Françoise e la morte di zia Léonie

Durante i quindici giorni che durò la sua ultima malattia, Françoise non la abbandonò un istante, non si spogliò mai, non permise a nessun altro di prestarle qualche cura, e non lasciò il suo corpo che quando fu sepolto. Allora ci apparve chiaro che quella sorta di timore, nel quale Françoise era vissuta, delle cattive parole, dei sospetti, delle collere di mia zia aveva sviluppato in lei un sentimento che avevamo scambiato per odio e che era invece venerazione e amore. La sua padrona vera, la padrona dalle decisioni impossibili a prevedersi, dalle astuzie difficili da eludere, dal buon cuore facile da piegare, la sua sovrana, la sua monarca misteriosa e onnipotente non c’era più. Al suo confronto, noi contavamo ben poco. Era lontano il tempo (quando avevamo cominciato a venire a Combray, per le vacanze) in cui agli occhi di Françoise, uguagliavamo in prestigio la zia. Quell’autunno, interamente assorbiti dalle formalità da sbrigare, dagli incontri con i notai e con i fattori, i miei genitori, non avendo la possibilità di fare delle gite che d’altronde il tempo non favoriva, presero l’abitudine di lasciarmi andare a passeggiare senza di loro dalla parte di Méséglise, avvolto in un grande plaid che mi proteggeva dalla pioggia e che io mi gettavo tanto più volentieri sulle spalle quanto più percepivo che il suo disegno scozzese scandalizzava Françoise, nella cui testa era impossibile inculcare l’idea che il colore dei vestiti non ha nulla a che vedere con il lutto e alla quale, per altro, il dispiacere che noi provavamo per la morte della zia era poco gradito dal momento che non avevamo offerto nessun banchetto funebre, non assumevamo un tono di voce speciale per parlare di lei e io, a volte, addirittura canterellavo. Sono sicuro che in un libro – sotto questo profilo ero anch’io come Françoise – una simile concezione del lutto, derivata dalla Chanson de Roland e dal portale di Saint-André-des-Champs, avrebbe suscitato la mia simpatia. Ma dato che Françoise mi era vicina, un demone mi spingeva a desiderare che fosse in collera, coglievo ogni pretesto per dirle che rimpiangevo mia zia perché era una buona donna, malgrado le sue fisime ridicole, ma assolutamente non perché era mia zia, che avrebbe potuto essere mia zia e risultarmi odiosa, e la sua morte non provocarmi alcuna sofferenza, tutti discorsi che in un libro mi sarebbero sembrati insulsi. Se Françoise, traboccante come un poeta d’un flusso di pensieri confusi sul dolore, sui ricordi di famiglia, si scusava allora di non saper rispondere alle mie teorie e diceva: “Non so esprimermi”, io trionfavo di quell’ammissione con un buonsenso ironico e brutale degno del dottor Percepied; e se lei aggiungeva: “Però era sempre della parentela, resta comunque il rispetto che si deve alla parentela”, io scrollavo le spalle e pensavo: “Sono troppo buono a mettermi a discutere con un’analfabeta che fa degli svarioni simili”, adottando così, per giudicare Françoise, il meschino punto di vista di quella gente di cui gli stessi che più la disprezzano nell’imparzialità della riflessione sono poi capacissimi di assumere la parte quando devono recitare in una della scene volgari della vita.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 186-187-188

D’estate, il cattivo tempo non è che un umore passeggero

In certi giorni il tempo si metteva decisamente al brutto, bisognava ritornare e stare chiusi in casa. Qua e là, in fondo alla campagna che l’oscurità e l’umidità rendevano simile al mare, delle case isolate, aggrappate al fianco di una collina immersa nell’acqua e nella notte, brillavano come piccoli battelli con le vele ripiegate, immobili al largo per tutta la notte. Ma cosa importava la pioggia, cosa importava il temporale! D’estate, il cattivo tempo non è che un umore passeggero, superficiale, del bel tempo sottostante, fisso, ben diverso dal bel tempo instabile e fluido dell’inverno, e che, al contrario, installatosi sulla terra dove si è solidificato in densi fogliami sui quali la pioggia può sgocciolare senza compromettere la resistenza della loro gioia perenne, ha issato per tutta la stagione, fin nelle strade del villaggio, sui muri delle case e dei giardini, i suoi stendardi di seta bianca o viola. Seduto nel salottino dove aspettavo leggendo l’ora del pranzo, sentivo l’acqua sgrondare dai nostri castagni, ma sapevo che l’acquazzone non faceva che ravvivare il colore delle loro foglie e che essi sarebbero rimasti là per tutta quella notte piovosa, come garanti dell’estate, ad assicurare la continuità del bel tempo; che poteva piovere quanto voleva, ma domani, sopra la staccionata bianca di Tansonville, avrebbero ondulato numerose come al solito le piccole foglie a forma di cuore; ed era senza tristezza che vedevo il pioppo di rue des Perchamps rivolgere alla bufera suppliche e saluti disperati; era senza tristezza che sentivo in fondo al giardino gli ultimi echi del tuono tubare fra i lillà.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 185-186

Quelquefois le temps était tout à fait gâté, il fallait rentrer et rester enfermé dans la maison. Çà et là au loin dans la campagne que l’obscurité et l’humidité faisaient ressembler à la mer, des maisons isolées, accrochées au flanc d’une colline plongée dans la nuit et dans l’eau, brillaient comme des petits bateaux qui ont replié leurs voiles et sont immobiles au large pour toute la nuit. Mais qu’importait la pluie, qu’importait l’orage ! L’été, le mauvais temps n’est qu’une humeur passagère, superficielle, du beau temps sous-jacent et fixe, bien différent du beau temps instable et fluide de l’hiver et qui, au contraire, installé sur la terre où il s’est solidifié en denses feuillages sur lesquels la pluie peut s’égoutter sans compromettre la résistance de leur permanente joie, a hissé pour toute la saison, jusque dans les rues du village, aux murs des maisons et des jardins, ses pavillons de soie violette ou blanche. Assis dans le petit salon, où j’attendais l’heure du dîner en lisant, j’entendais l’eau dégoutter de nos marronniers, mais je savais que l’averse ne faisait que vernir leurs feuilles et qu’ils promettaient de demeurer là, comme des gages de l’été, toute la nuit pluvieuse, à assurer la continuité du beau temps ; qu’il avait beau pleuvoir, demain, au-dessus de la barrière blanche de Tansonville, onduleraient, aussi nombreuses, de petites feuilles en forme de cœur ; et c’est sans tristesse que j’apercevais le peuplier de la rue des Perchamps adresser à l’orage des supplications et des salutations désespérées ; c’est sans tristesse que j’entendais au fond du jardin les derniers roulements du tonnerre roucouler dans les lilas.

La pioggia a Roussainville

Poiché la passeggiata dalla parte di Méséglise era la meno lunga delle due che facevamo intorno a Combray, e la si riservava per questo motivo alle giornate di tempo incerto, dalla parte di Méséglise il clima era piuttosto piovoso e noi non perdevamo mai di vista il limitare dei boschi di Roussainville, nel cui folto avremmo potuto metterci al riparo.

Spesso il sole si nascondeva dietro una nuvola di cui indorava i bordi e che deformava il suo ovale. Il fulgore, ma non la luce, scompariva dalla campagna dove ogni vita sembrava sospesa, mentre il piccolo villaggio di Roussainville scolpiva nel cielo il rilievo dei suoi spigoli bianchi con una precisione e una finitezza insopportabili. Un po’ di vento faceva alzare in volo un corvo che tornava a planare in lontananza, e contro il cielo biancastro il lontano profilo dei boschi appariva più azzurro, come nelle decorazioni a chiaroscuro di certi trumeaux in qualche antica dimora.

Ma altre volte si metteva a cadere quella pioggia che ci aveva minacciata il frate cappuccino davanti al negozio dell’ottico; simili a uccelli migratori che spiccano il volo tutti insieme, le gocce d’acqua scendevano giù dal cielo in ranghi frettolosi. Non si separano mai, non vanno mai all’avventura durante la veloce traversata; ciascuna sta al proprio posto e attira a sé quella che la segue, e il cielo ne è oscurato più che dalla partenza delle rondini. Ci rifugiavamo nel bosco. Quando il loro viaggio sembrava finito, alcune arrivavano ancora, le più deboli, le più lente. Ma noi lasciavamo il nostro rifugio, perché le gocce si divertono con le foglie, e quando la terra era ormai quasi asciutta più d’una s’attardava ancora a giocare sulle nervature d’una foglia e appesa alla sua punta, quieta, luccicante nel sole, di colpo si lasciava scivolare per tutta la lunghezza del ramo e ci cadeva sul naso.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 182-183

 Château de Roussainville, Illiers-Combray (28) | Marcel proust, French country house, Swann's way

Castello di Roussainville

Souvent le soleil se cachait derrière une nuée qui déformait son ovale et dont il jaunissait la bordure. L’éclat, mais non la clarté, était enlevé à la campagne où toute vie semblait suspendue, tandis que le petit village de Roussainville sculptait sur le ciel le relief de ses arêtes blanches avec une précision et un fini accablants. Un peu de vent faisait envoler un corbeau qui retombait dans le lointain et, contre le ciel blanchissant, le lointain des bois paraissait plus bleu, comme peint dans ces camaïeux qui décorent les trumeaux des anciennes demeures.
    Mais d’autres fois se mettait à tomber la pluie dont nous avait menacés le capucin que l’opticien avait à sa devanture ; les gouttes d’eau, comme des oiseaux migrateurs qui prennent leur vol tous ensemble, descendaient à rangs pressés du ciel. Elles ne se séparent point, elles ne vont pas à l’aventure pendant la rapide traversée, mais chacune tenant sa place attire à elle celle qui la suit et le ciel en est plus obscurci qu’au départ des hirondelles. Nous nous réfugiions dans le bois. Quand leur voyage semblait fini, quelques-unes, plus débiles, plus lentes, arrivaient encore. Mais nous ressortions de notre abri, car les gouttes se plaisent aux feuillages, et la terre était déjà presque séchée que plus d’une s’attardait à jouer sur les nervures d’une feuille, et suspendue à la pointe, reposée, brillant au soleil, tout d’un coup se laissait glisser de toute la hauteur de la branche et nous tombait sur le nez.