Ma (soprattutto quando le belle giornate s’impadronivano di Combray) l’altero mezzogiorno, sceso dalla torre di Saint-Hilaire che aveva fregiata dei dodici fioroni momentanei della sua corona sonora, era già echeggiato intorno al nostro desco, accompagnato dal pane benedetto giunto anch’esso in tutta semplicità direttamente dalla chiesa, e ancora noi sedevamo davanti ai piatti delle Mille e una notte, appesantiti dalla calura e più ancora dal cibo. Alla base consueta di uova, costolette, patate, marmellate, biscotti, che ormai nemmeno ci annunciava, Françoise aggiungeva infatti – seguendo i cicli dei campi e degli orti, gli effetti della marea, le vicende del commercio, le cortesie dei vicini e il suo proprio genio, in modo che il nostro menu, simile a certi quadrilobi scolpiti nel XIII secolo sul portale delle cattedrali, rifletteva un poco il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita -: un rombo perché la pescivendola gliene aveva garantito la freschezza, una tacchina perché l’aveva vista bella al mercato di Roussainville-le-Pin, dei cardi al midollo perché in quel modo non ce li aveva ancora fatti, un cosciotto arrosto perché stare all’aria aperta stimola l’appetito e fino alle sette c’era tutto il tempo per digerirlo, degli spinaci tanto per cambiare, delle albicocche perché erano ancora una primizia, del ribes perché entro quindici giorni sarebbe finito, dei lamponi che il signor Swann aveva portato di persona, delle ciliegie, le prime cresciute sul ciliegio del giardino dopo due anni che non dava più frutti, del formaggio alla crema che una volta mi piaceva tanto, un dolce alle mandorle perché l’aveva ordinato il giorno prima, una brioche perché toccava a noi offrirla. Quando tutto questo era finito, creata appositamente per noi, ma dedicata più specialmente a quell’intenditore che era mio padre, una crema al cioccolato, ispirazione, attenzione personale di Françoise, ci veniva offerta, fuggitiva e lieve come un’opera di circostanza nella quale lei aveva profuso tutto il suo talento. Chi avesse rifiutato di assaggiarla dicendo: “Basta, non ho più fame”, sarebbe immediatamente retrocesso al rango di quegli zotici che persino di fronte a un’opera donata loro da un artista badano al peso e alla materia, mentre il valore risiede tutto nell’intenzione e nella firma. Lasciarne anche una sola goccia nel piatto avrebbe testimoniato di una villania simile a quella di chi s’alza in piedi prima della fine dell’esecuzione sotto gli occhi del compositore.
[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 86-87-88
Quand tout cela était fini, composée expressément pour nous, mais dédiée plus spécialement à mon père qui était amateur, une crème au chocolat, inspiration, attention personnelle de Françoise, nous était offerte, fugitive et légère comme une œuvre de circonstance où elle avait mis tout son talent. Celui qui eût refusé d’en goûter en disant : « J’ai fini, je n’ai plus faim », se serait immédiatement ravalé au rang de ces goujats qui, même dans le présent qu’un artiste leur fait d’une de ses œuvres, regardent au poids et à la matière alors que n’y valent que l’intention et la signature. Même en laisser une seule goutte dans le plat eût témoigné de la même impolitesse que se lever avant la fin du morceau au nez du compositeur.