Il riposo del cervello o quello del cuore?

Uscita Albertine, sentii quale fatica fosse per me quella presenza perpetua, insaziabile di moto e di vita, che turbava il mio sonno con i suoi movimenti, mi faceva vivere in uno stato di perpetua infreddatura a causa delle porte che lasciava aperte, mi costringeva – per trovare pretesti che mi consentissero di non accompagnarla senza tuttavia apparire troppo malato e, d’altra parte, di farla accompagnare – a dispiegare giorno dopo giorno un’ingegnosità superiore a quella di Shahrazàd. Purtroppo, se con una non diversa ingegnosità la narratrice persiana ritardava la propria morte, io affrettavo la mia. Ci sono nella vita certe situazioni che non sono tutte, come questa, create dalla gelosia amorosa e da una salute precaria che non permette di condividere la vita d’un essere giovane e attivo, ma nelle quali il problema di continuare la vita in comune o di tornare alla vita separata d’un tempo si pone comunque come un problema quasi medico: a quale delle due specie di riposo bisogna sacrificarsi (perseverando nel quotidiano eccesso di fatica o tornando alle angosce dell’assenza) – a quello del cervello o a quello del cuore?

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

L’intimità segreta d’un puro amore

Il suo sonno non era che una sorta di cancellazione del resto della vita, un silenzio uniforme da cui spiccavano di tanto in tanto in volo parole familiari di tenerezza. Avvicinandole l’una all’altra, si sarebbe composta la conversazione incorrotta, l’intimità segreta d’un puro amore.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Nella prematura sera della mia vita

Non era più la calma del bacio di mia madre a Combray ciò che provavo in quelle sere accanto ad Albertine, ma, al contrario, l’angoscia di quando mia madre mi diceva a malapena buonasera o, addirittura, non saliva affatto in camera mia, perché era arrabbiata con me o perché qualche ospite la tratteneva. Quell’angoscia – non la sua trasposizione nell’amore – no, proprio quella stessa angoscia, che un tempo s’era specializzata nell’amore e che, una volta operatasi la spartizione, la divisione delle passioni, gli era stata assegnata in modo esclusivo, adesso sembrava nuovamente estesa a tutte, ridiventata indivisa com’era nell’infanzia, quasi che tutti i miei sentimenti, tremando di non poter trattenere Albertine accanto al mio letto come un’amante e al tempo stesso come una sorella, come una figlia, finanche come una madre della cui buonanotte quotidiana ricominciavo a provare il puerile bisogno, avessero preso ad assomigliarsi , a unificarsi nella prematura sera della mia vita, che sembrava dover essere non meno breve d’un giorno d’inverno. Ma, pur provando la stessa angoscia della mia infanzia, il mutamento dell’essere per il quale la provavo, la diversità del sentimento ch’esso mi ispirava, la trasformazione stessa del mio carattere mi rendevano impossibile pretenderne la pacificazione da Albertine come allora da mia madre. Non ero più capace di dire: “Sono triste”. Mi limitavo, con la morte nel cuore, a parlare di cose indifferenti che non mi facevano fare il minimo progresso verso una soluzione felice. Mi trascinavo in banalità dolorose. E con l’egoismo intellettuale in virtù del quale, per poco che un’insignificante verità si riferisca in qualche modo al nostro amore, tributiamo i massimi onori a chi l’ha scoperta – non  meno fortuitamente, magari, della cartomante che ci annuncia un fatto banale destinato però, in seguito, a realizzarsi -, io non ero lontano dal ritenere Françoise superiore a Bergotte e ad Elstir  solo perché, a Balbec, mi aveva detto: “Da quella ragazza lì, non avrete che dispiaceri”.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori