“Perciò, per la nostra sedicente redenzione non dobbiamo usare l’Altro. L’Altro non è una scala per i nostri piedi. Dobbiamo piuttosto restare con noi stessi. Il bisogno di redenzione ama esprimersi attraverso un accresciuto bisogno d’amore con cui noi crediamo di rendere felici gli altri. Nel frattempo però siamo immersi fino al collo nella brama e nel desiderio di cambiare la nostra condizione, e a tale scopo amiamo l’Altro. Se avessimo già raggiunto il nostro scopo, l’Altro ci lascerebbe freddi. Però è vero che per la nostra redenzione abbiamo anche bisogno dell’Altro. Esso ci offrirà forse il suo aiuto spontaneamente, perché siamo in una condizione di malattia e di impotenza. L’amore per lui non è – e non deve essere – dimentico di sé. Sarebbe una menzogna. Giacché il suo scopo è la nostra redenzione. L’amore dimentico di sé è vero soltanto finché l’esigenza del Sé può essere messa in disparte.”
C. G. Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri 2010
https://it.wikipedia.org/wiki/Libro_Rosso_(Jung)
Adi Holzer, Schwierige Passage, 2002
Il pianto della scavatrice
I
Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato
della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,
scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare
ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni
di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.
Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato
con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;
a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono
fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.
Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra
muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette
lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia
di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide
risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –
verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa
quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.
Il pianto della scavatrice, in P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 2015)
Mentre leggevo il primo passo, non avendo notato il tuo onestissimo corsivo, mi si parò davanti Jung, il pensatore che più apprezzo, e di cui ricordavo bene proprio questo concetto che, irriverente nella sua eleganza verso la comune morale, tocca un tasto che generalmente si preferisce tenere ben nascosto.
“Fà del bene e dimenticalo”, l’ameno motto popolare e popolano, sembra sottendere con evidente leggerezza, proprio una stretta correlazione con quanto espresso da Jung.
Volendo invece, con una punta di cinismo, creare un parallelo tra questo concetto junghiano e uno dei più conosciuti insegnamenti cristiani, mi toccherà, obtorto collo, essere un po’ dissacrante : “ama il prossimo tuo come te stesso. Mica di più! ”
Ciao 😉
Non ho trovato parole migliori di quelle di Jung per esprimere quel concetto. Ce ne sono, in realtà, presenti in alcuni modelli di pensiero e di mondo di culture diverse dalla nostra, ma Jung è Jung 🙂 lo adoro … C’è anche una meravigliosa vignetta di Schulz 🙂 ma non mi sono messa a cercarla.
Come ci sono altre poesie in cui viene espresso l’apprendimento dei bambini, ma ho scelto Pasolini, per me “profeta” dei tempi che viviamo, anche se nel suo testo la bellezza si intreccia con la malinconia; ma in questo testo la realtà, descritta da Pasolini con parole di taglio molto concreto, si presenta a noi avvolta in un lirismo struggente che compie il miracolo di portarci nell’attimo presente. Che è il tempo dell’amore, il presente: amare, non aver amato. Amare di quell’amore che non è il nascondiglio delle nostre paure e quindi solo una scusa; di quell’amore che è espressione della completezza e che ci fa fare le scelte giuste: giuste, cioè quelle di cui mai diremmo che abbiamo sbagliato a farle o, accorgendoci di aver sbagliato, ci dà la capacità di cambiare. “Tendere verso” è l’impegno, verso quella condizione che non ci fa prendere l’altro per coprire il nostro io immaturo. I bambini lo fanno, quando imparano la vita, non c’è dicotomia nel loro stare al mondo: “ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre”.
Mi rendo conto che il “come te stesso” è un discorso rischioso, oggi che più che mai Narciso si diffonde ed emerge come tratto dominante dei nostri comportamenti, ma è proprio la completezza del Sé che permette al Sé di mettersi in disparte nell’incontro con l’altro. E’ che quel “come te stesso” forse-forse viene descritto non proprio come probabilmente e realmente significa.
Oh, sai quanti “altri” saremmo capaci di incontrare, compresi gli altri in noi stessi se ci mettessimo su questa strada!
Beh, buon cammino 🙂 e grazie della tua presenza qui.
p.s. ho messo le virgolette al brano di Jung, mi era sfuggita la loro doverosa e necessaria presenza in una citazione … 🙂 … la fretta …