32. “noi stessi siamo più e meno di noi stessi”: le sfumature del confine dell'”io sono così” e il flusso continuo dell’esistenza

Giorgio Agamben, Genius, edizioni nottetempo 2004

Now my charms are all o’erthrown
and what strength I have’s mine own
Prospero al pubblico

I latini chiamavano Genius il dio a cui ciascun uomo viene affidato in tutela al momento della nascita. L’etimologia è trasparente ed è ancora visibile nella nostra lingua nella prossimità fra genio e generare. Che Genius avesse a che fare con il generare, è del resto evidente dal fatto che l’oggetto per eccellenza “geniale” era, per i latini, il letto: genialis lectus, perché in esso si compie l’atto della generazione. E sacro a Genius era il giorno della nascita, che per questo noi ancora chiamiamo genetliaco. I regali e i banchetti con cui celebriamo il compleanno sono, malgrado l’odioso e ormai inevitabile ritornello anglosassone, un ricordo della festa e dei sacrifici che le famiglie romane offrivano al Genius nel natalizio dei loro membri.
Orazio parla di vino puro, di un maialino di due mesi, di un agnello “immolato”, cioè cosparso della salsa per il sacrificio; ma sembra che, in origine, non vi fossero che incenso, vino e deliziose focacce al miele, perché Genius, il dio che presiede alla nascita, non gradiva i sacrifici sanguinosi.
“Si chiama mio Genius, perché mi ha generato (Genius meus nominatur, quia me genuit)”. Ma non basta. Genius non era soltanto la personificazione dell’energia sessuale. Certo, ogni uomo maschio aveva il suo Genius e ogni donna la sua Iuno, entrambi manifestazione della fecondità, che genera e perpetua la vita. Ma, com’è evidente nel termine ingenium, che designa la somma delle qualità fisiche e morali innate in colui che viene in essere, Genius era in qualche modo la divinizzazione della persona, il principio che regge ed esprime la sua intera esistenza. Per questo a Genius era consacrata la fronte, non il pube; e il gesto di portare la mano alla fronte, che compiamo quasi senza accorgercene nei  momenti di smarrimento, quando ci pare di esserci dimenticati di noi stessi, ricorda il gesto rituale del culto di Genius (unde venerantes deum tanginum frontem). E poiché questo dio è, in un certo senso, il più intimo e proprio, è necessario placarlo e averlo propizio in ogni aspetto e in ogni momento della vita.
Vi è un’espressione latina che esprime meravigliosamente il segreto rapporto che ciascuno deve saper intrattenere con il proprio Genius: indulgere Genio. A Genius bisogna accondiscendere e abbandonarsi, a Genius dobbiamo concedere tutto quello che ci chiede, perché la sua esigenza è la nostra esigenza, la sua felicità la nostra felicità. Anche se le sue – le nostre!- pretese possono sembrare sragionevoli e capricciose, è bene accettarle senza discutere. Se, per scrivere, avete -ha!- bisogno di quella carta giallina, di quella penna speciale, se ci vuole proprio quella luce fioca che spiove da sinistra, è inutile dirsi che qualunque penna fa il suo mestiere, che ogni carta è buona. Se senza quella camicetta di lino celeste (per carità, non la bianca con quel colletto da impiegato!) non vale la pena di vivere, se senza quelle sigarette lunghe con la carta nera non ve la sentite proprio di andare avanti, non serve ripetersi che sono soltanto manie, che sarebbe ora di mettere giudizio. Genium suum defraudare, frodare il proprio genio, significa in latino: rendersi triste la vita, imbrogliare se stessi. E genialis, geniale è la vita che allontana lo sguardo della morte e risponde senza esitazione alla spinta del genio che lo ha generato.

Ma questo dio intimissimo e personale è, anche, ciò che in noi è più impersonale, la personalizzazione di ciò che, in noi, ci supera ed eccede. “Genius è la nostra vita, in quanto essa non fu da noi originata, ma ci ha dato origine”. Se egli sembra identificarsi in noi, è solo per svelarsi dopo come più di noi stessi, per mostrarci che noi stessi siamo più e meno di noi stessi. Comprendere la concezione dell’uomo implicita in Genius, significa capire che l’uomo non è soltanto Io e coscienza individuale, ma che dalla nascita alla morte egli convive piuttosto con un elemento impersonale e preindividuale. L’uomo è, cioè, un unico essere a due fasi, che risulta dalla complicata dialettica fra una parte non (ancora) individuata e vissuta e una parte già segnata dalla sorte e dall’esperienza individuale. Ma la parte impersonale e non individuata non è un passato cronologico che ci siamo lasciati una volta per tutte alle spalle e che possiamo, eventualmente, rievocare con la memoria; essa è tuttora presente in noi e con noi e da noi, nel bene e nel male, inseparabile. Il viso da giovinetto di Genius, le sue lunghe, trepide ali significano che egli conosce il tempo, che vicinissimo lo sentiamo in noi rabbrividire come quando eravamo bambini, respirare e battere alle tempie febbrili come un presente immemorabile. Per questo il compleanno non può essere la commemorazione di un giorno passato, ma, come ogni vera festa, abolizione del tempo, epifania e presenza di Genius. E’ questa presenza indisvicinabile che ci impedisce di chiuderci in un’identità sostanziale, è Genius che spezza la pretesa di Io di bastare a se stesso.

La spiritualità, è stato detto, è innanzitutto questa coscienza del fatto che l’essere individuato non è interamente individuato, ma contiene ancora una certa carica di realtà non-individuata, che occorre non soltanto conservare, ma anche rispettare e, in qualche modo, onorare, come si onorano i propri debiti. Ma Genius non è solo spiritualità, non riguarda soltanto le cose che siamo abituati a considerare più nobili e alte. Tutto l’impersonale in noi è geniale, geniale è innanzitutto la forza che spinge il sangue nelle nostre vene o ci fa sprofondare nel sonno, l’ignota potenza che nel nostro corpo regola e distribuisce così soavemente il tepore e scioglie o contrae le fibre dei nostri muscoli. E’ Genius che oscuramente presentiamo nell’intmità  della nostra vita fisiologica, là dove il più proprio è il più estraneo e impersonale, il più vicino il più remoto e impadroneggiabile. Se non ci abbandonassimo a Genius, se fossimo soltanto Io e coscienza, non potremmo nemmeno orinare. Vivere con Genius significa, in questo senso, vivere nell’intimità di un essere estraneo, tenersi costanteente in relazione con una zona di non-conoscenza. Ma questa zona di non-conoscenza non è una rimozione, non sposta e disloca un’esperienza dalla coscienza all’inconscio, dove essa si sedimenta come un passato inquietante, pronto a riaffiorare in sintomi e nevrosi. L’intimità con una zona di non-conoscenza è una pratica mistica quotidiana, in cui Io, in una sorta di speciale, gioioso esoterismo, assiste sorridendo al proprio sfacelo e, che si tratti di digestione e dell’illuminazione della mente, testimonia incredulo del proprio incessante venir meno. Genius è la nostra vita, in quanto non ci appartiene.

Dobbiamo allora guardare al soggetto come a un campo di tensioni, i cui poli anitetici sono Genius e Io. Il campo è percorso da due forze coniugate ma opposte, una che va dall’individuale all’impersonale e l’altra che va dall’impersonale all’individuale. Le due forze convivono, s’intersecano, si separano, ma non possono né emanciparsi compiutamente l’una dall’altra né identificarsi perfettamente. Qual è, allora, per Io, il modo migliore di testimoniare Genius? Supponiamo che Io voglia scrivere. Scrivere non questa o quell’opera, soltanto scrivere, e basta. Questo desiderio significa: Io sento che da qualche parte Genius esiste, che vi è in me una potenza impersonale che spinge alla scrittura. Ma l’ultima cosa di cui Genius ha bisogno è un’opera, lui che non ha mai preso in mano una penna (e tanto meno un computer). Si scrive per diventre impersonali, per diventare geniali e, tuttavia, scrivendo, ci individuiamo come autori di questa o quell’opera, ci allontaniamo da Genius, che non può mai avere la forma di un Io, e tanto meno di un autore. Ogni tentativo di Io, dell’elemento personale, di appropriarsi  di Genius, di costringerlo a firmare in suo nome è necessariamente destinato a fallire. Di qui la pertinenza e il successo di operazioni ironiche come quella di Duchamp, la cui presenza di Genius viene attestata decreando, distruggendo l’opera. Ma se pure soltanto un’opera revocata e disfatta potrebbe essere degna di Genius, se l’artista veramente geniale è senz’opera , l’Io-Duchamp non potrà mai coincidere con Genius e, nella generale ammirazione, se ne va in giro per il mondo come la malinconica prova della  propria inesistenza, come il portatore famigerato della propria inoperosità.

Per questo l’incontro con Genius è terribile. Se poetica è la vita che si tiene nella tensione fra il personale e l’impersonale, fra Io e Genius, panico è il sentimento che Genius ci ecceda e superi da ogni parte, che qualcosa ci avvenga di infinitamente più grande di quanto ci sembra di poter sopportare. Per questo la maggior parte degli uomini fugge atterrita davanti alla propria parte impersonale o cerca, ipocritamente, di ridurla alla propria minuscola statura. Può avvenire, allora, che l’impersonale respinto riappaia in forma di sintomi e tic ancora più impersonali, di sberleffi ancora più eccessivi. Ma altrettanto risibile e fatuo è chi vive l’incontro con Genius come un privilegio, il Poeta che si mette in posa e si dà delle arie o, peggio, ringrazia con finta umiltà per la grazia ricevuta. Davanti a Genius, non vi sono grandi uomini, sono tutti ugualmente piccoli. Ma alcuni sono abbastanza incoscienti da lasciarsi scuotere e traversare da lui fino al punto in cui cadono in pezzi. Altri, più seri ma meno felici, rifiutano di impersonare l’impersonale, di prestare le proprie labbra a una voce che non gli appartiene.
Vi è un’etica nei rapporti con Genius, che definisce il rango di ogni essere. Il rango più basso compete a coloro -e sono talvolta autori celeberrimi- che contano sul proprio genio come su uno stregone personale (“tutto mi riesce così bene!”, “se tu, mio genio, non mi abbandoni…”). Quanto più amabile e sobrio il gesto di quel poeta che invece fa a meno di questo sordido complice, perché sa che “l’assenza di dio ci aiuta”!

Secondo Simondon, l’emozione è ciò attraverso cui entriamo in rapporto col preindividuale. Emozionarsi significa sentire l’impersonale che è in noi, far esperienza di Genius come angoscia o letizia, sicurezza o tremore.
Sulla soglia della zona della non-conoscenza, Io deve deporre le sue proprietà, deve com-muoversi. E la passione è  la corda tesa fra noi e Genius, su cui cammina la funambola vita. Prima ancora del mondo fuori di noi, ciò che meraviglia e stupisce è la presenza in noi di questa parte per sempre immatura, infinitamente adolescente, che esita sulla soglia di ogni individuazione. Ed è questo elusivo fanciullo, questo puer ostinato che ci spinge verso gli altri, nei quali cerchiamo soltanto l’emozione rimasta in noi incomprensibile, sperando che per miracolo nello specchio dell’altro si chiarisca e delucidi. Se guardare il piacere, la passione dell’altro è l’emozione suprema, la prima politica, ciò è perché nell’altro cerchiamo quella relazione con Genius di cui da soli non riusciamo a venire a capo, la nostra segreta delizia e la nostra altera agonia.

Col tempo, Genius si sdoppia e comincia ad assumere una colorazione etica. Le fonti, forse per influenza del tema greco dei due demoni di ogni uomo, parlano di un genio buono e di un cattivo genio, di un Genius bianco (albus) e di uno nero (ater). Il primo ci spinge e consiglia al bene, il secondo ci corrompe ed inclina al male.  Orazio, probabilmente a ragione, suggerisce  trattarsi in realtà di un solo Genius, che è però mutevole, ora candido ora tenebroso, ora savio ora depravato. Ciò significa, a ben guardare, che a mutare non è Genius, ma la nostra relazione con lui, che da luminosa e chiara, si fa opaca e tenebrosa. Il nostro principio vitale, il compagno che orienta e rende amabile la nostra esistenza, si trasforma allora di colpo in un clandestino silenzioso, che ci segue a ogni passo come un’ombra e segretamente cospira contro di noi. L’arte romana rappresenta così uno accanto all’altro due Genii, uno che regge in mano una fiaccola accesa e l’altro, messaggero di morte, che rovescia la fiaccola.
In questa sua tarda moralizzazione, il paradosso di Genius emerge in piena luce: se Genius è la nostra vita, in quanto non ci apprtiene, allora noi dobbiamo rispondere di qualcosa di cui non siamo responsabili, la nostra salvezza e la nostra rovina hanno un volto puerile che è e non è il nostro volto.

Genius ha un corrispondente nell’idea cristiana dell’angelo custode -anzi dei due angeli, uno buono e santo, che ci guida verso la salvezza, e uno malvagio e perverso, che ci spinge alla dannazione. Ma è nell’angelologia iranica che egli trova la sua più limpida, inaudita formulazione. Secondo questa dottrina, alla nascita di ogni uomo presiede un angelo detto Daena, che ha la forma di una bellissima fanciulla. La Daena è l’archetipo celeste  alla cui somiglianza l’individuo è stato creato e, insieme, il muto testimone che ci spia e accompagna in ogni istante della nostra vita. E, tuttavia, il volto dell’angelo non resta immutato nel tempo, ma, come il ritratto di Dorian Gray, si trasforma impercettibilmente a ogni nostro gesto, a ogni nostra parola, a ogni pensiero. Così, al momento della morte, l’anima vede il suo angelo che le viene incontro trasfigurato secondo la condotta della sua vita in una creatura ancora più bella o in un demone orrendo, che bisbiglia: “Io sono la tua Daena, quella che i tuoi pensieri, le tue parole, i tuoi atti hanno formato”. Con un’ inversione vertiginosa, la nostra vita plasma e disegna l’archetipo alla cui immagine siamo stati creati.

Tutti veniamo in qualche misura a patti con Genius, con ciò che in noi non ci appartiene. Il modo in cui ciascuno cerca di distogliersi da Genius, di fuggire da lui, è il suo carattere. Esso è la smorfia che Genius, in quanto è stato schivato e lasciato inespresso, segna sul volto di Io. Lo stile di un autore, come la grazia di ogni creatura dipendono, però, non tanto dal suo genio, ma da ciò che in lui è privo di genio, dal suo carattere. Per questo, quando amiamo qualcuno, non amiamo propriamente né il suo genio né il suo carattere (e tanto meno il suo Io), ma la maniera speciale che egli ha di sfuggire a entrambi, il suo svelto andirivieni fra genio e carattere (ad esempio, il garbo puerile con cui quel poeta a Napoli ingurgitava di nascosto i gelati o il modo dinoccolato che quel filosofo aveva di camminare su e giù per la stanza mentre parlava, arrestandosi d’improvviso per fissare lo sguardo su un angolo remoto del soffitto).

Viene tuttavia per ciascuno il momento in cui deve separarsi da Genius.
Può essere di notte, all’improvviso, quando al suono di una brigata che passa, senti non sai perché che il tuo dio ti abbandona. O siamo invece noi a dargli congedo, nell’ora lucidissima, estrema in cui sappiimo che c’è salvezza, ma noi non vogliamo più essere salvi. Vattene, Ariele! E’ l’ora in cui Prospero depone i suoi incanti e sa che quanto di forza gli resta ora è la sua, la stagione ultima, tarda, in cui l’artista vecchio spezza il pennello e contempla. Che cosa? I gesti: per la prima volta soltanto nostri, completamente smagati da ogni incanto. Poiché certo la vita, senza Ariele, ha perduto il suo mistero – e tuttavia, da qualche parte sappiamo che ora soltanto ci appartiene, che ora soltanto cominciamo a vivere una vita puramente umana e terrena, la vita che non ha mantenuto le sue promessse e può ora per questo darci infinitamente di più. E’ il tempo esausto e sospeso, la brusca penombra in cui cominciamo a dimenticarci di Genius, è la notte esaudita. E’ mai esistito Ariele? Che cos’è questa musica che si disfa e allontana? Solo il congedo è vero, soltanto ora comincia il lunghissimo disapprendimento di sé. Prima che il lento fanciullo torni a riprendersi uno a uno i suoi rossori, una a una, imperiosamente, le sue esitazioni.

Genio alato, affresco proveniente da una villa romana di BoscorealeGenio alato, affresco proveniente da una villa romana di Boscoreale (fonte wikipedia)

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32. “noi stessi siamo più e meno di noi stessi”: le sfumature del confine dell'”io sono così” e il flusso continuo dell’esistenzaultima modifica: 2018-11-14T21:23:16+01:00da mara.alunni