277. non-autobiografia – siamo terre incognite

AUTOBIOGRAFIA SRAGIONATA E DISARTICOLATA, VERA E INVENTATA QUANTO PIU’ POSSIBILE

La nascita e il nome

Una, cioè io, nasce nel 1957 in un piccolissimo paesino dell’Umbria, in una casa di 4 vani abitata già da 6 adulti alti e grossi: non va bene, lo voglio dire, già non va bene, così. La densità demografica era enorme, in quella casa, e non solo per numero, ma anche per stazza.
E che fa, una, cioè io?
Richiama la cicogna?
No, non può. Nasce e dice “che dio me la mandi buona”. E visto che la conoscenza del mondo si limitava, giustamente, alla tetta materna, l’ignara bambina che ero pensò subito di essere stata esaudita assaggiando il capezzolo della mamma.
Divenni dunque credente già nelle prime fasce.

Mi servì subito quella fede.
Perché, insomma, quando nasce un bimbo o una bimba in famiglia si fa festa, si fa silenzio, si canta, che si fa? No, dico, anche nell’Umbria degli anni CinquantaQuasiSessanta, un po’di contentezza ci sarà stata per una nuova nascita, no?

Pare ci sia stata, si sussurra che le scale che portavano alla camera dove stavo nascendo fossero piene di amiche della mamma, che mio padre stesse gironzolando nervoso di sotto.
E’ femmina.

Femmina.
Mia madre voleva chiamarmi Pierluigi se fossi nata maschio, Mara se fossi nata femmina.
Ora, dove avesse recuperato quel nome femminile così inusuale è cosa ancora avvolta nel mistero. Interrogata, ancora risponde di non ricordare, o che forse c’era non sa quale personaggio famoso di nome Tamara, o chissà….

Mio padre voleva chiamarmi Giuseppe se fossi nata maschio.
Con questa sola opzione: maschio.
No, non voleva assolutamente e solo un maschio,  pensava anche a una possibile figlia femmina e per il nome concordava con quello scelto da mia madre.

Così, dopo essere nata femmina, quanto prima mio padre andò a iscrivermi all’anagrafe col nome Mara.
Al suo rientro a casa, scoppiò la guerra. In casa, intendo; magari anche una guerra in qualche parte del mondo, da poter disegnare con fumetto americano stile anni cinquanta, da poter mischiare con storie di supereroi e supereroine, ché mi servirebbero già, a questo punto della mia storia, poteri soprannaturali e muscoli ipersviluppati per affrontare, bimba di pochi giorni, quello che successe nella casa di 4 vani sovraffollata da 6 adulti alti e grossi grossi e che invece mi piacerebbe ancora adesso fossero stati grandi grandi.

Beh, insomma, che ci vuole ad avere uno zio, fratello di padre, disperso in Russia durante la seconda guerra mondiale? Niente, ci vuole. E infatti ce lo mettiamo, c’era proprio questo zio disperso sul Don, uno zio bello e di salute delicata, morto in mezzo alla neve bianca e alle bufere, con ai piedi scarpe di cartone, giovane e amico del medico condotto del paese, interessato più  alle conoscenze dell’arte di Asclepio che all’attività muratoriale di famiglia.

E che ci vuole che questo zio si chiami Luigi? Ah, ancora meno di niente, uno dei nomi più diffusi in Italia.

Quindi, quando mio padre tornò dopo avermi iscritta all’anagrafe col nome Mara, a casa scoppiò la nostra familiare terza guerra mondiale, perché i nonni si infuriarono con questo nome: e che non mi avevano chiamato Luigia in ricordo dell’amato zio, e che è una vergogna, e che basta! la nonna paterna non portò più cibo a mia madre che stava a letto al piano di sopra e che mi allattava; cosicché dovette accorrere la nonna materna la quale, da un paese vicino, portò viveri alla figlia puerpera e piangente.

E musilunghi e grida da una parte e pianti e digiuni da un’altra, tutte tipiche e rituali cose da fare per salutare una nuova vita venuta al mondo e per mettere le basi di quella ferrea autostima che mi contraddistingue, visibile dall’esterno in modo particolare dal filo di voce con cui chiedo la ricotta di manciano all’addetto al bancone gastronomia della coop, o anche dall’intercalare mio più tipico, cioè “scusi”, anzi “scs”.

Ripartì il mio babbo bello come il sole e tre attori messi insieme, tornò in Comune, chiese di cambiare nome e scoprì che per tale operazione avrebbe dovuto lavorare circa mila anni di seguito comprese le domeniche, tanto all’epoca era costosa. “Ma faccia così”, gli disse l’impiegato addetto “aggiunga il nome, senza virgola tra i due nomi e poi la chiamerete come volete ‘sta fijarella.” E così fu fatto. Mara Luigia.

E fu Luigia.
Tornò la pace in famiglia e il cibo per mia madre.

Beh, però, insomma, che ci vuole ad avere anche un prete anticomunista e antirussia in un paesino umbro degli anni CinquantaQuasiSessanta? Niente ci vuole. E infatti c’era e ce lo mettiamo. Perché quando fui battezzata in chiesa don Giuseppe fece storie col nome Mara, secondo lui insidioso e ateo nome russo e, determinato, scrisse sul registro dei battesimi “Maria Luigia”. Mio padre, all’epoca ancora di fede comunista, non ci vide più. I dettagli di quei momenti non mi sono mai stati raccontati, ma in adulte escursioni dentro quei registroni dalla copertina scura, ho letto, nello spazio che accoglie i dati del mio battesimo, il nome “Maria” con la “i” cancellata da una croce e fui “Mara Luigia” anche per la santa romana chiesa. Don Giuseppe morì che ero piccola, così non potei raccontargli che Mara è un nome che sta nella bibbia, e significa “signora triste” ed è il nome che Noemi si scelse in un periodo di grande sofferenza per lei. Perché  Noemi significa “signora della gioia” e io, col mio maratriste mi commuovo un po’ a sentire “signora della gioia” e poi perché mara è anche uno dei nomi della terribile e meravigliosa dea kali e mi io ricommuovo, col mio marascs, di fronte a tanta potenza femminile e poi perché…..

Perché, insomma, io con questi due nomi ne ho fatta di strada, anzi di studi, per sopravvivere ad essi.
Ora, non è che io abbia nulla contro “Luigia”, anzi è un nome importante, anzi portato da regine; e conosco luigie belle e affascinanti e sagge, però non me lo sento mio, e cominciai a non sentirmelo mio molto presto.
Così, a sei anni, cominciai a chiedere di essere chiamata “Mara”. Non che fosse migliore, più bello più fine di per sé, ma a me sembrava un po’ meno locale dell’altro.
A scuola le maestre mi accontentarono subito, i parenti nel tempo.

Da adolescente mi presentavo chiedendo “scusa”, anzi “scs” per questi due nomi che non c’azzeccano niente tra loro, mica sono come MariaRosa, GianMaria, GianLuca, MariaPia o MariaGiovanna , ché a volte mi chiedevo se dongiuseppe non si fosse impuntato per il mio meglio, lui uomo istruito e di mondo, a voler mettere quella classica maria prima di luigia, così da collocarmi in una tranquilla normalità.

Tale era il mio disagio, che intanto m’ero fatta l’idea che “l’uomodellamiavita” avrebbe trovato una sintesi tra i due nomi: intanto che in ogni ufficio dove andassi scrivevano MariaLuigia, e io “no,scs, Mara”, e loro “ah mi scusi”; intanto che ogni lettera arrivava indirizzata alla MariaLuigia; intanto che volevo essere chiamata Luigi per un breve periodo dell’adolescenza, ma nessuno mi ascoltò; intanto che m’ero fatta una cultura sul “nome”, da Adamo che dà nomi alle cose fino a “sostantivo, femminile/maschile, singolare/plurale” e a “identità”; intanto che i nomi delle cose mi entravano in bocca come soffi e poi scivolavano sulla lingua gustosi ed eccitanti e poi li mangiavo ghiotta e ingorda, incantata dal fatto che ogni cosa ha un nome; intanto che le parole iniziavano a sostituire  pian piano le cose la vita; intanto che buona parte di parenti e conoscenti ormai mi chiamavano Mara, tranne mio padre, mia madre e mia sorella.

Intanto che arrivò Lui; intanto che io, da Illuminata, lo decretai l’uomodellamiavita, così da giustificare il prepotente incidente ormonale che occorse alla mia giovinezza, e che altre ragazze – Carla, Maria, Lucia, Antonietta, Luigia, Maria, Roberta e chi pìù ne ha più ne metta, anche quelle coi nomi doppi- seppero vivere naturalmente e sorridendo, diversamente da me che, per farmi un insano primo bacio e un insano primo rapporto sessuale, mi dovetti innamorare illanguidire pensare che fosse per sempre, sennò col cavolo sarei riuscita a farmi un po’ di sano sesso, libero dalle pastoie ecclesiastiche di verginale educazione cattolica pseudocristiana, usate sulle masse di giovincelle dell’epoca come prevenzione anticoncezionale e creazione di una immagine di sé che poi sarebbe diventata ottimo nutrimento di psicologi e affini.
Lui arrivò, lui, che non mi chiamò mai per nome. Ne inventava anche di carini, nomignoli amorosi, ma il mio nome mai.

La sintesi la fece un amico, compagno di ogni scuola  del da me eletto UomoDellaMiaVita. Durante un pomeriggio romano, a casa mia, parlottando tra un tè e una fetta di torta, gli raccontai del mio nome e del mio desiderio di sintesi,  perché scs, non volevo offendere nessuno dei miei due nomi, né tantomeno le intenzioni di chi me li aveva affibbiati, scs, scs.
E fu Malù. Il brindisi al tè fu oscurato solo per un attimo dal fatto che esistesse una pornostar con quel nome, ma io, senza scs, affermai decisa “Non temo confronti. E nemmeno concorrenti”.
Uscì poco dopo la coppa Malù, a conferma di quella che tutti dicevano essere una mia caratteristica, cioè la dolcezza, a cui io antepongo sempre “una certa”, giusto per evitare identificazioni gustose al palato di chi intende dolcezza e sensibilità come debolezza. E ce ne sono, eh. Specialmente tra i corteggiatori narcisisti che vogliono nutrire con questa dolcezza le loro amarezze senza fondo. Ah, se ce ne sono!

Poi, in età più adulta, fu il periodo di Gaia. Ci fu chi non ebbe problemi a chiamarmi subito così, secondo il mio desiderio. A volte, questa facilità a seguire il tuo desiderio, può essere un bel segno per capire chi ti ama o no. Anche quella volta fu così.

E poi amai essere chiamata a seconda del momento e della fantasia di chi mi stava chiamando: il mio nome come esito dell’incontro dell’altro-a con me, secondo il suo sentire e la sua fantasia (un po’ come quando si fa l’amore e ti escono le più variegate parole 🙂 ) Bello, bellissimo, sentire “chiamati fuori dall’altro-a” aspetti che nemmeno immagini avere. Anche quello è amore.
Normalmente, gli altri ti chiamano attenendosi al documento istituzionale  che ti identifica ufficialmente: il nome come controllo doganale e non come un sentire-un abbraccio – un incontro di desideri.

E poi … fate come vi pare.
Cercai da me il mio nome. Superando la nostalgia mai dichiarata per quel “Noemi-Signora della Gioia”, per quel significato lucente; superando la ricerca -dopo averlo trovato e poi dimenticato e perso- di un significato splendido del nome Mara come nome di una divinità onorata presso una popolazione africana.
E quando firmo scrivendo quelle lettere e quelle sillabe che mi radicano genealogicamente e illudono di descrivermi, tra me e me sussurro il mio nome, quello che mi sono data, quello che nessuno sbranerà o fraintenderà o cancellerà. Il mio segreto, la scoperta che esiste-e-non-esiste l’amore, dipende da come ti chiama la bocca che baci, il cuore di cui hai fiducia.

Il mio nome.

E’ per il peso che sento; è per l’allegria che sento; è per la mia voce ché voglio che esista; è per il mio corpo che cambia e che vive; è per la leggerezza che mi sostiene; è per i meravigliosi pronomi relativi che non mi stanco di usare e mi dispiace se appesantiscono la frase, ma la mia lingua ne ha bisogno e ne ha bisogno la mia vita, perché i pronomi relativi creano relazione –toh!- avvicinano lo spazio il tempo le persone, a seconda di dove li metti; e loro non si confondono, continuano a fare relazioni, instancabili strumenti linguistici così vicini alla biologia; è per la “e”, così inclusiva e accogliente, così curiosa da unire all’infinito, così democratica da creare paratassi senza tregua, senza subordinazioni, per la meravigliosa “e”, anch’essa linguisticamente biologica; è per le mie cellule silenziose; è perché vengo creata ogni attimo ed è meraviglioso che io sia un continuo atto di creazione, è per il mio cuore che vorrei tornasse ad amare….e per mille altri ‘perché’ che non so dire, o che non voglio raccontare…per questo scrivo…in questa primavera senza tempo, tra  le ombre ancora trasparenti di maggio; nel periodo germinativo e fertile; in mezzo ai pollini e agli odori carichi della notte; in mezzo a un buio dove a volte mi metto per sentirmi abbracciata; nella mia pancia dove per brevi attimi riesco a immaginare di entrare, feto di me stessa, e mi nutro di silenzio e carezze, così cresco di nuovo e stavolta come voglio io, cioè senza ombre di dubbio sull’essere amata, in totale certezza di totale incommensurabile accoglienza; nella luce bianca della luna e del gelsomino, e nell’odore trasparente della pioggia notturna, sottile e potente e comunque stellata…

E per quegli amori che pensavano di amarmi, che mi hanno chiamata per dominare, o che non mi hanno chiamata per niente: a quelle persone vanno le mie carezze, nonostante …
Siamo esseri in cammino, meglio non fermarsi all’errore; meglio lasciare, a  chi si vuole fermare, i nomi che limitano e non nominano, non creano, non fanno relazione.
Lascio a loro silenzi e carezze, che sono altri miei modi di chiamare e di nominare senza dominare.

Il mio nome.

E’ per le mani pro-tese, ancora, nonostante tutto.

Siamo terre incognite. Anche a noi stessi-e. Ogni attimo da scoprire. Da ri-nominare. O da tacere. Immersi, comunque, nella meraviglia della scoperta.

(sempre da un vecchio blog, con piccoli ritocchi)

https://terraincognita.earth/mappe-antiche/

images

https://it.wikipedia.org/wiki/Etimologia_del_nome_Italia

https://www.linkiesta.it/2015/01/da-dove-viene-il-nome-italia-la-parola-alla-crusca/

 

277. non-autobiografia – siamo terre incogniteultima modifica: 2021-05-20T11:36:26+02:00da mara.alunni