Non ci sono belle prigioni

D’altronde, il sequestro di Albertine, che lei stessa faceva così ingegnosamente il possibile per rendere assoluto, togliendomi la sofferenza mi tolse, a poco a poco, anche il sospetto, e potei ricominciare, quando la sera riattizzava le mie ansie, a trovare nella presenza di Albertine l’acquietamento dei primi giorni. Seduta accanto al mio letto, mi parlava d’uno di quegli abiti o di quegli oggetti che le regalavo di continuo nel tentativo di rendere più dolce la sua vita e più bella la sua prigione, non senza temere a volte che la mia amica condividesse il parere di quella Madame de La Rochefoucauld la quale, a chi le chiedeva se non fosse contenta di abitare in una così bella dimora come Liancourt, rispose di non conoscere belle prigioni*.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

A pronunciare questa frase non fu una Mme de La Rochefoucauld, bensì Anne-Élisabeth de Lannoy, che aveva sposato nel 1643 Henry du Plessis-Liancourt conte di La Rocheguyon. Tallément des Réaux racconta che il loro matrimonio, oltre che breve (il conte morì due anni dopo in guerra) fu infelice, perché lo sposo, piccolo ma bello, era entrato a far parte della “setta” libertina” e “garçaillière” del Gran Condé (sulle cui tendenze ci informerà Charlus),  e trascurava un po’ troppo la moglie. Un giorno, questa fu sorpresa mentre leggeva una lettera, che subito ingoiò, e da allora – racconta sempre Tallément – fu attentamente sorvegliata. Così “quando qualcuno le disse che doveva essere proprio contenta di trascorrere l’estate in un luogo bello come Liancourt, ella rispose che non esistono belle prigioni”. Il castello di Liancourt, oggi completamente distrutto, sorgeva nella cittadina omonima, a 8 km da Clermont e non lontano da Campiègne, a nord di Parigi. Era circondato da splendidi giardini. L’errore di Proust (La Rochefoucauld invece di La Rocheguyon) deriva dal fatto che nel 1679 (oltre vent’anni dopo la morte della seicentesca prigioniera) il titolo di duca di La Rocheguyon fu acquisito dalla famiglia del celebre autore delle Maximes.

60 LIANCOURT. Château Latour

Françoise e la “ciarlatanessa”

E questa vita, che chiunque avesse conosciuto i miei sospetti e la schiavitù di Albertine avrebbe giudicata crudele per entrambi, dal di fuori, per Françoise, passava per una vita di immeritati piaceri che quella “seduttrice” – o, come diceva Françoise la quale, essendo più gelosa delle donne, usava assai più spesso questa deformazione femminile che non la forma maschile, quella “ciarlatanessa” – riusciva abilmente a farsi elargire. Siccome, stando con me, aveva arricchito il proprio vocabolario di termini nuovi, ma adattandoli a modo suo, Françoise diceva anche, parlando di Albertine, di non aver mai conosciuto una persona d’una tale “perfidità”, capace di “spillarmi quattrini” recitando così bene la commedia (cosa che Françoise, portata a prendere il particolare per il generale quanto il generale per il particolare, e in possesso di idee abbastanza vaghe sulla distinzione dei generi nell’arte drammatica, chiamava “recitare la pantomima”).

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Bluff d’amore

Come i generali convinti che una finta, per riuscire ad ingannare il nemico, dev’essere portata sino in fondo, avevo dispiegato nella mia manovra le stesse forze di sensibilità, press’a poco, che se fosse stata vera. Quella scena di separazione fittizia finiva con l’infliggermi quasi la stessa sofferenza che se fosse stata reale, forse perché uno dei due attori, Albertine, credendola tale, rafforzava nell’altro l’illusione. Era, il nostro, un vivere alla giornata che, sebbene penoso, risultava pur sempre sopportabile, ancorato al terra-terra dalla zavorra dell’abitudine e dalla certezza che l’indomani, per quanto crudele, conterrà la presenza dell’essere a cui si tiene. E questa pesante vita ecco che io, follemente, la distruggevo per intero. Non la distruggevo, è vero, che in modo fittizio, ma questo era sufficiente ad affliggermi; forse perché le parole tristi che si pronunciano, anche mentendo, portano in sé la loro tristezza e ce la iniettano profondamente; forse perché si sa che simulando degli addii si evoca anticipatamente un’ora che poi fatalmente giungerà; e non si è del tutto sicuri poi di non aver scatenato il meccanismo che la farà rintoccare. In ogni bluff c’è, per quanto piccola, una parte d’incertezza riguardo a quel che farà la persona ingannata.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori