243. “I fiumi” di G. Ungaretti, e i miei alberi, e il mappamondo di fra’ Mauro e la poesia e … insomma … Buon Anno :-)

“Mi tengo a quest’albero mutilato”,
così Giuseppe Ungaretti inizia la poesia “I fiumi” che, per  me, è uno dei capolavori della poesia mondiale.

https://www.youtube.com/watch?v=8SAegn2KtDc&ab_channel=Duccio%27shall

Porta la data 16 agosto 1916. In piena guerra, “abbandonato in questa dolina”, “Ho ripassato le epoche della mia vita”, dice il poeta. “Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia”: questo confida Ungaretti a noi lettori, increduli di fronte a tanta bellezza e affascinati da tante magnificenti biografie presentate con l’incedere maestoso del termine “questo”, per me il più bell’ uso della deissi che io conosca: “Questo è l’Isonzo”, “Questo è il Serchio”, “Questo è il Nilo”, “Questa è la Senna”, “Questi sono i miei fiumi cantati nell’Isonzo”.
Così, mentre “la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre”, Ungaretti si unisce nel ricordo al mondo che lo ha formato – i suoi fiumi- e all’esperienza del suo presente – “abbandonato in questa dolina”, la guerra- e “Ho tirato su / le mie quattr’ossa / e me ne sono andato / come un acrobata / sull’acqua”.
E insieme al poeta, insieme a poche righe, insieme a parole ognuna contenenti interi universi, risonanze, effetti, affetti, paesaggi, noi facciamo il giro di un mondo che è suo e solo suo, ma che sentiamo anche nostro per la vastità e il rispetto che è riuscito a depositare in ogni parola, facendole diventare terra sacra: “Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato” ; “Mi sono accoccolato / vicino ai miei panni / sudici di guerra / e come un beduino / mi sono chinato a ricevere / il sole”.

 

La poesia mi è tornata in mente mentre ascoltavo mia madre raccontarmi di alcuni alberi di cui le avevo chiesto informazioni.
Alberi che sono nella mia storia personale, o perché ne feci esperienza da bambina così piccola da non averne cosciente memoria o perché mi sono stati narrati come parte della storia della famiglia del mio ramo materno.
Mi sono commossa anche solo nel sentire i loro nomi, che già conoscevo, come già conoscevo parte delle loro storie, ma oggi li ho ‘sentiti’ in modo diverso: la fragilità delle nostre vite resa ancora più evidente dai tempi che viviamo è più facilmente paragonabile al ‘tenersi ‘all”albero mutilato‘ del poderoso incipit della poesia. E così in me è stato ancora più forte sentire ‘il supplizio‘ di ‘quando / non mi credo / in armonia‘ e il desiderio di esserlo, nonostante tutto. Anzi, proprio perché tutto sembra smarrirsi, ho cercato ancora di più ‘quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano / la rara / felicità’. Nel testo sul quale studiai per l’esame  di Letteratura Moderna e Contemporanea e che ho appena ripreso per rileggere il mio amatissimo Ungaretti, ebbi cura, all’epoca dell’esame, di glossare le ‘occulte mani’ con ‘che plasmano il destino degli uomini’. Oggi aggiungerei che sono anche le nostre stesse mani a plasmare il nostro destino, sebbene siano esse per moltissimi di noi ignote e occulte proprio a noi stessi.
Il racconto di mia madre prosegue.
Questo è il Castagno Grande, il cui tronco si era aperto e formava un rifugio, ma già sotto i suoi rami coperti di foglie non passava nessuna goccia di pioggia e quindi era spesso ‘abitato’ da persone che si fermavano a godere del suo ristoro. Cresceva infatti nel campo di proprietà dei miei, ma a ridosso della strada, e si offriva a tutti con la sua grazia possente
Questo è il Noce, grande nello spazio davanti alla casa. Sotto i suoi rami si riuniva la famiglia a riposare nei pomeriggi e nelle sere d’estate, e i vicini arrivavano numerosi per le soste pomeridiane o per le veglie serali.
Questo è l’Olmo, cresciuto in mezzo al campo, quello su cui gli zii e i nonni  appesero i prosciutti quando seppero che stavano arrivando i tedeschi; i quali si fermarono proprio lì sotto e tra i suoi rami stesero i fili del telefono senza accorgersi che era diventato un nascondiglio e i prosciutti furono salvi.
Ecco il  Gelso, che mia madre chiama più facilmente ‘il Moro’, e forse perché era il luogo dei suoi giochi, e forse perché ricorda il sapore dei suoi frutti.
Ecco alcuni dei miei alberi.
Ecco i Tigli della Piazza della Chiesa, ecco gli Ulivi del Pincetto, ecco il Nespolo Giapponese l’Oleandro  l’Ibisco alle cui ombre sono cresciuta nel giardino di casa dei miei.
Eccole ancora una volta le nostre biografie. Uniche. Da rispettare.
Possiamo certamente, anzi, dovremmo, lasciarci ispirare dalle vite altrui, ma lasciando a ognuno le proprie biografie, senza predarle.
Nessuno potrà mai entrare fino al fondo dei Fiumi di Ungaretti, nessuno di noi è con lui a esperire la prima guerra mondiale, il fronte; nessuno può dire come lui “Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare / ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre” ; nessuno, nonostante il coinvolgimento che la capacità del poeta sa suscitare in noi.
Ma, grazie a lui, possiamo sentirci ispirati a guardare i nostri fiumi, i nostri alberi, le scarpe della nostra vita, le strade, le sorgenti, e tutto saper presentare al mondo come fa il poeta, con la sua stessa armonia e dignità e umiltà e generosità dell’atto deittico racchiuso in una delle parole che più usiamo: “questo, questa”. Una delle parole che ci collegano al mondo e forse non ce ne accorgiamo quando le usiamo.

Siamo invisibili se guardiamo una mappa. Una mappa è un racconto così generalizzato, così politicamente indirizzato, così legata al momento in cui viene disegnata. E’ uno sguardo da lontano su un mondo che mai potrà essere rappresentato nella sua totalità. Forse era questa l’ansia di Fra’ Mauro, il monaco camaldolese che disegnò uno dei mappamondi che più amo. Forse desiderava rendere visibile e rappresentabile ciò che dentro una mappa non è visibile e rappresentabile: le singolarità, le molteplicità, le differenze che il mondo ospita di attimo in attimo. Forse per tutto questo e per altro il suo mappamondo è pieno di disegni, appunti, informazioni. Un monaco chiuso nella sua cella raccoglie le notizie che dal mondo gli arrivano – viaggiatori, confratelli che si spostano, voci sentite – e che al mondo vuole ridonare, riempiendo di dettagli lo spazio di una mappa, quasi a rompere gli argini dello spazio bidimensionale della pergamena, a oltrepassare il recinto di un Eden concluso, come un necessario esodo nel mondo, un’uscita da una mappa mentre si disegna una mappa. Fra’ Mauro sembra dire continuamente “ecco”, “questo”: mostra continuamente, in ogni punto della sua mappa, la ricchezza del mondo, sapendo che quella ricchezza non potrà mai essere mostrata nella sua interezza.
Eccola l’importanza dei dettagli, delle differenze; eccola l’importanza delle biografie e delle loro differenze. Eccola l’importanza di salvaguardare l’unicità, di non imitare, di non uniformare lo splendore dell’irriducibilità,
di ascoltare le originali voci che vengono dal luogo più lontano posto dentro di noi e di disegnarle nel mondo.

La poesia ci aiuta in questo.
Ma solo se sappiamo rispettarla.
In un post precedente ho chiesto scusa alla poesia per come la stiamo trattando, riducendola a immagine di noi e del nostro fugace momento emotivo; riducendola a prodotto da vendere per vendere il soggetto che la sta usando in questo modo egoriferito, riducendola a sbandieramento da megafono gracchiante.
Riducendola a frammenti, senza più rispettare l’intento compositivo dell’autore o dell’autrice, spesso all’insegna di ‘la poesia è di chi la legge’, frase con cui particolarmente si palesa la riduzione a oggetto e merce e possesso di testi che solo possono aleggiare nel non-possesso.
Nella raccolta “L’Allegria”, la poesia “I Fiumi” è preceduta da “In dormiveglia”, scritta dieci giorni prima:

Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratte nelle trincee
come le lumache nel loro guscio

Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
delle mie strade
ed io  l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia

La poesia che segue a “I fiumi” è “Pellegrinaggio”, scritta lo stesso 16 agosto:

In agguato
di queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
uscita dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

Non possiamo, non dobbiamo slegare frantumare distruggere disperdere i legami dei passi di un cammino composto dal Poeta. Ogni testo, ogni riga va letta e, casomai, ridata nella sua interezza.
Io sogno un ritorno a una certa segretezza della Poesia, cosa che forse ci insegnerebbe il rispetto verso l’inenarrabilità e unicità di ogni vita.
Sono in buona compagnia. Lo stesso Ungaretti così afferma nel testo “Ragioni di una poesia”: “Certo, la vera poesia si presenta innanzi tutto a noi nella sua segretezza.”
E fra’ Mauro, cos’altro voleva raccontare con quel suo riempire di note il suo mappamondo, se non l’impossibilità a narrare tutto e la necessità del non dire, l’impegno a salvaguardare dietro il detto la preziosità del non dicibile?

Se dalla poesia (dal greco poiesis= creare, fare) non ci lasciamo diventare poeti (capaci di fare, creatori), lasciamola rispettosamente al suo splendore.
Come per ogni vita che incontriamo. E coscienti che non c’è biografia che non includa mille altre biografie da mostrare ‘questo, e questo, e questo’; e che mai potremo dire tutto, e mai dovremmo.
Diventare poeta è anche diventare specialisti di una deissi che, nell’evidenziare e nel mostrare, sa dire e tacere contemporaneamente, in una danza di relazione sacra tra ciò che si vede e si percepisce e ciò che si decide di raccontare.

 

Ah je voudrais m’eteindre
comme un réverbère
a la première lueur
du matin
(G. Ungaretti, Derniers Jours)

243. “I fiumi” di G. Ungaretti, e i miei alberi, e il mappamondo di fra’ Mauro e la poesia e … insomma … Buon Anno :-)ultima modifica: 2021-01-01T21:10:52+01:00da mara.alunni