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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

Segue >>>

 

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Messaggi del 12/08/2008

Storia. Anni 1889-1895. Parte Terza.

Post n°56 pubblicato il 12 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1889-1895. Parte Terza.

DOPO L'AMBA ALAGI, LE DISCUSSIONI PARLAMENTARI.

La Camera italiana ebbe notizia della battaglia dell'Amba Alagi il 9 dicembre dal ministro della Guerra, che dichiarò avere il Governo riconfermata la sua completa fiducia al generale BARATIERI e alle sue valorose truppe e assicurò che "…il fatto non è grave perché nessuna parte del territorio da noi occupato era stata perduta e perché Makallé, Adigrat e Adua sono fortemente murati e difese".
L'on. TORRACA sostenne che l'espressione del rammarico per le non liete notizie doveva essere severa e virile. Nessuna recriminazione o discussione doveva in quel momento doveva essere fatta. "Mandiamo una parola di caldo rimpianto ai caduti e di fiducia e di augurio ai prodi che in Africa vinceranno e sapranno vendicare i caduti. Si richieda al Governo che l'opera sua sia pari alle sue gravi responsabilità, pari alle legittime ansietà del paese".

L'on. RUBINO esortò il Governo "a provvedere con misura, fermezza e virilità"; il ministro MOCENNI assicurò che sarebbero stati presi "i provvedimenti necessari per la tutela della dignità e del prestigio delle armi e del nome italiano"; il ministro BLANC dichiarò che il fatto "non aveva nessuna importanza politica per l'avvenire della Colonia". Voci dure furono quelle dell'on. BRANCA che non poteva ammettere che "si persistesse in una politica inopportuna" e dell'on. IMBRIANI che accusò il Governo di "…arbitri che compromettevano gl'interessi della nazione".

Il 15 dicembre incominciò alla Camera lo svolgimento d'interrogazioni ed interpellanze relative all'Africa. L'on. IMBRIANI ricordò che "la responsabilità di quanto avveniva in Africa era del presidente del Consiglio, il quale aveva violato lo Statuto e le promesse fatte in Parlamento; qualificò empia la guerra che si combatteva in Africa; lamentò che si fosse ingannato e si continuasse ad ingannare il paese, esortò a ritornare dall'Africa, non trattandosi d'impresa che giovasse all'Italia e dichiarò che non avrebbe concesso credito né soldati ad un Governo inetto e colpevole".

CAVALLOTTI disse: " Oh ! Lo so che è bello bagnare del proprio sangue i campi materni della patria, sulle vie sacre del suo destino, nei giorni dei fervidi, deliranti entusiasmi, quando tutto l'anima della patria, tutta la poesia dei suoi sogni, delle sue aspirazioni, accompagna, segue, circonda affettuosa le bandiere nazionali combattenti per il diritto, per il suolo per i patri focolari. Ma in un'impresa che la Nazione non chiede e non volle, su cui i suoi cuori sono più che discordi, su cui le menti sono più che divise, si è trascinata da dieci anni senza essere riuscita mai a destare intorno a sé una sola scintilla di popolarità, una sola vampata di entusiasmi compensatori, senza aver dato mai un solo frutto che alla Nazione compensi i sacrifici, che l'abbia convinta della bontà della causa; in un'impresa come questa, quanto è più solitario e arido di compensi morali, il culto della bandiera esige tanto di più dal cuore del soldato; e cadere per l'onore militare soltanto, per il solo scopo di conservare alto alla patria il buon nome di madre di eroi, per questo solo scopo solitario il sacrificio diventa maggiore".
Dopo di aver ricordate le ultime fasi della politica africana, CAVALLOTTI aggiunse che "il Ministero non poteva rappresentare e non rappresentava che un pericolo di nuovi disastri. L'Italia poteva chiedere ed ottenere dal Parlamento nuovi sacrifici, ma dal Governo nulla attendeva e nulla sperava; dal Governo, che, nemmeno nell'ora presente, aveva mostrato di essere all'altezza del suo compito. Perciò, pronto a consentire i sacrifici necessari per il prestigio delle armi italiane, non poteva egli acconsentire che continuasse l'attuale Gabinetto a dirigere la politica d'Italia".

Parlarono poi gli onorevoli BONISI, DE MARTINO e SANGUINETTI, che censurarono la politica di conquiste e di espansione dell'on. CRISPI, e il BOVIO, il quale disse, che, "essendo terminato il periodo del dilettantismo africano, il Governo doveva o abbandonare l'Africa o seguire una propria e grande politica coloniale. Ma la forza d'Italia non era forza di estensione, sebbene d'intensità. L'espansione dell'Eritrea sarebbe stata poca cosa; l'espansione doveva essere nel mondo come nuovo pensiero, nuova civiltà e nuova missione".

Nella seduta del 15 dicembre svolsero interpellanze gli onorevoli A. LUZZATTI, DE GAOTANI, SAN GIULIANO e infine ANDREA COSTA, che, interprete delle grida dei contadini e degli operai, protestava contro una politica nefasta e criminosa e dichiarava che, da parte sua e dei suoi amici, non si sarebbe concesso "né un uomo né un soldo".

L'on. CRISPI ricordò che la Camera aveva per ben due volte approvato la politica del Governo, disse che "…il fatto dell'Amba Alagi è uno degli episodi inevitabili in tutte le guerre coloniali…. Il Governo non può essere accusato d'imprevidenza perché ha dato più di quanto il Baratieri ha chiesto…. Io mi prostro, e tutti ci prostriamo dinanzi ai caduti dell'Amba Alagi…. Tutti ammiriamo il valore italiano e la splendida figura di quel Toselli che, disperando di poter vincere, volle morire... Non c' è nessuno né a Destra né a Sinistra, che non abbia questo sentimento: ed avendolo, è per vendicare i morti, e ristabilire quel prestigio, che l'Italia deve sempre tenere alto, che noi prenderemo quei provvedimenti che crediamo necessari allo scopo; e la Camera farà giustizia".

Il 17 dicembre, il ministro del Tesoro, di concerto con i ministri della Guerra e della Marina, presentò alla Camera un disegno di legge con la quale si assegnavano 20 milioni per le spese d'Africa.
In seguito alla relazione della Giunta generale del bilancio a firma dell'on. GRANDI, nella seconda seduta del 18 dicembre, iniziò la discussione, alla quale parteciparono IMBRIANI, DI RUDINI, CAVALLOTTI, BOVIO, MARTINI, BUTTINI, e quasi tutti contrari a Crispi che si difese energicamente dagli attacchi.
Ordini del giorno, quasi tutti favorevoli alla concessione dei 20 milioni, svolsero gli onorevoli TORRIGIANI, DI NICOLÒ, AFAN DE RIVERA, RUBINI, CANZI, PRINETTI, BERLO, BARZILAI, FRANCHETTI, F. SPIRITO, PERONI, VENDEMMI, FORTIS, VALLE e CHIMIRRI.
CRISPI dichiarò di accettare l'ordine del giorno TORRIGIANI, che fu messo ai voti per appello nominale. La prima parte era: "La Camera, confidando che il Governo saprà tenere alto il prestigio delle nostre armi, ristabilire la pace nei possedimenti africani e provvedere alla sicurezza per l'avvenire .... " fu approvata con 255 voti contro 148; la seconda parte "…riaffermandosi contraria ad una politica di espansione, prende atto delle dichiarazioni del Governo e passa alla discussione dell'articolo della legge" fu approvata con 301 voti contro 36 e 3 astenuti.

Aperta la discussione sull'articolo, dopo una dichiarazione di IMBRIANI, si passò alla votazione per scrutinio segreto del disegno di legge che fu approvato con 237 voti contro 36.
Il 20 dicembre il disegno fu approvato dal Senato con 87 voti favorevoli 5 contrari.

Quindi nonostante l'opposizione, la Camera riconferma pienamente la fiducia al Governo sulla politica coloniale e stanzia nuovi fondi per l' "Avventura".
Purtroppo non si aveva davanti la vera situazione che si era venuta a creare in Africa, una situazione che era diventata piuttosto critica, subito dopo l'Amba Alagi, a dicembre, e sarà ancora di più critica nei primi giorni di gennaio.
Questo sconsiderato grande appoggio al governo, stimola Crispi su una via molto pericolosa: quella della tattica non più difensiva, ma offensiva. Che l'Italia nelle condizioni in cui era, non era in grado né di preparare, né di sostenere economicamente.

Inoltre non c'era un "piano di guerra" prestabilito (necessario se si voleva fare una guerra d'offensiva), e nemmeno un minimo "piano logistico".
Eppure, si inviarono grandi contingenti di truppe; ma oltre che inutili, era ormai troppo tardi!!


Le conseguenze le leggeremo nel prossimo capitolo...

.... il periodo dall' anno 1895 al 1896 > > >

 
 
 

Storia. Anni 1889-1895. Parte Seconda.

Post n°55 pubblicato il 12 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1889-1895. Parte Seconda.

OCCUPAZIONE DELL'AGAMÈ E DEL TIGRÈ - IL GENERALE BARATIERI A ROMA - OPERAZIONI CONTRO MANGASCIÀ - COMBATTIMENTO DI DEBRA-AILÀ - COMBATTIMENTO DI AMBA ALAGI E DI ADERÀ

OCCUPAZIONE DI AGAMÈ E DEL TIGRÈ
BARATIERI A ROMA
OPERAZIONI CONTRO MANGASCIA - COMBATTIMENTO DI DEBRA AILÀ

Dopo queste vittorie sui capi zigrini, BARATIERI fu promosso tenente generale. Il Governo voleva trarre profitto dai successi, tant'è vero che CRISPI, fin dal 18 gennaio del 1895, telegrafava al governatore dell'Eritrea: "Ormai il Tigrè è aperto all'Italia: sarà indulgenza nostra se non vorremo occuparlo". E il ministro della guerra; quel giorno stesso, gli annunciava che si era deliberato di mandare in Africa quattro battaglioni e di ordinargli l'arruolamento di almeno 2000 indigeni. BARATIERI rispose chiedendo la costituzione di una seconda batteria da montagna e il BLANC telegrafò subito: "Aspettiamo suo proposte sul modo di trarre profitto dal successo. Due battaglioni partiranno il 30 corrente, gli altri due il 14 febbraio, salvo suoi desideri in contrario. Per la batteria da, montagna attendiamo la proposta già preannunziata da Lei".

Intanto ras MANGASCIÀ, che si era ritirato nel Tembien, riunito un certo numero d'armati, si trasferiva nel Gheraltà tenendosi pronto ad invadere l'Agamè e, per guadagnare tempo, il 13 febbraio scriveva al re e al governatore avanzando proposte di pace. BARATIERI gli rispondeva che non avrebbe preso in considerazione tali proposte se lui non avesse prima disciolto le truppe o non si fosse presentato ad Adua; ma ras Mangascià sicuro dell'intervento del Negus, non volle aderire e nei primi di marzo si avvicinò con 4000 uomini ad Adigrat.

Allora il generale BARATIERI stabilì di agire con prontezza ed energia e, lasciato a Cheren il generale ARIMONDI per fronteggiare la minaccia dei Dervisci contro Cassala, concentrò a Senafè il III, il IV e il V Battaglione Indigeni, una compagnia di cacciatori italiani, una batteria da montagna, un plotone di cavalleria ed alcune bande, in complesso 4200 uomini agli ordini del colonnello PIANAVIA, che il 25 marzo entrarono ad Adigrat.
Il 26, il tenente colonnello PIANAVIA, con parte delle truppe e gli armati di AGOS TAFARÌ si mise sulle tracce di ras MANGASCIÀ, che si era ritirato verso Makalle, ma non lo raggiunse, avendo continuato il ripiegamento verso Scechet, e il 27 occupò Makallè, lanciando all'inseguimento del nemico Agos Tafari, che, dopo uno scontro con la retroguardia del ras, rientrò il 30 a Makallè, donde, lasciato il maggiore SALVA con le bande del Seraè e dell'Acchelè-Guzai, PIANAVIA mosse su Adua, dove doveva congiungersi con il generale BARATIERI.

A Baratieri, il 6 aprile, CRISPI scriveva: "Ogni ulteriore espansione in Africa trova opposizione nell'Alta Italia, anche tra gli amici del Ministero. Il mio collega del Tesoro, se ne preoccupa per la incertezza delle spese cui andremo incontro. L'impresa potrebbe essere tollerata solamente se la Colonia concorresse anch' essa con i tributi locali. Ad ogni modo S. E. SONNINO non permette che il bilancio dell'Eritrea ecceda 9 milioni. Non vorremmo che la questione suscitasse imbarazzi nella nuova Camera, la cui opera instauratrice non dovrebbe essere turbata. Rimane dunque inteso che Adigrat debba essere il limite delle nostre occupazioni".

Il 12 aprile il BARATIERI rispose: "Siamo in ostilità aperta con Mangascià. Le lettere ed il contegno di Menelick fanno credere ad una prossima guerra contro l'Aussa, non lontana contro di noi. I Dervisci possono attaccarci in giugno. Indispensabile tenga Adigrat e Cassala, e guardi Adua. La riduzione al bilancio di 9 milioni esigerebbe il rimpatrio di tre battaglioni italiani e lo scioglimento di due battaglioni indigeni. Il rimpatrio degli Italiani incoraggerebbe il nemico ad affrettare le ostilità. Essendo così la situazione, io non posso proporre una diminuzione di forze mantenendo la responsabilità per la difesa della Colonia".

Il 10 aprile CRISPI telegrafò ancora a BARATIERI:

"Ripetiamo che bisogna limitarsi per ora nell'impresa tigrina, e poiché gli ultimi battaglioni furono di qui spediti senza una vera necessità della difesa, il Ministero è di avviso che due di essi potrebbero rimpatriare. Vi è opposizione nel paese ad ulteriore espansione. Ad ogni modo è nostra assoluta volontà che nulla in Africa sia fatto che valga ad eccedere la spesa di nove milioni nel bilancio della madre-patria. A salvare l'Eritrea in Parlamento bisogna tenersi in questi limiti, e noi non vogliamo mettere a rischio le sorti dell'Italia per un errore commesso in Africa".

Lo scambio dei telegrammi continuò. Insistendo il Governo a non voler concedere più di 9 milioni mentre ne richiedeva minimo 13 il Barattieri; questi, con lettera del 23 aprile, chiese di essere richiamato in Italia.
"Comprendo come l'opinione pubblica sia allarmata e come il Governo debba provvedere a calmarla nel momento supremo delle elezioni (del 26 maggio Ndr.).... La maniera che mi si affaccia più semplice per quietare gli animi è quella del mio richiamo. Un altro, non così impegnato come me, potrebbe tentare in Africa un accomodamento con Mangascià e con Meneliek, che permetta di ridurre notevolmente le spese; e potrebbe per avventura abbandonare qualche lembo di territorio. Io aiuterei il Governo con le mie dichiarazioni e con il preparare il passaggio".

Ma a Roma non si volle sentir parlare di richiamo. Il 7 maggio, il ministro degli Esteri BLANC telegrafò a BARATIERI:
"Il Governo è ben lontano dell'idea di volersi privare dell'opera di V. S. in Africa ove è riuscita così giovevole e così notevole per le armi italiane. Non crediamo accomodamenti né con Mangascià né con Menelik".

BARATIERI rinnovò il 1° giugno, la domanda di essere richiamato, ma ebbe come risposta l'assicurazione che godeva la fiducia del Governo. Il generale non mancò di ribattere, esponendo in una relazione del 27 giugno le condizioni militari della colonia, e il 7 luglio rinnovò ancora una volta le dimissioni col seguente dispaccio:
"I miei precedenti telegrammi dicono chiaro che le offerte dimissioni sono occasionate dalla proibizione categorica dell'aumento di forze e dall'ordine di diminuire le spese. Io ritengo che l'attuale preparazione - contro un possibile attacco di Menelik in autunno- sia insufficiente a mantenere, i punti dai quali il Governo del Re intende assolutamente non retrocedere. Quindi devo insistere per avere l'autorizzazione di conservare le attuali forze italiane, di aumentare subito le forze indigene, e di accrescere subito i mezzi di trasporto; è impossibile improvvisare. Senza tale autorizzazione la mia coscienza e il mio patriottismo m'impongono di insistere nelle dimissioni offerte, nella speranza che altri possa tenere la Colonia con minori mezzi e concludere una pace onorevole e durevole".

Il giorno dopo CRISPI, BLANC e MOCENNI invitarono BARATIERI a recarsi a Roma così telegrafandogli: " Il Governo non può deliberare sopra un così grave argomento senza avere prima conferito verbalmente con V. E. La preghiamo quindi a volere subito prendere le disposizioni opportune per la sua breve assenza dalla Colonia., avendo così il tempo di convenire insieme il da farsi e provvedere, occorrendo, prima dell'autunno".

Il 17 luglio il generale BARATIERI partì da Massaua e il 26 giunse a Roma e, giunto alla Camera per prestare il giuramento come deputato, fu abbracciato dal presidente VILLA e applaudito a lungo dall'Assemblea.
Quello stesso giorno era cominciata alla Camera l'accesa discussione del bilancio degli Esteri per l'esercizio 1895-96 ed avevano parlato gli onorevoli BONIN, BRANCA, IMBRIANI e GIUSSO sulla politica italiana in Africa.

La discussione continuò il 27, il 29 e il 30 e vi parteciparono FIANCHETTI, CAMPI, DAL VERME, A VALLE, APRILE, POMPILÌ, IMBRIANI, DI RUDINÌ, BRIN, CAVALLOTTI. Si parlò della colonizzazione in Eritrea, della missione scioana a Pietroburgo, della sfera d'influenza italiana sulla costa somala, di Cassala, dei successi militari in Africa.
Avuti colloqui con il presidente del Consiglio e con i ministri degli Esteri e della Guerra, BARATIERI - com'egli stesso conferma nelle sue Memorie - ottenne "quello che invano chiedeva da mesi e mesi, quello che era urgente e possibile di ottenere nelle discrepanze del Ministero circa la questione africana, cioè la permanenza in Africa di due battaglioni bianchi - che invece sarebbero dovuti rimpatriare; la conservazione dei battaglioni indigeni - che, ridotto il bilancio a nove milioni, si sarebbero invece dovuti ridurre di un terzo; la sanatoria per gli ascari arruolati fuori quadro; l'aumento di altri mille ascari; l'acquisto di 700 bestie da soma. In denaro e, salvo a riduzione che si sarebbero fatte quando fosse svanito ogni pericolo per la colonia, la spesa veniva, a corrispondere a circa quattordici milioni".

Il generale ARIMONDI, governatore interinale della colonia, mandava intanto buone notizie. Il 10 agosto 1895, telegrafava: "MAKONNEN ha congedato le truppe; CAPACCI è stato liberato, ma, essendo sotto sorveglianza è nell'impossibilità di corrispondere; SCHEK THALA, che riunisce intorno a sé elementi musulmani avversi allo Scioà, si è recato a Ghiscè. PERSICO, recatosi a Terù per conferire, telegrafava che ritardò il convegno in vista del suo movimento. RAS OLIÈ ripiega nello Jeggiù: Ras MANGASCIÀ, impressionato dell'abbandono di RAS OLIÈ, è sempre al sud di Antalo. Cassala è tranquilla; MENELIK è rientrato a Addis-Abeba".

Nota d. r.: MENELICK è rientrato a Addis-Abeba, ma può ora contare su rifornimenti di armi e munizioni provenienti dalla Francia (che così spera di indebolire l'Italia e la Triplice) e contemporaneamente la Russia (alleata della Francia) fin da gennaio, ha inviato una missione diplomatica nella capitale.

Altre buone notizie inviava a Roma il giorno dopo ARIMONDI, ma in seguito, i suoi dispacci iniziarono a essere preoccupanti. Un suo telegramma del 4 settembre diceva: "RAS OLIÈ pare sia avanzato verso Ascianghi. Ras MANGASCIÀ è sempre a Debra Ailà da dove ha spinto vari gruppi al confine creando una viva agitazione, e provocando qualche avvisaglia".
Con telegramma del 10 settembre l'ARIMONDI sollecitava il ritorno di BARATIERI.

Questi salpò da Brindisi il 15 settembre. Giunto a Aden, il 24 settembre telegrafò: "Si annunciano intenzione ostili da parte di Ras MANGASCIÀ. Il generale Arimondi è partito per Adigrat per parare un eventuale colpo".
Il 26 settembre, da Massana, inviò quest'altro telegramma: "Il contegno di Menelik e di Mangascià m'induce a chiamare la Milizia mobile e a recarmi a Adigrat domani stesso".
Il 30 settembre tornò a telegrafare: "Necessita prevenire defezioni, decidere incerti, imporsi nemico prima di un'eventuale arrivo degli Scioani già annunciato da varie parti".

Poiché il nemico più vicino era ras MANGASCIÀ che si trovava a Debra Ailà, BARATIERI costituì nella zona di Adigrat un campo di osservazione, in cui il 6 ottobre si trovavano concentrati 116 ufficiali, 672 soldati bianchi, 8.065 soldati indigeni, 1.200 quadrupedi, 10 cannoni di montagna e alcune bande indigene. Quel giorno stesso il corpo eritreo cominciò i suoi movimenti che avevano lo scopo di raggiungere Debra Ailà, attaccarvi Mangascià e precludergli la ritirata verso Ascianghi.
Quest'ultimo compito era stato affidato ai maggiore TOSELLI, che comandava il IV Indigeni, una sezione di Artiglieria e le bande dell'Agamò. Il corpo principale, comandato dal generale BARATIERI, doveva marciare da Adigrat per Agulà su Dolo ed era formato dal battaglione cacciatori italiani, da quattro battaglioni indigeni (I, II, III e IV), dalla 2a batteria e da una sezione della 1a; l'avanguardia di questo corpo era comandata dal maggiore AMEGLIO costituito dal V battaglione Indigeni, da una sezione d'artiglieria e dalle bande del Seraè e del Tigre.

Il 9 ottobre 1895, quasi l'intero corpo d'operazione era sulle alture di Antalò, presso Debra Ailà; ma ras MANGASCIÀ già non c'era più; appresa l'avanzata degli Italiani aveva ripiegato verso il lago di Ascianghi con il grosso lasciando sull'amba di Debra Ailà, a protezione della ritirata, circa 1300 tigrini.
"Per riconoscere il nemico a Dobra Ailà - scrive il Baratieri nelle sue "Memorie"- avanza il battaglione di AMEGLIO con le bande del Seraè e del Tigrè e con una mezza batteria. L'amba è ancora guarnita e dal ciglio iniziano delle fucilate molto vive. La forma del terreno non permette a noi di spiegare un maggior numero di truppe; tuttavia l'iniziativa è presa, micidiale riuscirebbe l'indugio. E quindi il maggiore AMEGLIO si lancia all'attacco, mentre il maggiore TOSELLI ha l'ordine di appostarsi in basso, in vista, in modo da portare soccorso da Antalò per tagliare possibilmente la via di ritirata verso Amba Alagi. Ma la resistenza nemica, all'inizio vigorosa per i vantaggi tattici del luogo dominante, dura assai poco. Mentre la batteria italiana continua il suo fuoco calmo ed aggiustato, la prima schiera in due balzi raggiunse l'angolo morto, sotto l'irto muraglione dell'amba: e, preso un po' di fiato al coperto dai tiri, si arrampica poi per gli scarsi punti accessibili; frattanto il nemico si disperde e scappa con l'incredibile agilità dei nativi per le boscaglie, per burroni, per gli anfratti. E' tutto un suolo solcato e rotto, attraversato da balze, ingombro di rocce sgretolate e sfasciate, donde sbucano cespugli e piante tropicale, tutto un rigoglio di vegetazione. In tali condizioni, l'inseguimento avrebbe disciolto i legami tattici: onde il maggiore AMEGLIO fece suonare l'adunata e mise il campo nello stesso luogo dove era accampato prima il Ras .... Noi abbiamo avuto 11 morti e 30 feriti; i nemici forse una trentina di morti ed un centinaio di feriti".

Il 13 ottobre il governatore inviò il generale ARIMONDI con tre battaglioni indigeni e una batteria contro Amba Alagi per snidarvi MANGASCIÀ. Questi riuscì a sfuggire ancora; l'Amba fu occupata dagli italiani, vi liberarono ras SEBATH, capo dell'Agamè, prigioniero di Mangascià, che fu nominato capo dell'Endertà; e al degiacc ALI, che offrì la sua sottomissione, gli fu riconosciuta la signoria dell'Enda Meconnì.

Il 16 ottobre 1895, al generale ARIMONDI fu dato il governo del territorio a sud del Mareb-Belesa-Muna e il comando di tutte le truppe là dislocate, in complesso 6350 fucili e sei pezzi da montagna. Arimondi doveva fare di Adigrat il perno della difesa del Tigrè e dell'Agamè, tenendo più a sud, per mantenere in rispetto ras Mangascià, un forte distaccamento. Portatosi prima ad Antalò e poi a Makallè, dove era in via di costruzione il forte di Enda Jesus, Arimondi fece ritorno a Adigrat. Il generale Baratieri ritornó a Massaua.

COMBATTIMENTO DI AMBA ALAGI E DI ADERA'

I primi di novembre facendosi sempre più insistenti le notizie che truppe etiopiche andavano concentrandosi a sud del lago Ascianghi, BARATIERI telegrafò al generale ARIMONDI:
"Ora che alcuni capi d'oltre frontiera sono e si dichiarano uniti a noi contro il comune nemico, bisogna trarne partito per dar un indirizzo ed unirli nell'intento comune. Potranno giovare le relazioni assidue, e magari un distaccamento volante ad Amba Alagi con un ufficiale sveglio e intelligente; questi nell'agire potrà determinare altri ad unirsi a noi, oltre a prevenire discordie fra i nostri, a tenerli a freno, a sorvegliare gli incerti".

In seguito a tale telegramma, il 16 novembre l'Arimondi inviò all'Amba Alagi la compagnia Persico del III Indigeni.
Il 24 novembre il maggiore TOSELLI, per fare una ricognizione nel Seloà e nell'Enda Meconnì, partì da Makallè con il IV battaglione Indigeni, la 1a batteria da montagna e la banda di Ras Sebath verso Ambra Alagi e di là appreso che il grosso dell'esercito etiopico con MENELIK si trovava a Uorrò Ailù, mentre l'avanguardia comandata da Ras MAKONNEN, che aveva con sé le truppe dei ras ALULA, OLIÒ, MANGASCIÀ e MIKAEL, marciava verso l'Ascianghi - si spinse verso Belejo per osservare il nemico ed ostacolarne l'avanzata.
ARIMONDI ricevute informazioni da TOSELLI sui movimenti nemici, chiese istruzioni a BARATIERI, che il 30 rispose annunciandogli di avergli mandato in rinforzo tre compagnie del VI Indigeni e consigliandogli di "tenere al possibile riunite, sottomano, in grossi gruppi intorno a Makallè" le forze costituite da 4.500 regolari e dalle bande dell'Agamè, del Tigrè, del Seraè, dell'Acchelè-Guzai, dell'Endertà e dell'Enda Meconnì. Nello stesso tempo il Governatore ordinò la mobilitazione delle truppe della Colonia e il concentramento da Cheren e Asmara a Adigrat dei battaglioni I, VI, VII e VIII, della Milizia Mobile e della 2a batteria da montagna.

Il 30 novembre 1895, il generale ARIMONDI, ricevute le istruzioni del Governatore, ordinò per il 5 dicembre il concentramento a Makallè di 14 compagnie e le bande indigene, e comunicò a TOSELLI le direttive di BARATIERI dandogli facoltà di "mantenersi in posizione a Belejò oppure di ripiegare ai piedi di Amba Alagi, secondo circostanze".

TOSELLI, il 1° dicembre, avanzando MAKONNEN alla testa di 30.000 uomini, ripiegò su Atzalà, dove i suoi avamposti scambiarono qualche fucilate con il nemico. Contemporaneamente chiese rinforzi al generale ARIMONDI, il quale gli rispose che "sarebbe accorso il giorno 6 dicembre con sei compagnie e una sezione d'artiglieria".
Ma il giorno 5 il generale BARATIERI, informato delle intenzioni dell'Arimondi, gli telegrafò:
"Non conviene allontanarsi da Makallè perché non essendo ancora avvenuto il concentramento, si avrebbe una divisione di forze e gravi difficoltà per l'approvvigionamento. Il Maggiore TOSELLI tenga contatto fin che può, poi ripieghi con la maggiore lentezza possibile".
Il 6 dicembre mattina ARIMONDI trasmise l'ordine del governatore a TOSELLI; ma era ormai tardi, già sotto pressione del nemico, Toselli non lo ricevette nemmeno e rimase convinto che doveva resistere più a lungo possibile sull'Amba Alagi, in attesa del giorno 6 dicembre delle 6 compagnie promesse e guidate da ARIMONDI.

Infatti, ventiquattrore prima, il 5 sera, il maggiore TOSELLI aveva scritto al generale ARIMONDI che prevedeva di dover combattere il 7. Il 6 Arimondi (anche se aveva già inviato l'altro ordine) propose a BARATIERI di avanzare con una parte delle proprie truppe fino ad Afgol per sostenere il ripiegamento di TOSELLI e, insieme con lui, fare "un'attiva difesa avanzata del forte di Makallè". Avuta l'autorizzazione, ARIMONDI la notte del 6 partì da Makallè con sei compagnie, una sezione di artiglieria e la banda di degiacc FAUTÀ, in tutto circa 1500 uomini, avvisando Toselli della sua mossa (che come il precedente ordine non ricevette).

Il maggior Toselli disponeva di 4 cannoni e di 2350 fucili. Prevedendo pel giorno 7 un attacco nemico, la sera del 6 dispose le sue truppe a difesa dell'Amba, collocando le bande di ras Sebath e di degiacc Alì all'estrema sinistra, sulle alture sovrastanti la via di Felagà, con sulla destra, a sostegno, la compagnia Issel, facendo spingere la compagnia Canovetti verso Atzalà, mettendo al centro, sotto l'Amba, la batteria, scortata dalla compagnia Persico, e a destra, sul colle di Tagorà, la banda di Scech Thala, mandando il tenente VOLPICELLI con le bande dell'Acchelè-Guzai avanti a quelle di Scech Thala e ponendo le compagnie Ricci e Bruzzi e la centuria Pagella, di riserva, sotto l'Amba, presso la chiesa.
Le colonne nemiche - come aveva previsto Toselli- presero contatto il mattino del giorno 7. Primi ad entrare in azione furono forti gruppi di fanteria e cavalleria abissina che, urtati contro la centuria Mazzei della compagnia Canovetti, furono respinti.

Una forte colonna agli ordini di ras Oliè, avanzando celermente verso il colle Felagà, attaccò frontalmente e avvolse dalla sinistra le bande di ras Sebath e degiacc Ali, che, non potendo resistere al gran numero dei nemici, ripiegarono sulla compagnia Issel, alla cui destra, poco dopo, si portò la compagnia Canovetti, che aveva inflitto gravi perdite agli Scioani.
Contro queste due compagnie, che resistevano valorosamente da due ore agli attacchi delle numerose forze abissine, si gettò una forte colonna nemica, di circa quindicimila uomini, comandata da ras MIKAEL e ras MAKONNEN. Allora il maggiore TOSELLI lanciò contro di loro la compagnia Ricci della riserva, che, impegnandosi a fondo, costrinse gli assalitori a ripiegare.
Erano circa le 10 del mattino, al centro il nemico, quantunque i tiri della batteria italiana producessero squarci enormi nella sue file, avanzava lentamente ma inesorabilmente, poi si aggiunse ed entrò in azione un'altra colonna, costituita dalle forze di ras ALULA e di ras MANGASCIÀ, la quale, puntando sul colle di Tagorà, tendeva ad aggirare la destra.

TOSELLI allora, nell'impossibilità di tenere un fronte molto esteso, ordinò alle compagnie Issel, Canovetti e Ricci di ritirarsi a ridosso dell'Amba, incolonnò le salmerie sulla strada di Tagorà e a protezione del ripiegamento, mandò la centuria Pagella (che fu poi l'unica in parte a salvarsi).
TOSELLI, in tutta la mattinata aveva sempre atteso l'arrivo del generale ARIMONDI, ma alle 12.40, perduta ogni speranza di soccorso e assalito di fronte e dai fianchi dalle interminabili orde nemiche, ordinò la ritirata sotto la protezione della compagnia Bruzzi. Ma, data la strettezza della via in cui le truppe erano costrette a muoversi, il disordine con cui ripiegavano le alleate bande e i tiri degli Scioani che avevano già guadagnato la spianata dell'Amba, la ritirata non poteva effettuarsi ordinatamente.
Nonostante i disperati sforzi della compagnia Bruzzi, della centuria Pagella e della sezione Manfredini, il ripiegamento si mutò in rotta.

Ultimo a ritirarsi, con un manipolo di uomini e di ufficiali fu il Maggiore TOSELLI, che cadde da eroe presso la chiesa di Bet Mariam. Con lui, in quello sfortunato ma glorioso combattimento, caddero diciotto ufficiali; i soldati uccisi o dispersi furono circa 2000.

Alcune centinaia di superstiti dell'Amba Alagi, guidate dai tenenti PAGELLA e BODRERO, attraverso Mai Mesghì, giunsero verso le 16.30 all'Aderà, dove il generale Arimondi, era giunto poco prima con due compagnie del III battaglione, tre del V, una del VII, una sezione da montagna. Ma proprio in quel momento anche lui era attaccato da una forte colonna nemica. L'Arimondi, riuniti i superstiti e difendendosi energicamente con il nemico, riuscì a disimpegnarsi e ripiegò verso Makallè dove vi arrivò all'alba del giorno dopo; 8 dicembre 1895

 
 
 

Storia: Anni 1889-1895. Parte Prima.

Post n°54 pubblicato il 12 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia: Anni 1889-1895. Parte Prima.

GUERRA D'AFRICA - PATTI E ACCORDI - POI, L'AMBA ALAGI

IL PROTETTORATO ITALIANO SUI SULTANATI DI OBBIA E DEI MIGIURTINI E SULLA COSTA DEL BENADIR - IL PROTOCOLLO ITALO-INGLESE DEL 21 MARZO 1891 - ESPLORAZIONI DEL ROBECCHI-BRICCHETTI, DEL FERRANDI, DEL BÒTTEGO E DEL RUSPALI IN SOMALIA - CONVENZIONE TRA L' ITALIA, L'INGHILTERRA E IL SULTANO DI ZANZIBAR - LA COMPAGNIA FILONARDI - PROTOCOLLO ITALO-INGLESE PER LA DELIMITAZIONE DELLA SFERA D'INFLUENZA NELL'AFRICA ORIENTALE - UCCISIONE DEL SOTTOTENENTE DI VASCELLO ZAVAGLI - PRIMO COMBATTIMENTO DI AGORDAT - COMBATTIMENTO DI SEROBETÌ - SECONDO COMBATTIMENTO DI AGORDAT - PRESA DI CASSALA - INSURREZIONE DELL'ACCHELÈ-GUZAI - COMBATTIMENTO DI HALAI - LE GIORNATE DI COATIT E SENAFÈ
 
IL PROTETTORATO ITALIANO SUI SULTANATI
ESPLORAZIONI ITALIANE NELLA SOMALIA
PROTOCOLLI ITALO-INGLESI
CONVENZIONE CON L'INGHILTERRA E IL SULTANO DI ZANZIBAR

In Africa l'Italia, oltre che nella colonia Eritrea aveva estesa sua azione sulla costa somala. L'8 febbraio del 1889, con atto portante le firme del console italiano V. FILONARDI e di IUSUF ALÌ sultano di Obbia, quest'ultimo metteva sotto il protettorato d'Italia tutto il suo territorio da El Mareck a Ras Ouad e riceveva un compenso annuo di mille e duecento talleri; il 7 aprile del medesimo anno il Filonardi, in nome del re d'Italia, stipulava un altro trattato con il quale il sultano dei Migiurtini OSMAR MAHMUD anche lui metteva sotto la protezione italiana il suo territorio che dalla vallata del Nogal giungeva a Ras Anad, e riceveva un compenso annuo di milleottocento talleri.

In conformità dell'articolo 34 dell'atto generale di Berlino questi due trattati furono, il 16 maggio del 1889, regolarmente notificati alle Potenze. Alle quali, il 18 novembre di quell'anno medesimo, era notificato che in data del 15 dello stesso mese il governo italiano aveva assunto il protettorato della costa del Benadir, "dal limite nord del territorio di Kisimajo al 2°30' latitudine nord", eccettuate le stazioni di Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceich, soggette al sultano di Zanzibar.
A definire i confini dell'hinterland il 24 marzo del 1891 dal marchese di RUDINI per l'Italia e dal marchese DUFFERIN per l'Inghilterra fu firmato un protocollo che stabiliva quanto segue:

1° La linea di confine tra le sfere d'influenza rispettivamente riservate all'Italia e alla Gran Bretagna, seguirà, a partire dal mare il "thalveg" del fiume Giuba, sino al 6° di latitudine nord: Kisimajo, col suo territorio alla destra del fiume, restano all'Inghilterra. La linea seguirà quindi il parallelo 6° nord: fino al meridiano 35° est Greenwich che rimonterà fino al Nilo Azzurro;
2° Se per esplorazioni ulteriori ne venisse l'opportunità, il tracciato seguente il 6° latitudine nord, ed il 35° longitudine est Greenwich potrebbe, nei suoi particolari essere, di comune accordo, modificato, secondo le condizioni idrografiche ed orografiche del paese.

La Somalia divenne allora campo di azione di audaci esploratori italiani. L'ingegnere BRICCHETTI-ROBECCHI, che nel 1890 aveva per primo compiuto un viaggio terrestre da Obbia ad Alula, nel 1891, partito da Mogadiscio giunse a Berbera, attraversando per primo la penisola dei Somali dall'Oceano Indiano al Golfo di Aden.
Nel 1891-92 UGO FERRANDI esplorò le basse valli dell'Uebi-Scebeli e del Giuba e nel gennaio del 1893 sì spinse fino a Bardera.
Nel 1892 il capitano VITTORIO BÒTTEGO, partito da Berbera, attraversò l'Ogaden ed esplorò gli affluenti del Genana, spingendosi fino ai Sidama. Parte della spedizione, esplorato il medio e basso Dana, entrò nel maggio del 1893 a Lugh, dove poco dopo giunse il principe EUGENIO RUSPOLI, proveniente da Berbera. A Lugh Ruspoli lasciò ammalati i compagni BORCHARDT e DAL SENO, quindi si spinse nel territorio degli Amara Burgi, dove in un incidente caccia perse la vita.
Nel luglio BÒTTEGO si fermò a Lugh, poi presi con sé Borchardt e Dal Seno guariti, raggiunse la costa dell'Oceano Indiano a Brava.
Per ovviare agli inconvenienti che il possesso di Mogadiscio, Merca, Brava e Uarsceich da parte del sultano di Zanzibar produceva questa attività nel Benadir il 12 agosto del 1893 tra il sultano di Zanzibar, il Governo italiano e il Governo inglese fu convenuto che l'Italia avrebbe assunto l'amministrazione delle suddette città, rimanendone al sultano la sovranità.

Nel novembre del medesimo anno, con subconcessione, riconosciuta dal sultano e dall'Inghilterra, la ditta FILONARDI e C. sostituiva il Governo Italiano per un periodo di tre anni nell'amministrazione del Benadir.
Il 5 maggio del 1894 a Roma, da FRANCESCO CRISPI e da Sir FRANCIS CLARE FORD fu firmato un altro protocollo per la delimitazione delle sfere d'influenza fra la Gran Bretagna e l'Italia nell'Africa Orientale, convenendosi quanto segue:

1° Il limite delle sfere d'influenza della Gran Bretagna e dell'Italia nelle regioni del Golfo d'Aden è costituito da una linea che, partendo da Gildessa e dirigendosi verso l'8° latitudine nord, contorna la frontiera nord-est dei territori delle Tribù Gizzi, Bertiri e Ber-Alì, lasciando a destra i villaggi di Gildessa, Darmi, Gig-giga e Milmil. Arrivata all'8° latitudine nord la linea s'identifica con quel parallelo fino alla sua intersezione col 48° est Greenwich. Si dirige in seguito all'intersezione nord del 9° latitudine nord col 49° est Greenwich, e segue quel meridiano fino al mare.
2° I due Governi s'impegnano di conformarsi nelle regioni del Protettorato Britannico ed in quelle dell'Ogaden, a favore così dei sudditi e protetti Britannici ed Italiani come delle tribù che abitano quei territori, alle stipulazioni dell'atto generale di Berlino e della dichiarazione di Bruxelles relative alla libertà del commercio.
3° Nel porto di Zeila vi sarà eguaglianza di trattamento fra i sudditi e protetti Britannici ed Italiani in tutto ciò che concerne le loro persone e i loro beni e l'esercizio del commercio e dell'industria.

Regnava nella Somalia la massima calma; solo un luttuoso fatto era avvenuto il 30 aprile del 1890 ad Uarsceich, dove dagli indigeni era stato ucciso il sottotenente di vascello ZAVAGLI della R. nave "Volta" ed erano stati feriti il sotto nocchiero BERTOLUCCI e il marinaio BERTORELLI; ma altri gravi fatti stavano per avvenire in Eritrea, dove due nemici pericolosi entrambi l'Italia doveva combattere: i Dervisci e gli Abissini.

COMBATTIMENTI DI SEROBETÌ E DI AGORDAT
PRESA DI CASSALA - INSURREZIONE DELL'ACCHELE' GUZAI
COMBATTIMENTI DI HALAI, COATIT E SENAFÈ

Nel giugno 1890 un migliaio di Dervisci, calati fra le tribù dei Beni Amer, protette dall'Italia, razziava e devastava la regione di Degà (Agordat). Alcuni giorni dopo, il maggiore CORTESE, che comandava il presidio di Cheren, si mosse in aiuto dei Beni Amer con due colonne, una diretta su Degà, l'altra su Biscia. Quest'ultima, comandata del capitano FARA, raggiunti i razziatori la mattina del 27 giugno, li attaccò e li sbaragliò, uccidendone 250, ricuperando il bottino, conquistando 116 fucili e facendo numerosi prigionieri.

Dopo questa vittoria, ad Agordat fu posto un presidio. La lezione ricevuta, tenne per circa due anni in rispetto i Dervisci: ma nel giugno del 1892 un migliaio di loro, uscito da Cassala, fece un'incursione nella valle del Mogareb. Contro di loro mosse, il 16 giugno, da Agordat, il capitano HIDALGO, il quale affrontati a Serabetì, li attaccò e li disperse, uccidendone 150.
Questo secondo successo assicurò la tranquillità per diciotto mesi alla colonia italiana sulle frontiere del Sudan; ma verso la metà del dicembre del 1893 circa diecimila Dervisci mossero da Cassala verso Agordat e giunsero in vista di quel forte il 21 di quel mese, fermandosi tra i villaggi di Algheden e Sabderat. A fronteggiarli corse il colonnello ARIMONDI, governatore interinale della colonia in assenza del generale BARATIERI allora in Italia; aveva a sua disposizione il battaglione Fadda, il battaglione Galliano, lo quadrone Asmara (cap. FLAMORIN), lo squadrone Cheren (cap. CARCHIDIO), la batteria Ciccodicola, la batteria Bianchini e la banda del Barca del tenente MIANI; in complesso 42 ufficiali, 32 uomini di truppa italiana, 2106 ascari, 213 cavalli e 8 cannoni, oltre la compagnia Persico con le bande dell'Acchelè-Guzai, in marcia verso Agordat. Comandante in seconda era il ten. col. CORTESE.

Verso il mezzogiorno del 21 dicembre 1892 l' ARIMONDI fece muovere all'attacco l'ala destra, ma questa, sopraffatta dal numero dei nemici, dopo un furioso combattimento, dovette ripiegare ordinatamente, lasciando una batteria e costringendo al ripiegamento anche l'ala sinistra. Verso le ore 13 però, entrate in azione le riserve, gli italiani passarono al contrattacco, respinsero i Dervisci, riconquistarono i pezzi e, dopo sanguinose mischie, misero in rotta completa il nemico, che fu inseguito per alcune ore.
Brillanti furono i risultati della vittoria: i Dervisci lasciarono sul terreno 1000 morti, 72 bandiere e oltre 700 fucili; gli Italiani tre ufficiali morti, due feriti e 230 uomini di truppa morti e feriti. Fra i nemici morti si annoverò l'emiro Ahmet M, comandante supremo.

Per togliere ai Dervisci un'importantissima base d'operazione contro la Colonia Eritrea, il generale BARATIERI decise di assalire Cassala, sebbene questa città non fosse compresa nella nostra zona d'influenza, e il 12 luglio del 1894 radunò ad Agordat il corpo che doveva operare, composto del I Battaglione Indigeni del maggiore TURITTO (3 compagnie coi capitani SEVERI, SPREAFICO e SANDRINI), del II Battaglione Indigeni del maggiore HIDALGO (5 compagnie coi capitani MARTINELLI, BARBANTI, MAGNAGHI, ODDONE e il tenente BERUTO), del III Battaglione Indigeni del capitano FOLCHI (3 compagnie coi capitani CASTELLAZZI e PERSICO e il tenente ANGHERÀ), della 2a compagnia Perini del IV Indigeni, dello squadrone Cheren (cap. CARCHIDIO), e della sezione d'artiglieria del tenente MANFREDINI, in tutto 1600 uomini, dei quali 56 ufficiali e 41 uomini di truppa bianca; in più 145 cavalli, 250 muli e 183 cammelli.

Partito il 13 luglio, il corpo d'operazione giunse il 16 nella gola di Sabderat, dove pose il campo e il 17 mattina mosse su Cassala e dopo una breve azione di cavalleria, assalì il campo mahdista e la città, che poi espugnarono a viva forza. Gli italiani perdettero il capitano CARCHIDIO, caduto durante una carica di cavalleria, e 27 soldati; 2 capi e 39 ascari furono feriti; presi 600 facili, 700 lame, 100 sciabole, 52 bandiere, 2 cannoni, quadrupedi.
Il nemico, forte di 2000 fanti e 600 cavalli, fu inseguito verso l'Otbara.
Per la presa di Cassala, dove fu lasciato il maggiore TURITTO con un migliaio di uomini, il BARATTIERI ricevette un'alta onorificenza militare e un telegramma di felicitazioni del sovrano: "Il successo delle nostre armi è un nuovo trionfo della civiltà. Il possesso di Cassala ridà la pace alle tribù da noi protette, assicura la via del Sudan ai commerci della nostra colonia ed è un nuovo titolo di onore per l'Italia in codeste contrade".

Le vittorie sui Dervisci rendevano sicura la frontiera del Sudan, ma non migliorano le relazioni italiane con l'Abissinia i cui sospetti al riguardo crescevano sempre di più. Si era tentato un ravvicinamento a MENELICK inviandogli in missione speciale il colonnello GIUSEPPE PIANO, però la missione, non solo era fallita, ma aveva messo in sospetto ras MANGASCIÀ, il quale, temendo per sé dalla politica italiana a due facce, aveva ceduto agli inviti del Negus e nell'aprile del 1894 si era recato a Addis Abeba a fare atto di sottomissione all'Imperatore. Questi gli aveva promesso di dargli Tigrè, ma a patto che cacciasse di là, gli Italiani.

Ritornato da Addis Abeba, ras Mangascià cominciò a sobillare contro l'Italia i capi indigeni dei paesi non occupati militarmente. Il primo che il ras guadagnò alla sua causa fu il capo abissino BATHA AGOS, che governava, in nome dell'Italia l'Acchelè-Guzai, e dove l'Italia aveva una sola compagnia di truppe indigene agli ordini del capitano CASTELLAZZI, dislocata nel forte di Balai e il tenente SANGUINETTI, residente in Saganeiti come rappresentante del Governo italiano. BATHA AGOS il 14 dicembre 1894, si ribellò, fece imprigionare il Sanguinetti e si proclamò signore dell'Acchelè-Guzai.

La notizia della rivolta giunse al generale BARATIERI a Cheren il giorno dopo. Subito ordinò al maggiore TOSELLI di muovere dall'Asmara con il suo battaglione contro i ribelli. Il Toselli, giunto il 16 dicembre a Maharaba, iniziò trattative con Batha Agos per la restituzione del tenente Sanguinetti, ma, ricevuti rinforzi, si apprestò ad assalire i ribelli Saganeiti, donde però questi ultimi, nella notte dal 17 al 18, in numero di 1600, erano partiti per Balai, nella speranza di impadronirsi del forte e catturare la compagnia di Castellazzi.

Il maggiore TOSELLI, senza indugiare, mosse verso Ralai e vi giunse poco prima del tramonto del 18, in tempo per liberare Castellazzi, che con i suoi 250 uomini aveva resistito valorosamente agli assalti del nemico sei volte più numeroso. Presi tra due fuochi gli assalitori furono pienamente sconfitti e si diedero alla fuga, lasciando sul campo moltissimi morti tra cui lo stesso BATHA AGOS.
Morto il capo, l'Acchelè-Guzai fu prontamente sottomesso. Circa 1200 fucili furono consegnati e il tenente Sanguinetti fu liberato; ma la situazione rimase grave per il contegno ostile di ras Mangascià, che si trovava, nell'Eutiscio, e per i movimenti di altri capi.

Deciso ad agire energicamente, BARATIERI concentrò a Adi Ugri 3.500 soldati e, poiché ras Mangascià non rispondeva ad un suo ordine di licenziare gli armati dell'Eutiscio, ma negoziava con i Dervisci per attaccare con loro gli Italiani e aveva guadagnato alla sua causa ras AGOS TAFANI, il 27 mattina, lasciati a guardia del ciglione di Gundet 100 uomini della banda del Seraè, partì per Adua, dove giunse nel pomeriggio del 28 dicembre 1894.
Qui rimase tre giorni. Poi il 10 gennaio del 1895 il generale BARATIERI ritornò sui suoi passi e la sera del 2 febbraio giunse ad Adiqualà, distaccò il maggiore Ridalgo con il suo battaglione verso Addise Addi e Coatit; quindi proseguì con il grosso in direzione di Adi Ugri.

Giungendo notizia che ras MANGASCIÀ concentrava le sue truppe verso Mai Maman, il generale BARATIERI, per osservar meglio le mosse del nemico, il 9 febbraio occupò Chenafenà e il 12 passò il Mareb dirigendosi ad Addise Addì, donde, la mattina stessa di quel giorno, per prevenirvi il nemico che vi si era diretto, si mise in marcia alla volta di Coatit con una colonna composta del II, del III e del IV Battaglioni Indigeni comandati rispettivamente dai maggiori HIDALGO, GALLIANO e TOSELLI, della batteria Ciecodicola, di un plotone di cavalleria al comando del tenente FERRARI e delle bande dell'Acchelè-Guzai e del Seraè, capitanate dai tenenti SANGUINETTI e MULAZZANI, in complesso 3900 uomini circa, di cui 65 ufficiali e 42 uomini di truppa bianca.

Prima di sera le truppe italiane erano in posizione a Coatit e sorvegliavano il nemico, forte di circa 15 mila uomini, accampato nella valle. Il 13 febbraio mattina gli italiani attaccarono.
La battaglia ora infuriando, ora languendo, durò tutto il giorno. Pericoloso fu un tentativo nemico di aggiramento che fu sventato e valorosamente fronteggiato dalle truppe italiane. La notte passò tranquilla e la giornata del 14 trascorse senza azioni di rilievo. Il generale BARATIERI aveva deciso di attaccare nuovamente il 15, ma durante la notte ras Mangascià abbandonò le sue posizioni dirigendosi verso lo Scimenzana.
Le truppe italiane inseguirono il nemico per tutto il giorno e, verso il tramonto, aprì il fuoco delle artiglierie dall'Amba Terica sulla conca di Senafè, dove si era fermato ras MANGASCIÀ. Questi, durante la notte, molestato dal bombardamento che aveva colpito la sua stessa tenda, levò il campo nel massimo disordine fuggendo verso l'Agamè.

La mattina del 16 febbraio, BARATIERI occupò la conca di Senafè; qui apprese che il nemico aveva perso più di mille uomini e diede incarico d'inseguire Mangascià, al degiac AGOS TAFARÌ, che si era presentato quello stesso giorno al governatore con molti capi dello Scimenzana, gli fece giuramento di fedeltà e s'impegnò a marciare su Adigrat e occuparlo.

Il 18 febbraio, lasciato a Senafè con due compagnie il maggiore GALLIANO, BARATIERI con il grosso del suo corpo passò nell'Acchelè-Guzai; ordinò, il 20, la costruzione di un forte a Saganeiti, stabilì presidii ad Addise Addi ed Adi Caiè e il 23, all'Asmara, sciolse il corpo d'operazione.

 
 
 

Storia. Anni 1891-1892.

Post n°53 pubblicato il 12 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1891-1892.

FORMAZIONE DEL MINISTERO DI RUDINÌ; IL PROGRAMMA - NEGOZIATI ITALO-INGLESI PER DELIMITARE I CONFINI TRA L'ERITREA E IL SUDAN - LA NOMINA DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I FATTI COMPIUTI DA CAGNASSI E DA LIVRAGHI - DISCUSSIONE PARLAMENTARE DI ALCUNI DISEGNI DI LEGGE E INTORNO ALLA POLITICA E AGLI INTERESSI ITALIANI IN AFRICA - LA POLITICA TIGRINA - IL CONVEGNO DEL MAREB - IL GEN. GANDOLFI SOSTITUITO DAL COL. BARATIERI - UCCISIONE DEL CAPITANO BETTINI

FORMAZIONE DEL MINISTERO DI RUDINÌ

Con il precedente capitolo abbiamo fatto una pausa sulle vicende africane (che riprenderemo dopo questo capitolo, dopo quello su Giolitti, e quello su Crispi). Ripartiamo dal secondo ministero Crispi, e alle sue dimissioni nel gennaio 1891; che fu costretto a darle, quando, ribattendo alle forti critiche sul suo governo (soprattutto a Borghi), perse le staffe e con violenza accusò la destra di aver condotto, quando erano loro al governo, una "politica servile verso lo straniero!". Sollevò un putiferio proprio dentro le file della destra, cui si unirono quelli della sinistra; che da qualche tempo stava iniziando a diventare una destra moderata e che, nonostante al governo, al pari dell'opposizione, criticava Crispi e l'intera linea della sua politica.

Per formare un nuovo governo si fece alcuni tentativi, tutti falliti, per dar vita ad un Gabinetto di coalizione con Giolitti e Zanardelli

Dato il motivo occasionale della crisi, il nuovo ministero non poteva non avere colore di Destra. A comporlo fu così chiamato dal Sovrano, il marchese ANTONIO STARABBA di RUDINÌ, palermitano e nemico giurato di Crispi, il quale, dopo la morte di LANZA, SELLA e MINGHETTI, era considerato il capo della Destra.

RUDINÌ costituì il nuovo Gabinetto il 6 febbraio del 1891, assumendo la presidenza del Consiglio, gli Esteri e l'interim della Marina (ministero che fu alcuni giorni dopo assegnato all'ammiraglio di SAINT-BON); l'Interno fu affidato a NICOTERA, le Finanze a GIUSEPPE COLOMBO, il Tesoro a LUIGI LUZZATTI, i Lavori Pubblici e l'interim delle Poste e Telegrafi ad ASCANIO BRANCA, la Grazia e Giustizia a LUIGI FERRARIS, la Pubblica Istruzione a PASQUALE VILLARI, la Guerra a LUIGI PELLOUX e l'Agricoltura a BRUNO CHIMIRRI.
Unici ministri della sinistra: Nicotera e Branca.

Il 14 febbraio1891, DI RUDINÌ espose al Parlamento il suo programma preannunciando un regime di economie e un mutamento d'indirizzo rispetto alla politica espansionistica coloniale. La sua sarebbe stata la politica del "raccoglimento e delle economie"; per la politica interna si sarebbero curati l'economia e il decentramento amministrativo e si sarebbe iniziata una legislazione sociale; per la politica finanziaria si sarebbero ritoccate alcune leggi fiscali e riformati gli istituti di emissione, che avrebbero avuto il servizio di tesoreria; inoltre si sarebbero toccati "con mano prudente, ma risoluta, tutti i bilanci, compresi quelli della Guerra e della Marina, per usare ovunque e per tutti, la massima parsimonia"; infine per la politica estera si sarebbe badato a, non abbassare la dignità nazionale, sarebbero state mantenute le alleanze e si sarebbe mostrato alle altre nazioni, specie alla francese, che l'Italia non aveva propositi aggressivi.
Riguardo all'Africa Di Rudinì affermò che avrebbe cercato di restringere le spese.

NEGOZIATI ITALO-INGLESI
PER LA DELIMITAZIONE DEI CONFINI TRA L'ERITREA E IL SUDAN

In Africa Di Rudinì trovava che l'Italia aveva due nemici dai quali doveva guardarsi: gli Abissini e i Dervisci; questi non erano meno pericolosi di quelli. Facendo i Dervisci frequenti incursioni nella colonia italiana ed essendo costrette le truppe di presidio ricacciarli ed inseguirli, Crispi aveva creduto necessario, nel febbraio del 1890 di entrare in trattative con l'Inghilterra per la delimitazione dei confini tra l'Eritrea e il Sudan; ma il 10 ottobre i negoziati erano stati interrotti, perché il governo italiano avrebbe voluto occupare definitivamente Cassala, mentre il Governo inglese pretendeva che l'occupazione di questa città durasse fino alla riconquista del Sudan da parte dell'Egitto.

DI RUDINÌ riprese le trattative che portarono alla firma di due protocolli (Roma, 24 marzo e 15 aprile del 1891) con cui si delimitavano le rispettive zone d'influenza dell'Italia e dell'Inghilterra. In quella italiana furono compresi l'Abissinia, il paese dei Galla e il Caffa. Inoltre all'Italia fu accordata la facoltà di occupare temporaneamente Cassala se era necessario per esigenze militari.

COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I FATTI DI CAGNASSI E LIVRAGHI

Nel marzo l'on. COLAIANNI presentò un'interpellanza alla Camera sulle crudeltà commesse in colonia dal tenente dei carabinieri LIVRAGHI e dall'ufficiale di polizia CAGNASSI. Il 6 marzo DI RUDINÌ dichiarò che il Governo intendeva aprire un'inchiesta e il giorno 11 si svolse alla Camera la discussione sull'"affare Livraghi". Alcuni deputati volevano che si nominasse una Commissione parlamentare d'inchiesta, ma il presidente del Consiglio comunicò di aver provveduto alla nomina di una Commissione reale, composta dei senatori Borgini ed Arnò, del generale Driquet e dei deputati Cambray-Digny, San Giuliano, L. Ferrari e F. Martini.

Nella seduta del 29 aprile iniziò alla Camera la discussione dei tre seguenti disegni di legge;
1° -Autorizzazione di spesa per provvedere ad un'inchiesta disciplinare ed amministrativa nella Colonia Eritrea;
2° - Autorizzazione della spesa di tre milioni da iscriversi al capitolo 39 dell'assestamento del bilancio 1890-91 del Ministero della Guerra;
3° - Modifica all'assestamento della spesa del Ministero degli Affari Esteri per l'esercizio finanziario 1890-91.

DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA E GLI INTERESSI ITALIANI IN AFRICA
La discussione più che i tre suddetti argomenti dei disegni investì la politica e gli interessi dell'Italia in Africa. BOVIO chiamò responsabile il ministero Crispi di non aver saputo trarre profitto dalla morte del Negus Giovanni e di aver aiutato Menelick e propose che si ritirasse il corpo militare, che "rimanesse un manipolo di lavoratori a Massaua, un piccolo presidio che lo proteggesse e si dichiarasse trasformata la Colonia, senza sogni d'impero africano o di protettorato. Se poi la Colonia non si poteva trasformare civilmente in alcun modo, unica via di salute sarebbe stato il ritiro completo".

IMBRIANI notò che la Colonia era diventata strettamente militare, che il Governo civile non aveva mai funzionato e così si erano avute le vergogne del Livraghi e altro; e volendo dimostrare essere l'Africa divenuta scuola di corruzione comunicò che era stato catturato un "sambuco" carico di 35 giovinette schiave che erano poi state distribuite fra ufficiali. Quest'affermazione fece nascere vive proteste e la seduta fu tolta.
La discussione fu ripresa il 30 aprile. L'IMBRIANI parlò del Trattato d'Uccialli e sostenne essere necessario andare via dall'Africa; l'on. DANIELI disse "…essere folli volere imporre con le armi il protettorato in Abissinia" e propose che si riducessero notevolmente le spese per la colonia; l'on. PERRONE di San Martino sostenne la bontà della posizione commerciale di Massaua, che in Abissinia si doveva acquistare un imperio morale con benefici non con conquiste materiali; l'on. DEL BALZO fu d'avviso essere più utile non stipulare alcun trattato con popoli barbari e doversi restringere la nostra occupazione al triangolo Massaua-Asmara-Cheren; l'on. MENOTTI GARIBALDI affermò che nel triangolo suddetto, da lui visitato, non aveva riscontrato possibilità di colonizzazione ma che, nonostante ciò, non si doveva abbandonare la colonia; l'on. FRANCHETTI disse che qualunque atto di debolezza verso Menelick sarebbe stato pericolosissimo ed avrebbe distrutto ogni nostro prestigio; infine l'on. SOLA, ultimo oratore della seduta, parlò della marcia su Adua e dell'opera dei missionari francesi.
Nella tornata del 1° maggio parlarono l'on. Prinetti. che sostenne la necessità del riordinamento della Colonia, e l'on. TURBIGLIO, che prevedeva una grossa guerra con l'Abissinia e proponeva al Governo o di ritirarsi completamente dall'Africa o di rimanervi piantandosi solidamente sul ciglione di Gundet di fronte alla valle del Mareb.
Nella seduta del 5 maggio l'on. BONGHI affermò che il meglio che da noi si poteva fare in Africa era di rinunziare all'art. 17 del trattato di Uccialli, di ripristinare le buone relazioni con Menelick e di restringere quanto più fosse possibile la nostra occupazione; l'on. ANTONELLI fece una breve relazione dell'azione italiana in Africa e dell'opera propria presso Menelick; il presidente del Consiglio DI RUDINÌ dichiarò che la politica del Governo in Africa non sarebbe stata che politica di pace, di lavoro e di giustizia, che l'occupazione militare doveva considerarsi come un fatto transitorio, che non credeva opportuno né di avanzare né di retrocedere, ma credeva che la Colonia dovesse gradatamente trasformarsi in Colonia civile e commerciale, che infine era suo pensiero mantenere militarmente il triangolo Massaua-Cheren-Asmara, finanziandola con una spesa annua di 8 milioni.

Il 6 maggio, chiusa la discussione, si passò allo svolgimento degli ordini del giorno AMBROSOLI, che invitava il Governo alla riduzione dell'occupazione militare; CAVALLETTO che proponeva di mantenere le posizioni acquistate; SONNINO che confidava nell'azione del Governo per la tutela degli interessi economici e militari della Colonia; DANIELI per il passaggio alla discussione degli articoli dei 3 disegni di legge, e BOVIO che invitava il Governo al ritiro dall'Africa.
La Camera votò sull'ordine del giorno Danieli che fu approvato con 196 voti contro 38 e 3 astenuti. Nella stessa seduta, i tre disegni di legge furono approvati senza discussione e nella seduta del 7 votati a scrutinio segreto con i risultati seguenti: 1° disegno: voti favorevoli 160, contrari 48; 2° disegno: favorevoli 168, contrari 39; 3° disegno: favorevoli 170, contrari 38.

Nella seduta del 15 giugno anche il Senato approvò i tre disegni di legge.
La Commissione reale d'inchiesta, partita il 9 aprile, fu di ritorno il 28 giugno. La relazione, distesa da Di SAN GIULIANO, non solo si occupava dell'affare Cagnassi e Livraghi, ma delle condizioni della Colonia. Si sosteneva che l'Eritrea, con il tempo, poteva servire come un parziale sfogo all'emigrazione italiana e bastare finanziariamente a se stessa, ma che non bisognava limitare l'occupazione militare al triangolo Massua-Cheren-Asmara, bensì estenderla fino al Mareb e rafforzarla stringendo amichevoli relazioni con le popolazioni vicine.

LA POLITICA TIGRINA - IL CONVEGNO DEL MAREB

Conseguenza dell'inchiesta fu che il Governo, abbandonando la politica scioana dell'Antonelli, inaugurò una politica tigrina, suggerita anche dal contegno del Negus, il quale, comunicando alle potenze i confini del suo impero indipendente, vi aveva compresa, parte dei territori italiani e della costa dancala.
Scopo della nuova politica era quello di creare imbarazzi a Menelick e d'interporre tra lui e la colonia uno stato indipendente sotto lo scettro di ras MANGASCIA. Questa politica tigrina iniziò il 6 dicembre del 1891 sulle rive del Mareb, con un solenne convegno tra il generale GANDOLFI e ras MANGASCIA, presenti molti capi tra cui ras ALULA, nel quale convegno le due parti stipularono un patto d'amicizia e di pace e presero accordi per un'azione comune contro i Dervisci; e MANGASCIÀ riconobbe all'Italia il confine Mareb-Belesa-Muna.

IL GENERALE GANDOLFI SOSTITUITO DAL COL. BARATIERI

Nel marzo del 1892 il governatore GANDOLFI fu sostituito dal colonnello BARATIERI; comandante militare fu nominato il colonnello ARIMONDI.

UCCISIONE DEL CAPITANO BETTINI

In quello stesso mese il capitano LIONELLO BETTINI, mentre da Molasenai, dove era andato a disporre una banda a servizio di pubblica sicurezza, ritornava con tre soldati ad Az-Johannes, veniva aggredito da un'ottantina di predoni e dopo una fiera resistenza, ucciso.

Il 23 marzo 1892, DI RUDINI, rispondendo ad un'interrogazioni dell'on. DI SAN GIULIANO e dell'on. L. FERRARI sull'uccisione del capitano Bettini e sulle condizioni politiche e di pubblica sicurezza in Eritrea, dichiarava che le condizioni della colonia non erano mutate, né erano mutati i criteri che guidavano la politica del Governo italiano.
Contro questa politica svolsero interpellanze nella seduta del 10 di aprile gli onorevoli LUCIFERO ed ANTONELLI, che criticarono aspramente il convegno del Mareb. Prese anche la parola FERDINANDO MARTINI il quale fece notare che:
"tutte le volte che si parla di Africa, il presidente del Consiglio non riesce a celare un sentimento di noia prodotto da indifferenza. Da tale indifferenza del Governo riguardo all'Africa nasce poi l'indifferenza del paese".
Quello che diceva Martini era una grande verità che lo stesso Di Rudinì riconosceva. Se non noia, sentiva amarezza quando si parlava dell'Africa.
"Il tempo e l'esperienza, se mi persuadono che non si può e non si deve indietreggiare, non giunsero sinora a convincermi che si fece bene ad avanzare. Certo fa pena il pensare che noi dobbiamo fare molti sforzi per tenere questa posizione che occupiamo senza prossime prospettive di benefici. Noi siamo come una sentinella che sta al suo posto; ci stiamo e ci staremo. Ma mi lasci pur dire che io, per conto mio, non ci sto con letizia".

Questi, purtroppo, erano i sentimenti che albergavano nell'animo del presidente italiano del Consiglio, quando l'Italia aveva bisogno di un capo che avesse coscienza coloniale, la infondesse al paese e seguisse nei riguardi dell'Abissinia una politica illuminata e/o vigorosa.

Ma oltre poca decisione in Africa, nel corso del '91 erano accaduti altri fatti importanti in politica estera: con gli imperi centrali (rinnovo della "Triplice"); con la Francia i rapporti all'inizio sembravano distensivi (si sperava di ottenere un grosso prestito a Parigi dai Rotschild) poi erano diventati nuovamente tesi; e il trattato Franco-Russo
Inoltre furono notevoli pure i fatti di politica interna: dimostrazioni di protesta contro la disoccupazione; repressione per la manifestazione del 1° Maggio; TURATI e la KULISCIOFF preparano a Milano la nascita del Partito dei Lavoratori; il movimento sindacale di da strutture organizzative più solide con la creazione delle Federazioni di mestiere e di Camere del lavoro; i cattolici "transigenti" vogliono scendere in campo per partecipare alla vita politica formando un partito conservatore composto da elementi della destra e del cattolicesimo; ed infine proprio dentro il cattolicesimo, Papa Leone XIII pubblica una delle più importanti encicliche del secolo: la "Rerum novarum" "sulla condizione degli operai"; obiettivo: accrescere l'influenza della Chiesa fra i lavoratori, formulando un vasto programma d'intervento nelle questioni economiche e sociali, come l'"associazionismo di soli operai", l'"associazionismo sindacale cattolico". Tutto questo mentre sono in fermento sulle stesse problematiche, gli anarchici, le leghe socialiste, gli operaisti, i repubblicani, i radicali.
Sono gli anni dello sviluppo del movimento operaio e la diffusione tra le masse del socialismo. Sono le conseguenze dello sviluppo in senso capitalistico dell'industria e dell'agricoltura, il peggioramento delle condizioni di esistenza dei lavoratori, che stimolano le proteste del proletariato italiano e lo spingono a cercare nuove forme associative.
Ma tutti questi sforzi sono anche accompagnati dall'incremento della conflittualità sociale, e in parallelo nuove leggi di pubblica sicurezza consentiva ampi margini di discrezionalità alla polizia e poneva ostacoli, attuando la repressione - e in certi casi con la spietatezza- alle libertà di riunioni, in "nome della salvaguardia dell'ordine pubblico".
Tutti questi fatti li passiamo in rassegna uno ad uno, ora e nei prossimi capitoli

 
 
 
 
 

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   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA È LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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