“Ma non sei stanca di potare le rose?”, esordì sfrontato malgrado sapesse che quella era la mia vita e non me ne sarei dissociata per sentirmi meno inadeguata ai suoi occhi.
“E come potrei? Guardale nella loro compiutezza e poi dimmi se le tue avventure mirabolanti non fanno di te un B-movie al cospetto dell’epicità di una rosa”.
Gli parlavo così, aulicamente e per dispetto, con malcelata ironia. Non era tipo da accettare il proprio nome in calce a una pagina ma io sì, e coltivare rose non era un pensarsi insufficienti come credeva. Tuttavia lo amavo di un amore che necessità dell’alterità per sentirsi vivo, e si inventa la felicità.
“Stasera potrei apparecchiare con un bel mazzo di rose…”.
“L’esteta sei tu ma non usare quelle gialle, mi ricordano il giardino di mia madre“.
Andrea non aveva ancora preso il diploma di funambolo degli affetti per cui, sgraziato come un adolescente alle prime grandi manovre del cuore, scegliendo me aveva escluso la madre per vecchie ruggini che uno strizzacervelli avrebbe liquidato come acidi mal secreti dal cervello e ora, con animo votato all’assolutezza, misurava il mondo separandolo in categorie che poggiavano sulla logica degli opposti, bianco o nero, sole oppure neve come se l’armonia dell’eterogeneità gli fosse stata preclusa per decreto.
Ora, che i ricordi si colorino di rimpianto o malinconia e perché no, anche di amarezza, a me importa poco; ciò che conta è la pluralità delle emozioni e se parti infinitesimali del mio cuore si sono sedimentate negli interstizi del tempo deflagrando nell’insensatezza delle scelte, io so che la grammatica del cuore è un atto di fede contro l’illecita ingerenza della memoria.