Si cerca di diminuire le proporzioni del proprio dolore

Da quando se n’era andata, molto spesso, se mi sembrava che non fosse possibile accorgersi che avevo pianto, suonavo per Françoise e le dicevo: “Bisognerà vedere se Mademoiselle Albertine non ha dimenticato niente. Ricordatevi di fare la sua camera, perché sia bene in ordine quando tornerà”. O semplicemente: “Proprio l’altro giorno, ma sì, proprio il giorno prima di partire, Mademoiselle Albertine mi diceva…”. Facendo intravedere a Françoise che l’assenza di Albertine sarebbe stata breve, volevo diminuire il detestabile piacere che essa le procurava; inoltre, volevo dimostrarle che non temevo di parlare di tale assenza, e fargliela apparire – al modo di certi generali che chiamano ritirata strategica e conforme ai piani previsti gli arretramenti forzati – come voluta, e come un episodio di cui tenevo momentaneamente nascosto il significato, non certo come la fine del mio rapporto con Albertine. Nominandola continuamente volevo infine far entrare, come un po’ d’aria, qualcosa di lei in quella camera dove la sua partenza aveva fatto il vuoto e io non respiravo più. E poi, si cerca di diminuire le proporzioni del proprio dolore facendolo entrare nel linguaggio parlato, fra la richiesta di un vestito e gli ordini per il pranzo.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Françoise e la “ciarlatanessa”

E questa vita, che chiunque avesse conosciuto i miei sospetti e la schiavitù di Albertine avrebbe giudicata crudele per entrambi, dal di fuori, per Françoise, passava per una vita di immeritati piaceri che quella “seduttrice” – o, come diceva Françoise la quale, essendo più gelosa delle donne, usava assai più spesso questa deformazione femminile che non la forma maschile, quella “ciarlatanessa” – riusciva abilmente a farsi elargire. Siccome, stando con me, aveva arricchito il proprio vocabolario di termini nuovi, ma adattandoli a modo suo, Françoise diceva anche, parlando di Albertine, di non aver mai conosciuto una persona d’una tale “perfidità”, capace di “spillarmi quattrini” recitando così bene la commedia (cosa che Françoise, portata a prendere il particolare per il generale quanto il generale per il particolare, e in possesso di idee abbastanza vaghe sulla distinzione dei generi nell’arte drammatica, chiamava “recitare la pantomima”).

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Nella prematura sera della mia vita

Non era più la calma del bacio di mia madre a Combray ciò che provavo in quelle sere accanto ad Albertine, ma, al contrario, l’angoscia di quando mia madre mi diceva a malapena buonasera o, addirittura, non saliva affatto in camera mia, perché era arrabbiata con me o perché qualche ospite la tratteneva. Quell’angoscia – non la sua trasposizione nell’amore – no, proprio quella stessa angoscia, che un tempo s’era specializzata nell’amore e che, una volta operatasi la spartizione, la divisione delle passioni, gli era stata assegnata in modo esclusivo, adesso sembrava nuovamente estesa a tutte, ridiventata indivisa com’era nell’infanzia, quasi che tutti i miei sentimenti, tremando di non poter trattenere Albertine accanto al mio letto come un’amante e al tempo stesso come una sorella, come una figlia, finanche come una madre della cui buonanotte quotidiana ricominciavo a provare il puerile bisogno, avessero preso ad assomigliarsi , a unificarsi nella prematura sera della mia vita, che sembrava dover essere non meno breve d’un giorno d’inverno. Ma, pur provando la stessa angoscia della mia infanzia, il mutamento dell’essere per il quale la provavo, la diversità del sentimento ch’esso mi ispirava, la trasformazione stessa del mio carattere mi rendevano impossibile pretenderne la pacificazione da Albertine come allora da mia madre. Non ero più capace di dire: “Sono triste”. Mi limitavo, con la morte nel cuore, a parlare di cose indifferenti che non mi facevano fare il minimo progresso verso una soluzione felice. Mi trascinavo in banalità dolorose. E con l’egoismo intellettuale in virtù del quale, per poco che un’insignificante verità si riferisca in qualche modo al nostro amore, tributiamo i massimi onori a chi l’ha scoperta – non  meno fortuitamente, magari, della cartomante che ci annuncia un fatto banale destinato però, in seguito, a realizzarsi -, io non ero lontano dal ritenere Françoise superiore a Bergotte e ad Elstir  solo perché, a Balbec, mi aveva detto: “Da quella ragazza lì, non avrete che dispiaceri”.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori