Poiché non v’è scampo dall’amore e dalla paura:
è più greve del platino l’anello di Saturno!
Di nero velluto è parato il patibolo
e il viso meraviglioso.


Sono grevi, o Venezia, i tuoi paramenti,
gli specchi nelle cornici di cipresso.
Sfaccettata la tua aria. Nell’alcova si sciolgono i monti
di decrepito azzurro.


Solo tra le dita una rosa o un’ampolla,
o verde Adriatico, perdona!
Perché mai taci, dimmi, o veneziana,
come sfuggire a questa morte festosa?


Tremola nello specchio il Vespro nero.
Tutto passa. La verità è oscura.
L’uomo nasce. La perla muore.
E Susanna deve attendere i vecchioni.


1920

(da Poesia, 344, Gennaio 2019 – Traduzione di Gario Zappi)

Nell’opera poetica di Osip Ėmil’evič Mandel’štam ombre e luce si susseguono, così come l’acqua e la terra: come poteva Venezia – visitata nel 1910, mentre era ricoverato nel sanatorio di Zelendorf – essere incapace di ammaliarlo? È una Venezia autunnale, decadente, una città che muore lentamente, dolcemente e inevitabilmente precipitando nei suoi canali, simile alla Venezia vista da Thomas Mann: “La bella lusinghiera e ambigua, la città metà fiaba e metà trappola, nella cui atmosfera corrotta l’ arte un tempo si sviluppò rigogliosa, e che suggerì ai musicisti melodie che cullano in sonni voluttuosi”.

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ACQUARELLO DI TONI BELOBRAJIDIC

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