L’immagine di quell’essere diminuisce sino a farsi non più percepibile

Come, per tutto il corso della nostra vita, il nostro egoismo vede di continuo davanti a sé i traguardi cari al nostro io, ma non guarda mai quel medesimo Io che non smette di contemplarli, così il desiderio che dirige gli atti discende verso di loro, ma non risale a se stesso, sia che, troppo utilitario, si getti nell’azione e disdegni la conoscenza, sia ricerca dell’avvenire per correggere le delusioni del presente, sia infine perché la pigrizia della mente la spinge a scivolare lungo il facile pendio dell’immaginazione anziché  a risalire il pendio dirupato dell’introspezione. In realtà, durante queste ore di crisi in cui ci giocheremmo tutta la vita, man mano che l’essere da cui essa dipende rivela meglio l’immensità dello spazio che occupa per noi, non lasciando in tutto il mondo niente che non ne sia sconvolto, proporzionalmente l’immagine di quell’essere diminuisce sino a farsi non più percepibile. In tutte le cose troviamo, tramite la nostra emozione, l’effetto della sua presenza; lui stesso, la causa, non lo troviamo da nessuna parte. Fui, in quei giorni, talmente incapace di rappresentarmi Albertine, che avrei quasi potuto credere di non amarla, così come mia madre, nei momenti di disperazione durante i quali fu incapace di rappresentarsi la nonna (tranne una volta nell’incontro fortuito d’un sogno di cui, sebbene addormentata, sentì a tal punto il valore che si sforzò, con quante energie le restavano nel sonno, di farlo durare), avrebbe potuto accusarsi e in effetti s’accusava di non rimpiangere sua madre la cui morte la uccideva, ma i cui lineamenti sfuggivano al suo ricordo.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Gli anelli di Albertine

Rifacendo la camera di Albertine, Françoise, curiosa, aprì il cassetto d’un tavolino in bois de rose dove la mia amica metteva gli oggetti intimi che non teneva su di sé quando dormiva. “Oh, signore, Mademoiselle Albertine ha dimenticato di prendere i suoi anelli, sono rimasti nel cassetto”. Il mio primo impulso fu di dire: “Bisogna farglieli avere”. Ma avrebbe dato l’impressione che non fossi sicuro del suo ritorno. “Bene” risposi dopo un attimo di silenzio, “non nel val la pena, visto che sta via così poco. Dateli a me, ci penserò io”. Françoise me li consegnò con una certa diffidenza. Detestava Albertine, ma, giudicandomi sul proprio metro, immaginava di non potermi affidare una lettera scritta dalla mia amica senza temere che io l’aprissi. Presi gli anelli. “Il signore stia attento a non perderli, disse Françoise, bisogna dire che son proprio belli! Non so chi glieli ha dati, se il signore o un altro, ma è di sicuro uno ricco e che ha del gusto! – Non sono io, risposi, e poi non vengono tutti e due dalla stessa persona, uno gliel’ha regalato sua zia e l’altro l’ha comprato lei. – Non dalla stessa persona! esclamò Françoise, il signore vuole scherzare: a parte il rubino che hanno aggiunto su uno, sono uguali, c’è la stessa aquila su tutti e due, le stesse iniziali all’interno”. Non so se Françoise sentisse quanto male mi faceva, ma cominciò ad abbozzare un sorriso che non lasciò più le sue labbra. “Come, la stessa aquila? Siete pazza. Sì, su quello senza rubino c’è un’aquila, ma sull’altro è cesellata una specie di testa d’uomo. – Una testa d’uomo? Dove ce la vede il signore? Mi sono bastati i miei occhialetti per vedere subito che era una delle ali dell’aquila; se il signore prende la sua lente, vedrà l’altra ala sull’altro lato, la testa e il becco in mezzo. Si vedono le piume una per una. Ah! è proprio un bel lavoro”. Il bisogno ansioso di sapere se Albertine mi aveva mentito mi fece dimenticare che avrei dovuto conservare un po’ di dignità di fronte a Françoise e rifiutarle il piacere malvagio che provava, se non nel torturare me, perlomeno nel nuocere alla mia amica. Mi mancava il respiro mentre Françoise andava a prendermi la lente, la presi, chiesi a Françoise di farmi vedere l’aquila sull’anello col rubino; non ebbe difficoltà a farmi riconoscere le ali, stilizzate nello stesso modo che sull’altro anello, il rilievo di ciascuna piuma, la testa. Mi fece anche notare delle iscrizioni simili, alle quali, tuttavia, sull’anello col rubino se n’erano aggiunte altre. E, all’interno di entrambi, le iniziali di Albertine. “Mi fa specie che il signore abbia avuto bisogno di tanto per vedere che era lo stesso anello, disse Françoise. Anche a non guardarli da vicino si intuisce la stessa mano, lo stesso modo di lavorare l’oro, la stessa forma. Solo a dargli un’occhiata avrei giurato che avevano la stessa provenienza. Si riconosce come la cucina d’una buona cuoca”. E, in effetti, alla sua curiosità di domestica, attizzata dall’odio e abituata a notare particolari con una precisione spaventosa, s’era aggiunto, a guidarla in questa expertise, il suo buongusto, lo stesso che dimostrava in cucina e che nel suo modo di vestire era forse ravvivato – me n’ero accorto il giorno della partenza per Balbec – dalla sua civetteria di donna che è stata bella, che ha guardato i gioielli e i vestiti delle altre. Se, rendendomi conto d’aver bevuto troppe tazze di tè, avessi confuso le scatole delle medicine e invece di prendere qualche compressa di veronal ne avessi prese altrettante di caffeina, il mio cuore non avrebbe potuto battere con più violenza. Chiesi a Françoise di uscire dalla camera. Avrei voluto vedere immediatamente Albertine. All’orrore per la sua menzogna, alla gelosia dell’ignoto, s’aggiungeva il dolore che si fosse lasciata fare dei regali. È vero che io gliene facevo di più, ma una donna che manteniamo non ci sembra una mantenuta finché non sappiamo che anche altri la mantengono. E d’altra parte, poiché non avevo mai smesso di spendere per lei tanto denaro, l’avevo presa malgrado questa bassezza morale; gliel’avevo lasciata, questa bassezza, e forse l’avevo accresciuta, forse creata. Poi, siccome abbiamo il dono di inventarci delle storie per cullare il nostro dolore, siccome arriviamo, quando moriamo di fame, a persuaderci che uno sconosciuto sta per lasciarci una fortuna di cento milioni, immaginai Albertine fra le mie braccia che mi spiegava in una parola come fosse per la somiglianza della fattura che aveva comprato l’altro anello, come fosse stata lei a fargli mettere le sue iniziali. Ma la spiegazione era ancora fragile, ancora non aveva avuto il tempo di affondare nella mia mente le sue benefiche radici, e il mio dolore non poteva essere lenito così in fretta. E riflettevo che tanti uomini, mentre parlano con gli altri della bontà della loro amante, patiscono le stesse torture. Così facendo, mentono agli altri e a se stessi. Ma non mentono del tutto; con quella donna passano veramente delle ore di dolcezza; ma quelle bontà che esse hanno per loro davanti agli amici e consentono loro di vantarsi, o che hanno con loro in privato e consentono loro di benedirle, quante ore nascondono durante le quali l’amante ha sofferto, dubitato, fatto ovunque vane ricerche per sapere la verità! A sofferenze siffatte è legata la dolcezza d’amare, di estasiarsi ai più insignificanti discorsi d’una donna, che sappiamo insignificanti ma nei quali mettiamo il suo profumo. In quel momento, non potevo più deliziarmi di respirare nel ricordo quello di Albertine. Prostrato, con i due anelli in mano, guardavo quell’aquila spietata il cui becco mi attanagliava il cuore, le cui ali dalle piume in rilievo s’eran portate via la fiducia nella mia amica, e sotto i cui artigli la mia mente ferita non poteva più sfuggire per un solo istante alle incessanti domande sullo sconosciuto di cui l’aquila sicuramente simboleggiava il nome senza tuttavia consentirmi di leggerlo,* e che lei sicuramente aveva amato un tempo e sicuramente aveva rivisto di recente, perché era stato il giorno, così dolce e familiare, della passeggiata al Bois che io avevo visto per la prima volta il secondo anello, quello in cui l’aquila dalle piume in rilievo sembrava intingere il becco nella pozza di sangue chiaro del rubino.**

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

*Per comprendere questa simbologia dell’aquila, che raggiunge qui una raffinatezza allusiva straordinaria, bisogna prima leggere la nota 3 di p. 270 di questo stesso volume. Nell’icona che sembra essere all’origine di questi riferimenti, accanto all’aquila che, com’è noto, indica il Vangelo di Giovanni, non è raffigurato questo apostolo, bensì S. Andrea, in francese André. Attraverso la contiguità con questo André, l’aquila svela quindi il nome della vera amante di Albertine, che senza dubbio le ha donato i due anelli: Andrée.

**L’aquila, cioè l’aereo, ha ucciso Agostinelli.

Si cerca di diminuire le proporzioni del proprio dolore

Da quando se n’era andata, molto spesso, se mi sembrava che non fosse possibile accorgersi che avevo pianto, suonavo per Françoise e le dicevo: “Bisognerà vedere se Mademoiselle Albertine non ha dimenticato niente. Ricordatevi di fare la sua camera, perché sia bene in ordine quando tornerà”. O semplicemente: “Proprio l’altro giorno, ma sì, proprio il giorno prima di partire, Mademoiselle Albertine mi diceva…”. Facendo intravedere a Françoise che l’assenza di Albertine sarebbe stata breve, volevo diminuire il detestabile piacere che essa le procurava; inoltre, volevo dimostrarle che non temevo di parlare di tale assenza, e fargliela apparire – al modo di certi generali che chiamano ritirata strategica e conforme ai piani previsti gli arretramenti forzati – come voluta, e come un episodio di cui tenevo momentaneamente nascosto il significato, non certo come la fine del mio rapporto con Albertine. Nominandola continuamente volevo infine far entrare, come un po’ d’aria, qualcosa di lei in quella camera dove la sua partenza aveva fatto il vuoto e io non respiravo più. E poi, si cerca di diminuire le proporzioni del proprio dolore facendolo entrare nel linguaggio parlato, fra la richiesta di un vestito e gli ordini per il pranzo.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori