La fotografia di Albertine

Finalmente, avevo trovato la fotografia. “È sicuramente meravigliosa”, continuava a dire il mio amico, non accorgendosi che gli porgevo la fotografia. A un tratto la vide, la tenne un istante fra le mani. Il suo volto esprimeva una stupefazione che giungeva sino alla stupidità. “È questa, la fanciulla che ami?” finì col dirmi, in un tono nel quale lo stupore era tenuto a freno dal timore di irritarmi. Non fece alcuna osservazione, aveva assunto l’atteggiamento ragionevole, prudente, per forza di cose un po’ sdegnoso che si tiene al cospetto d’un malato il quale – quand’anche fosse stato fino allora un uomo notevole e amico vostro – ormai non è più niente di tutto questo, dal momento che, còlto da pazzia furiosa, vi parla d’un essere celeste che gli è apparso, e continua a vederlo nel punto in cui voi, uomo sano, non scorgete che un piumino. Mi resi immediatamente conto dello stupore di Robert, e che era lo stesso in cui m’aveva gettato la vista della sua amante, con questa sola differenza: io avevo trovato in lei una donna che conoscevo già, lui credeva di non aver mai visto Albertine. Ma la differenza tra ciò che vedevamo, l’uno e l’altro, d’una stessa persona, era probabilmente altrettanto grande. Era ben lontano il tempo in cui, a Balbec, avevo cominciato appena appena, quando guardavo Albertine, ad aggiungere alle sensazioni visive  delle sensazioni di sapore, d’odore, di tatto. Da allora, vi si erano aggiunte delle sensazioni più profonde, più dolci, più indefinibili, poi delle sensazioni dolorose. In breve, Albertine non era – come una pietra attorno alla quale sia caduta la neve – che il centro generatore di un’immensa costruzione che intersecava il piano del mio cuore. Robert, al quale tutta questa stratificazione di sensazioni rimaneva invisibile, non coglieva che un residuo ch’essa, al contrario, mi impediva di scorgere. A sconcertare Robert, quando aveva visto la fotografia di Albertine, non era stata l’emozione dei vecchi troiani che vedono passare Elena e dicono:

Notre mal ne vaut pas un seul de ses regards

ma quella, esattamente inversa, che fa dire: “Ma come, è per questo che si è tanto roso, ha tanto sofferto, ha fatto tante follie!”.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il fondo del mio amore

Così, quando il portinaio di Albertine mi rispose che era andata in Touraine, questa residenza che avevo ritenuta preferibile mi parve la più terribile di tutte, perché era reale, e per la prima volta, torturato dalla certezza del presente e dall’incertezza del futuro, mi rappresentavo Albertine in atto di cominciare una vita che aveva voluto separata da me, forse per molto tempo, forse per sempre, e nella quale avrebbe realizzato quell’ignoto che così spesso, allora – quando avevo però la fortuna di possedere, di accarezzare ciò che ne costituiva l’esterno, quel dolce viso impenetrabile e captato -, m’aveva turbato. Era quell’ignoto a formare il fondo del mio amore.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

È questo, l’amore: lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore

Ah, la sedicente curiosità estetica meriterebbe piuttosto d’esser chiamata indifferenza in confronto alla curiosità dolorosa, instancabile ch’io provavo per i luoghi in cui Albertine aveva vissuto, per ciò che aveva potuto fare quella certa sera, per i sorrisi, gli sguardi che aveva attirati, le parole che aveva dette, i baci che aveva ricevuti! No, la gelosia che avevo avuta un giorno per Saint-Loup non mi avrebbe certo dato, se mai fosse durata, questa immensa inquietudine. Quell’amore fra donne era qualcosa di troppo ignoto, di cui nulla mi permetteva d’immaginare – immaginare con certezza, con precisione – i piaceri, la qualità. Quante persone, quanti luoghi (anche luoghi che non la concernevano direttamente, vaghi luoghi di piacere dove lei avrebbe potuto gustarne, luoghi dove c’è molta gente, dove gli altri ti sfiorano) Albertine era riuscita – come chi, facendo passare davanti a sé, al controllo, il proprio seguito, fa entrare in teatro tutta una compagnia – a introdurre dalla soglia della mia immaginazione o del mio ricordo, dove non mi importava nulla di loro, sin dentro il mio cuore! Adesso, la conoscenza che ne avevo era interna, immediata, spasmodica, dolorosa. È questo, l’amore: lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori