Il fascino immateriale e intimo delle nostre ombre

Per qualche momento le detti persino il braccio, e mi sembrava che l’anello che il suo braccio formava sotto il mio unisse in un solo essere le nostre due persone e saldasse l’uno all’altro i nostri due destini. Ai nostri piedi, le nostre ombre parallele, poi ravvicinate e congiunte, creavano un disegno incantevole. Mi sembrava già meraviglioso, certo, quando eravamo a casa, che Albertine abitasse con me, che fosse lei a stendersi sul mio letto. Ma che, davanti al lago del Bois che tanto amavo, ai piedi degli alberi, fosse proprio la sua ombra, l’ombra pura e semplificata della sua gamba, del suo busto, quella che toccò al sole di dipingere a inchiostro a fianco della mia sulla sabbia del viale, ne costituiva una sorta d’esportazione all’esterno, in piena natura. E assaporavo un fascino più immateriale, sì, ma non meno intimo che nell’avvicinamento, nella fusione dei nostri corpi, in quella delle nostre ombre.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Imprigionando Albertine

Proprio perché l’avevo vista come un uccello misterioso, poi come una grande attrice della spiaggia, desiderata, forse ottenuta, Albertine mi era parsa meravigliosa. Una volta ridotto in cattività, nella mia casa, l’uccello che una sera avevo visto avanzare a passi misurati lungo la diga, circondato dalla congregazione delle altre fanciulle che sembravano tanti gabbiani venuti chissà da dove, Albertine aveva perduto tutti i suoi colori, via via che gli altri perdevano ogni speranza di possesso su di lei. A poco a poco, aveva perduto la sua bellezza. Ci volevano passeggiate come questa, nel corso delle quali la immaginavo abbordata, in mia assenza, da qualche donna o da qualche giovanotto, perché io la rivedessi nello splendore della spiaggia, anche se la mia gelosia era su un altro piano rispetto al declino dei piaceri della immaginazione. Ma a dispetto di questi bruschi soprassalti per cui, desiderandola altri, ridiventava bella ai miei occhi, potevo benissimo dividere la sua convivenza con me in due periodi: il primo durante il quale era ancora, sebbene ogni giorno di meno, l’inafferrabile attrice della spiaggia; il secondo in cui, trasformata in grigia prigioniera, ridotta al suo smorto se-stessa, le occorrevano di questi lampi, che mi restituivano il ricordo del passato, per recuperare un po’ di colori.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Più padrone, vale a dire più schiavo

I vestiti che le compravo, lo yacht di cui le avevo parlato, le vestaglie di Fortuny, tutte queste cose che trovavano nell’obbedienza di Albertine, non già un compenso, ma un complemento, mi apparivano come altrettanti privilegi da esercitare; i doveri e gli obblighi d’un padrone fanno parte, infatti, del suo potere, e lo definiscono, lo comprovano, non meno dei suoi diritti. E i diritti che Albertine mi riconosceva conferivano per l’appunto ai miei obblighi il loro vero carattere: avevo una donna mia, una donna che, al primo messaggio da me inviatole senza alcun preavviso, mi faceva telefonare con deferenza che tornava, che si lasciava riportare a casa, immediatamente. Ero più padrone di quanto non avessi creduto. Più padrone, vale a dire più schiavo. Non provavo più la minima impazienza di vedere Albertine. La certezza che era in giro per acquisti con Françoise, che sarebbe tornata, assieme a Françoise, in un momento prossimo che avrei volentieri prorogato, illuminava come un astro radioso e tranquillo un tempo che avrei di gran lunga preferito, adesso, trascorrere da solo. Il mio amore per Albertine aveva fatto sì che mi alzassi e mi preparassi per uscire, ma mi avrebbe impedito di godere della mia uscita. Pensavo che, in una domenica come quella, i viali del Bois dovevano pullulare di giovani operaie, di sartine, di cocottes. E con quelle parole, “sartine”, “giovani operaie” (come mi era successo parecchie altre volte con un nome proprio, un nome di fanciulla letto nella cronaca di un ballo), con l’immagine d’una camicetta bianca, d’una gonna corta, mi fabbricavo da solo – perché dietro ci mettevo una persona sconosciuta e che avrebbe potuto amarmi – delle donne desiderabili, e mi dicevo: “Sì, devono essere una meraviglia!”. Ma a cosa mi sarebbe servito che lo fossero, dal momento che non sarei uscito da solo?

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori