La morte di Saint-Loup

La mia partenza da Parigi fu ritardata da una notizia che, con il dolore che mi diede, mi rese per qualche tempo incapace di mettermi in viaggio. Fui informato, infatti, della morte di Robert de Saint-Loup, ucciso due giorni dopo il suo ritorno al fronte mentre proteggeva la ritirata dei suoi uomini.

[…]

La sua vita e quella di Albertine, da me conosciute così tardi, entrambe a Balbec, e così presto finite, si erano appena incrociate; è lui – mi ripetevo, vedendo le agili navette degli anni tessere fili fra i nostri ricordi che sembravano dapprima così indipendenti -, è lui che ho mandato da Madame Bontemps quando Albertine mi ha lasciato. E poi si era dato il caso che le loro due vite avessero ciascuna un segreto parallelo e da me insospettato. Quello di Saint-Loup mi dava, forse, adesso, più tristezza di quello di Albertine, la cui vita m’era diventata affatto estranea. Ma non potevo consolarmi del fatto che sia la sua sia quella di Saint-Loup fossero state così brevi. Tutti e due mi dicevano spesso, mentre si prendevano cura di me: “Voi che siete malato”. E a morire erano stati loro, loro di cui potevo, separate da un intervallo in fondo così breve, contrapporre l’immagine ultima, davanti alla trincea, nel fiume, all’immagine prima che – anche nel caso di Albertine – non valeva più, per me, se non associata a quella del tramonto sul mare.

La sua morte fu accolta da Françoise con più pietà rispetto a quella di Albertine. Assunse immediatamente il suo ruolo di prefica e commentò la memoria del morto con lamentazioni, con trenodie disperate. Esibiva il suo dolore, e prendeva un’espressione indifferente, volgendo altrove la testa, solo quando io, mio malgrado, lasciavo vedere il mio, che lei voleva far credere di non avere visto. Infatti, come molte persone nevrotiche, il nervosismo degli altri – troppo simile, probabilmente, al suo – la esasperava. Le piaceva, adesso, esibire i suoi minimi torcicollo, capogiri o ammaccature. Ma se io parlavo di qualcuno dei miei mali lei, ridiventata stoica e grave, faceva finta di non aver sentito.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

La fotografia di Albertine

Finalmente, avevo trovato la fotografia. “È sicuramente meravigliosa”, continuava a dire il mio amico, non accorgendosi che gli porgevo la fotografia. A un tratto la vide, la tenne un istante fra le mani. Il suo volto esprimeva una stupefazione che giungeva sino alla stupidità. “È questa, la fanciulla che ami?” finì col dirmi, in un tono nel quale lo stupore era tenuto a freno dal timore di irritarmi. Non fece alcuna osservazione, aveva assunto l’atteggiamento ragionevole, prudente, per forza di cose un po’ sdegnoso che si tiene al cospetto d’un malato il quale – quand’anche fosse stato fino allora un uomo notevole e amico vostro – ormai non è più niente di tutto questo, dal momento che, còlto da pazzia furiosa, vi parla d’un essere celeste che gli è apparso, e continua a vederlo nel punto in cui voi, uomo sano, non scorgete che un piumino. Mi resi immediatamente conto dello stupore di Robert, e che era lo stesso in cui m’aveva gettato la vista della sua amante, con questa sola differenza: io avevo trovato in lei una donna che conoscevo già, lui credeva di non aver mai visto Albertine. Ma la differenza tra ciò che vedevamo, l’uno e l’altro, d’una stessa persona, era probabilmente altrettanto grande. Era ben lontano il tempo in cui, a Balbec, avevo cominciato appena appena, quando guardavo Albertine, ad aggiungere alle sensazioni visive  delle sensazioni di sapore, d’odore, di tatto. Da allora, vi si erano aggiunte delle sensazioni più profonde, più dolci, più indefinibili, poi delle sensazioni dolorose. In breve, Albertine non era – come una pietra attorno alla quale sia caduta la neve – che il centro generatore di un’immensa costruzione che intersecava il piano del mio cuore. Robert, al quale tutta questa stratificazione di sensazioni rimaneva invisibile, non coglieva che un residuo ch’essa, al contrario, mi impediva di scorgere. A sconcertare Robert, quando aveva visto la fotografia di Albertine, non era stata l’emozione dei vecchi troiani che vedono passare Elena e dicono:

Notre mal ne vaut pas un seul de ses regards

ma quella, esattamente inversa, che fa dire: “Ma come, è per questo che si è tanto roso, ha tanto sofferto, ha fatto tante follie!”.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Sull’amicizia

Ho già detto – ed era stato, a Balbec, proprio Robert de Saint-Loup ad aiutarmi, assolutamente suo malgrado, a prenderne coscienza – quel che penso dell’amicizia: ch’essa è, invero, così poca cosa, da rendermi arduo capire come uomini di qualche ingegno, per esempio un Nietzsche, abbiano potuto commettere l’ingenuità di attribuirle un certo valore intellettuale e, conseguentemente, di rifiutarsi ad amicizie cui non fosse connessa la stima intellettuale. Sì, è sempre stato motivo di stupore, per me, vedere come un uomo che spingeva la sincerità con se stesso sino a staccarsi, per scrupolo di coscienza dalla musica di Wagner, si sia figurato che la verità potesse realizzarsi in quel modo d’espressione per sua natura confuso e inadeguato che sono, in generale, le azioni e, in particolare, le amicizie; e come si sia potuto attribuire un qualche significato al fatto di lasciare il proprio lavoro per incontrarsi con un amico e piangere con lui apprendendo la notizia, falsa, dell’incendio del Louvre. A Balbec, ero arrivato al punto di trovare il piacere d’intrattenermi in svaghi con fanciulle meno funesto alla vita intellettuale – cui, d’altronde, rimane estraneo – che non l’amicizia, il cui sforzo consiste esclusivamente nel farci sacrificare l’unica parte reale e incomunicabile (se non per mezzo dell’arte) di noi stessi a un io superficiale, che anziché trovare, come l’altro, gioia dentro di sé, prova una confusa commozione nel sentirsi sostenuto da puntelli esterni, ospitato in un’individualità estranea dove, felice della protezione accordatagli, fa rifulgere in approvazione il proprio benessere, e va in estasi di fronte a qualità che chiamerebbe difetti, e cercherebbe di correggere, in se stesso. D’altra parte, coloro che disprezzano l’amicizia possono essere, senza illusioni e non senza rimorsi, i migliori amici del mondo, così come un artista che porta in sé un capolavoro e sente che sarebbe suo dovere vivere per lavorare, ciononostante, per non apparire o rischiare d’essere egoista, dà la sua vita per una causa inutile, e con tanto maggiore ardimento quanto più disinteressate erano le ragioni per cui avrebbe preferito non darla. Ma, qualunque fosse la mia opinione sull’amicizia – per non parlare, poi, del piacere ch’essa mi procurava, d’una qualità così mediocre da somigliare a una via di mezzo fra la stanchezza e la noia -, non c’è beveraggio tanto funesto da non poter diventare, in certi momenti, prezioso e tonificante, dandoci la sferzata che ci era necessaria, il calore che non possiamo trovare in noi stessi.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Robert e Rachel

Robert ignorava quasi tutte le infedeltà della sua amante, e lavorava di fantasia su piccole cose del tutto insignificanti in confronto alla vera vita di Rachel, vita che cominciava, ogni giorno, nell’attimo stesso in cui egli la lasciava. Le ignorava quasi tutte, quelle infedeltà. Si sarebbe potuto ragguagliarlo in proposito senza scuotere la sua fiducia in Rachel; infatti, per un’affascinante legge di natura che si manifesta nelle società più complesse, si vive nell’assoluta ignoranza di ciò che si ama. Da un lato dello specchio, l’innamorato pensa: “È un angelo, non mi si concederà mai, non mi resta che morire, e tuttavia mi ama; mi ama tanto che forse…ma no, non sarà mai possibile!”. E nell’esaltazione del desiderio, nell’angoscia dell’attesa, quanti gioielli ammucchia ai suoi piedi, con quanta precipitazione va a farsi prestare del denaro per evitarle un fastidio! Nel frattempo, dall’altro lato della parete che non ne lascia udire i discorsi più di quanto non s’odano quelli di un gruppo di visitatori al di là d’un acquario, la gente dice: “Non la conoscete? meglio per voi, ha derubato, ha ridotto in miseria non so quante persone, non esiste puttana peggiore. È una truffatrice fatta e finita. E furba come il diavolo!”. E, forse, la gente non è del tutto fuori strada nel fare quest’ultima affermazione, se anche l’uomo scettico, che non è veramente innamorato di lei ma semplicemente la desidera, assicura agli amici: “Ma no, mio caro, non è per niente una cocotte; non dico che, nella sua vita, non si sia tolta due o tre capricci, ma non è donna da concedersi per denaro, a meno che non si tratti d’un patrimonio. Con lei, o cinquantamila o niente”. Ebbene, lui – lui che parla – ha per l’appunto speso cinquantamila franchi, e per averla una sola volta; ma lei, trovando d’altronde il migliore dei complici proprio in lui, cioè nel suo amor proprio, è riuscita a fargli credere d’essere fra coloro che l’hanno avuta gratis. Così è la società, dove ciascuno ha due facce, e le persone più marce, più malfamate, non saranno mai viste da certe altre se non sullo sfondo e dietro la protezione d’una conchiglia, d’un dolce bozzolo, d’una deliziosa curiosità di natura. C’erano, a Parigi, due onest’uomini cui Saint- Loup aveva tolto il saluto, e di cui non poteva parlare senza che gli tremasse la voce e senza chiamarli sfruttatori di donne: erano stati, sia l’uno che l’altro, rovinati da Rachel.

M. Proust, La parte di Guermantes I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Proust, ses personnages - RachelProust, ses personnages

David Richardson, Rachel

Robert de Saint-Loup e Madame de Marsantes

Robert mi trascinò bruscamente verso sua madre.

“Addio” le disse; “sono costretto a lasciarvi. Non so quando mi daranno un nuovo permesso, certo non prima d’un mese. Appena me lo comunicheranno, ve lo scriverò”.

Robert non era assolutamente di quei figli che, trovandosi in società assieme alla madre, credono che un atteggiamento d’insofferenza nei suoi confronti debba fare da contrappeso ai sorrisi e ai saluti che rivolgono agli estranei; odiosa e diffusissima vendetta di gente per la quale si direbbe che la villania verso i propri cari sia il naturale complemento dell’abito da cerimonia. Qualsiasi cosa dica la povera madre, il figlio, come se fosse stato trascinato lì suo malgrado e volesse far pagare cara la propria presenza, contraddice immediatamente con precisa, crudele ironia l’asserzione timidamente arrischiata; la madre s’affretta ad adeguarsi, senza per questo ammansirlo, all’opinione di quell’essere superiore del quale, in sua assenza, continuerà a vantare con tutti il carattere delizioso, e che tuttavia non le risparmia uno solo dei suoi strali acuminati. Ben diverso era Saint-Loup, ma l’angoscia causatagli dalla lontananza di Rachel faceva sì che, per tutt’altre ragioni, egli fosse con la madre non meno aspro di quei figli. E, alle sue parole, io vidi lo stesso fremito, simile a quello di un’ala, che Madame de Marsantes non aveva saputo reprimere all’arrivo del figlio, sollevare ancora per intero la figura della madre; ma era, adesso, un volto ansioso, erano degli occhi desolati, ch’ella fissava su di lui.

“Ma come, Robert, vai già via? sul serio? bambino mio! l’unico giorno che potevo averti per me!”.

E quasi sottovoce, nel più naturale dei toni, con una voce da cui si sforzava di bandire ogni tristezza per non ispirare al figlio una pietà che gli sarebbe riuscita crudele, oppure inutile e capace soltanto d’irritarlo, aggiunse, come semplice osservazione suggerita dal buon senso:

“Non è gentile, sai, da parte tua”.

Ma a questa semplicità Madame de Marsantes mescolava tanta timidezza, per fargli capire che non intendeva violare la sua libertà, tanta tenerezza, perché lui non la rimproverasse di intralciare i suoi piaceri, che Saint-Loup dovette avvertire dentro di sé qualcosa come la possibilità di commuoversi, vale a dire un ostacolo al progetto di passare la serata con la sua amica. E fu per questo che si infuriò:

“Spiacente, ma – gentile o non gentile – è così”.

E rivolse alla madre i rimproveri che, probabilmente, sospettava di meritare egli stesso; è così che un egoista ha sempre l’ultima parola; dando per scontata l’irrevocabilità della propria decisione, più il sentimento cui lo si richiama perché vi rinunci è toccante e più egli trova riprovevole, non già se stesso che vi resiste, ma chi lo mette nella necessità di resistervi, con la conseguenza che la sua durezza può giungere sino all’estrema crudeltà senza far altro che aggravare vieppiù, ai suoi occhi, la colpa d’una persona talmente indelicata da soffrire, da aver ragione, talmente vile da provocargli il dolore d’agire contro la propria pietà. Del resto, Madame de Marsantes smise spontaneamente d’insistere, rendendosi conto che non sarebbe riuscita a dissuaderlo.

M. Proust, La parte di Guermantes I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Robert de Saint-Loup

Stéphane Heuet , Robert de Saint-Loup