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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Amedeo Guillet «Io, Comandante Diavolo, a cavallo contro i tank»

Post n°32 pubblicato il 05 Agosto 2008 da wrnzla

Amedeo Guillet «Io, Comandante Diavolo, a cavallo contro i tank»

Vita, amori e battaglie di Amedeo Guillet, eroe dell’Africa italiana: 4 ferite, 27 medaglie

Dublino - E’ il solo italiano vivente a portare quattro ferite di guerra e ventisette decorazioni (più un tatuaggio incisogli da un capotribù all’altezza del cuore), ad aver guidato una carica di cavalleria contro carri armati, e a conoscere trenta parole in arabo per dire cavallo, «perché il cavallo che dorme è diverso da quello che mangia e da quello che corre». Amedeo Guillet è stato ambasciatore e acquaiolo, ufficiale e stalliere, agente segreto e scaricatore di porto. Si è finto cameriere - per servire a tavola l’inglese che gli dava la caccia -, yemenita - per salire sul cammello del beduino che l’aveva trovato agonizzante nel deserto -, e anche pazzo, sordomuto, libico, per salvare la vita: «Sono l’uomo più fortunato che conosco». Ha comandato la cavalleria indigena in Africa nella seconda guerra mondiale, ha passato tre volte le linee tedesche «durante la guerra di liberazione», che distingue dall’altra.
E’ stato Cummandar as Shaitan, Comandante Diavolo, e Ahmed Abdallah al Redai, venditore d’acqua. In Africa la sua donna era la splendida eritrea Kadija; ma poi tornò a casa dalla fidanzata Bice. Per la sua storia ha avuto un uditorio d’eccezione. Ahmed Ibn Yahia, imam dello Yemen, cui piacque tanto che alla fine convocò le mogli velate e lo costrinse a ricominciare da capo. E Vittorio Emanuele III re d’Italia, che lo ascoltò su una nave al largo di Brindisi, le lacrime agli occhi.
«Sono nato nel 1909. Mio padre, i miei due zii, mio fratello erano generali sabaudi. Mia madre era di Capua. Alla scuola di cavalleria di Pinerolo entrai con una raccomandazione al contrario: i miei chiesero ai superiori di essere particolarmente severi. I primi arresti me li diede mio zio Ernesto, comandante dei cavalleggeri del Monferrato, perché portavo l’impermeabile senza cintura: tre giorni di cella». Una fotografia lo mostra a cavallo mentre si getta giù da un dirupo. «Era l’iniziazione. Una prova di coraggio. Gli altri cadevano perché portavano il peso all’indietro. Invece, come ha insegnato Caprilli, bisogna assecondare il cavallo e gettarsi in avanti». In Africa nel 1936 comanda un reparto di spahis, i cavalieri libici, e viene ferito alla mano sinistra, che da allora protegge con un guanto. Una copertina della Domenica del Corriere del 19 marzo 1936 lo raffigura alla testa delle truppe coloniali mentre sgomina la «banda di briganti abissini che avevano attaccato civili italiani».
Poi combatte in Spagna, per due anni, da volontario. «Mi decorò Franco di persona: prima la Cruze blanca , poi la Cruze roja . La mia famiglia non era fascista, ma neppure antifascista. Io non ero iscritto al fascio; servivo il re. Ho criticato Graziani quando era vivo, ma non mi piace parlare male dei morti; e comunque era un valido generale. Ho ammirato Italo Balbo, che aveva fatto della Libia un paradiso, e il duca d’Aosta, grande comandante e uomo generoso che amava l’Africa e gli africani. Io avevo imparato l’arabo per parlare con i miei uomini senza intermediari. Così il duca mi incaricò di formare una brigata indigena: 800 cavalieri tra eritrei, libici, etiopici, sauditi, yemeniti; e poi fanti e truppe cammellate».
Il 21 gennaio 1941 gli uomini di Guillet attaccarono a più ondate la Gazelle Force corazzata britannica, a Cherù. Caddero a decine, tra cui il vicecomandante Renato Togni. «Si è parlato di un sacrificio eroico ma inutile. Non è vero, ed è stato proprio il comandate nemico a riconoscerlo: gli inglesi furono scompaginati e dovettero ritardare la marcia, lasciando ai nostri il tempo di schierarsi a difesa. Tra i sikh che affrontammo a Cherù c’era anche il caporale Mohinder Singh, che quarant’anni dopo sarebbe diventato il mio autista all’ambasciata italiana in India. Il tempo mi ha fatto ritrovare molti dei miei avversari, che sono diventati amici: perché condividevamo gli stessi valori, la lealtà, il coraggio, l’onore, il patriottismo senza odio». Fu tutto questo a spingerlo a non posare le armi, dopo la resa del duca d’Aosta all’Amba Alagi e la caduta dell’impero.
«Il duca mi aveva preso in disparte e avvertito che la fine era vicina, ma bisognava combattere fino all’ultimo uomo, per tenere impegnati gli inglesi in Etiopia ed evitare che si spostassero sul fronte libico. Allora radunai i miei uomini e annunciai che io avrei continuato a combattere, ma loro erano liberi di tornare al villaggio. Si presero una notte per riflettere. Il mattino dopo mi dissero che sarebbero stati al mio fianco: per loro, aggiunsero, ero diventato un padre, e un padre non si abbandona. Gli eritrei furono splendidi. Tutto quel che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi.
Cominciano otto mesi di imboscate, sabotaggi, assalti e fughe. «Come base avevo la fattoria di un italiano, Orlando Rizzi. Lavoravo come bracciante, insieme con la mia Kadija, ma qualche domenica su insistenza dei Rizzi mi trattenevo in casa.
Un giorno, mentre ascolto Mascagni seduto in poltrona, arrivano gli inglesi guidati dal capitano Reich, l’uomo incaricato di catturarmi. Mi alzo e comincio a servire in tavola, chiedendo in piemontese alla cuoca Filomena di star zitta: ca staga ciuta! Reich mi ordina due uova al tegamino. Poi mi interroga, in arabo: notizie del Comandante Diavolo?». La banda di irregolari sta per essere sciolta. «Ero stato ferito a un piede. Soffrivo di malaria. E il pericolo per i miei uomini e per Kadija si faceva troppo grande. Ci siamo separati, senza voltarci indietro. Mi sono guadagnato il denaro per attraversare in barca il Mar Rosso vendendo acqua al mercato di Massaua. Avevo un complimento diverso per ogni massaia: acqua pura e dolce per donne dolci e pure! Mi chiedevano: che cos’hai messo oggi nell’acqua, Ahmed? E io: miele e profumo di rose! Ottocento lire al mese, più della paga da ufficiale».
Il passaggio del Mar Rosso però andò malissimo. «Si insospettirono nel vedermi scrivere in arabo, mi presero per una spia. Il mio aiutante, il fido Daifallah, fu riportato a riva. Io fui gettato in mare. Quando arrivo sulla spiaggia a nuoto trovo Daifallah che mi aspetta a braccia conserte. Ci inoltriamo nel deserto e incontriamo una carovana di beduini che anziché aiutarci ci depreda, lasciandoci nudi e senza cibo. Daifallah, distrutto, si stende sulla sabbia ad aspettare la morte. Cerco di sollevarlo, lui si dà per vinto. Allora mi stendo anch’io. Ma anziché la morte arriva un uomo che da lontano pare un gigante. «Forse quando si muore vengono i giganti a prenderti» sentenzia Daifallah. Invece è un uomo su un cammello: dice di essere Al Sayed Ibrahim, yemenita, discendente del profeta. Urlo che sono yemenita anch’io, e svengo».
«Ibrahim ci ha salvati e portati nella sua capanna nel deserto. Aveva una figlia bellissima, che mi offrì in sposa; e fui tentato di accettare, per non passare altri guai. Poi mi ricordai di essere un soldato». Passato finalmente il Mar Rosso, nello Yemen Guillet è arrestato, smascherato e costretto a confessare la sua vera identità. Ma dopo aver ascoltato la sua storia, l’imam lo accoglie a corte e gli affida la cura delle scuderie. Sarà una nave ospedale, su cui sale come facchino, a riportarlo in Italia. Fedele al re, durante la Resistenza entra nel Sim, il servizio segreto; passa tre volte le linee naziste; recupera le corone del negus, facendosele consegnare dai partigiani. Dopo la guerra sarà ambasciatore in Yemen - «bentornato a casa
Ahmed Abdallah» è il saluto dell’imam -, Giordania, Marocco, India. Nella sua casa in Irlanda, dove si è ritirato per cacciare la volpe e allevare cavalli, ci sono pelli di leopardo e dischi a 78 giri. Foto di re Hussein e Indira Gandhi vicino a quelle del principe Umberto e di Aldo Moro. La massima onorificenza repubblicana, la Gran Croce dell’Ordine militare della Repubblica, conferitagli da Ciampi, accanto alla massima onorificenza monarchica, la Croce di cavaliere dell’Ordine militare dei Savoia. Ci sono le foto dei suoi genitori, il generale sabaudo e la nobildonna napoletana, da cui ha ereditato il senso dell’onore e quello dell’avventura, del travestimento, della recita. E ci sono le immagini della moglie, che si è spenta nel ’91, e di Kadija, rivista in Eritrea un’ultima volta.
«Appena tornato in Italia sulla nave-ospedale, andai da Bice e le raccontai tutto. Le dissi che sarei tornato all’Asmara per rimpatriare i reduci italiani, e promisi che non avrei più incontrato Kadija. Ma lei mi disse: no, devi andare a salutarla. Poi si tolse un prezioso bracciale con due solitari, un gioiello di famiglia, e mi sussurrò: portale questo e ringraziala da parte mia, perché non so se avrei fatto per te quel che ha fatto lei. Questo è il messaggio che ho riferito a Kadija. Siamo scoppiati a piangere, tutti e due. E ci siamo detti addio per sempre».

Vedi anche >>> L'ultima Carica.

Video. Il Comandante Diavolo: Parte 1di6 - 2di6 - 3di6- 4di6 - 5di6 - 6di6

 
 
 
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INFO


Un blog di: wrnzla
Data di creazione: 27/05/2005
 

 
   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA È LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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ASCARI A ROMA 1937

 

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