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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi del 26/01/2009

XXXII° Battaglione Coloniale Eritreo. "Osa e Vinci".

Post n°209 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

XXXII° Battaglione Coloniale Eritreo. "Osa e Vinci".

 
 
 

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Quinta

Post n°208 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Quinta.

La battaglia ebbe inizio l'11 novembre diretta dal generale Fowkes. Un gruppo misto formato da reparti della 25ª brigata estafricana dotato di autoblindo e appoggiato da guerriglieri etiopici e dall'aviazione si gettò all'attacco di Culcaber. Ma il presidio italiano quattro battaglioni trincerati dietro i reticolati un campo minato e ripari in cemento armato li prese sotto un tiro incrociato micidiale e l'azione si concluse col fallimento più completo. A sua volta il battaglione sudanese diede l'assalto a Celga ma fu respinto anch'esso da quattro battaglioni italiani. Alla fine della giornata soltanto gli abissini riuscirono a riportare un successo, aggirando dall'alto un certo numero di sacche italiane e rastrellando la zona a sud est di Gondar.

Il generale Fowkes giudicò necessario l'impiego di tutt'e due le brigate estafricane la 25ª e la 26ª per prendere Culcaber ma la 25ª era ancora sulla strada a nord di Gondar e ci vollero nove giorni per farle compiere una deviazione attorno alla città. Il 21 novembre la 25ª brigata estafricaria attaccò Culcaber da nord est mentre il gruppo misto della 26ª, che aveva compiuto il tentativo fallito dell'11 novembre, l'attaccò da sud, con l'appoggio di una numerosa banda d'indigeni, ma i difensori di Culcaber, benché fossero quasi completamente accerchiati, combatterono tutto il giorno con estrema risolutezza. Sul tardo pomeriggio tuttavia, alcuni dei loro avamposti furono sopraffatti e gruppi isolati cominciarono ad arrendersi. Quando scese la notte il colonnello Ugolini, comandante del presidio, non ebbe più possibilità di scelta e insieme con i suoi 2.500 soldati dovette deporre le armi. Ormai tutto era pronto per l'assalto finale a Gondar. La 26ª brigata estafricana avrebbe attaccato da est; la 25ª brigata estafricana da sud; dislocati su vari punti fra l'una e l'altra c'erano gli abissini guidati da ufficiali e sottufficiali britannici, oltre ad un piccolo gruppo di autoblindo estafricane e sudafricane, che avevano fatto in tempo ad arrivare.

Gondar e le sue posizioni difensive esterne torreggiavano alte sopra gli attaccanti, che per raggiungerle si dovevano arrampicare su per ripide pareti rocciose che portavano a una serie di cenge sovrapposte; i rifornimenti vi potevano arrivare soltanto se someggiati. L'assalto decisivo ebbe inizio il 27 novembre alle prime luci del giorno, sotto la protezione di un pesante fuoco di sbarramento. Due battaglioni della 26ª brigata estafricana che avanzavano su Gondar da ovest finirono sopra un campo minato, mentre l'artiglieria e le mitragliatrici italiane li prendevano sotto un intenso tiro incrociato. Tuttaviacontinuarono ad avanzare senza deflettere e nel primo pomeriggio giunsero sulla cresta di un'altura a poco più di 3 km da Gondar. Di qui poterono appoggiare con il fuoco il resto della brigata mentre dava l'assalto a un'altra altura a sud ovest, che dominava parzialmente Gondar. Segui un aspro combattimento; gli italiani, costretti gradatamente ad arretrare, finirono col cadere nelle mani degli abissini i quali si erano aperti un varco, inosservati, aggirando il versante occidentale della stessa altura.

Tutti i gruppi etiopici e non solo questi combatterono bene: all'alba, dopo un attacco notturno, avevano espugnato due alture a sud est di Gondar, uccidendo tutti gli italiani che vi avevano trovato. A sud di Gondar anche la 25ª brigata estafricana compiva buoni progressi, incontrando una resistenza meno accanita, e nelle prime ore del pomeriggio raggiunse le creste a sud e a sud ovest di Gondar. Gli italiani erano quindi impegnati da tutte le parti. Uno squadrone autoblindo appartenente al reggimento del Kenya approfittò dell'occasione per imboccare la strada indifesa ed entrò in Gondar, seguito poco dopo da uno dei gruppi etiopici. Dietro di loro furono mandati immediatamente i rinforzi e a metà pomeriggio il generale Nasi fece chiedere le condizioni di resa. Il giorno seguente gli italiani superstiti 22.000 uomini in tutto deposero le armi.

 

 
 
 

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Quarta.

Post n°207 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Quarta.

Le perdite aumentavano in maniera impressionante e non era possibile continuare a mantenere una pressione del genere; inoltre gli inglesi avevano bisogno di una tregua per procurarsi rifornimenti e rinforzi. Per distrarre l'attenzione e forse anche una parte delle truppe dell'avversario il 7° raggruppamento di brigate della fanteria indiana attestato a Karora vicino all'estremità settentrionale dell'Eritrea ricevette l'ordine di dirigersi a sud. Comprendeva un battaglione inglese uno indiano e una brigata della Francia Libera.

La calma durò fino alla metà di marzo quando sia la 4ª sia la 5ª divisione indiana furono pronte. La 4ª doveva attaccare sulla sinistra mentre la 5ª doveva occupare Dologorodoc sulla destra per avanzare quindi verso Falestoh e Zeban. Intanto il 7° raggruppamento di brigata di fanteria indiana, che si trovava già a soli 12 km da Cheren, doveva attirare l'attenzione degli italiani su quel settore.

Preceduta da un violento bombardamento aereo e dal tiro d'interdizione di entrambe le divisioni l'11ª brigata di fanteria della 4ª divisione indiana rinforzata da due battaglioni il mattino del 15 marzo diede l'assalto a Sanchill, Brigs Peak, Hog's Back e Flat Top mentre la 5ª brigata di fanteria indiana attaccava Samanna. Tutti gli obiettivi furono raggiunti ma ancora una volta gli italiani ripresero Sanchill Brigs Peak e Samanna.

Sulla destra la 9ª brigata di fanteria della 5ª divisione indiana approfittando del momento in cui gli italiani erano preoccupati per l'esito dei combattimenti in atto sulla sinistra cominciò ad avanzare verso Dologorodoc ma si trovò quasi subito sotto il micidiale tiro incrociato dei difensori, fino a quando riuscì ad avanzare furtivamente nell'oscurità e ad assicurarsi un punto d'appoggio a Dologorodoc. Alle prime luci dell'alba il forte fu preso d'assalto conquistato e tenuto nonostante i ripetuti contrattacchi. La battaglia continuò a infuriare tutto il giorno del 16 marzo senza che le truppe britanniche riuscissero ad avanzare ma non perdettero terreno.

Durante la notte le ultime truppe indiane non ancora impiegate furono gettate in un ennesimo assalto al picco di Sanchill e a Brigs Peak ma gli italiani respinsero l'attacco. Simultaneamente a destra della gola la 29ª brigata di fanteria che era stata portata a Dologorodoc, fu mandata avanti verso Falestoh e Zeban con l'unico risultato di farsi inchiodare allo scoperto dall'intenso fuoco dell'artiglieria italiana per tutto il giorno successivo. Riuscirono a liberarsi soltanto dopo che fu calata l'oscurità. Tuttavia durante i combattimenti del 17 marzo i genieri si erano potuti spingere avanti strisciando fino al punto in cui la strada era ostruita e riferirono che se fossero stati sufficientemente coperti l'avrebbero potuta sbloccare in ventiquattr'ore. Il compito di coprirli impadronendosi delle posizioni difensive sovrastanti fu affidato alla 5ª divisione indiana.

Però prima di poter dare inizio all'operazione dovettero combattere cinque giorni per respingere i tenaci contrattacchi degli italiani. Furono cinque giorni di forti perdite dall'una e dall'altra il 20 marzo gli italiani erano ridotti a un terzo dei loro e effettivi.

Il 25 marzo la 5ª divisione indiana avanzò con la 9ª brigata a sinistra della gola e la 10ª a destra. Entrambe furono prese d'infilata da un intenso tiro d'interdizione dei cannoni dei mortai e delle mitragliatrici degli italiani che ormai incominciavano a vacillare e le due brigate poterono occupare alcune precarie posizioni da cui era possibile difendere la strada nel punto interrotto. I genieri sebbene esposti al tiro violento dell'artiglieria italiana la sera del giorno successivo avevano aperto una breccia nello sbarramento stradale e la mattina del 27 marzo una squadra di carri armati da fanteria del 40 Royal Tank Regiment e 50 veicoli cingolati Brencarrier mossero verso Cheren sfondando in tal modo tutto il fronte italiano. Il generale Frusci comprese di essere arrivato alla fase critica oltre la quale non poteva più resistere e ordinò l'immediato ripiegamento che fu eseguito con manovra quasi perfetta, Cheren fu evacuata immediatamente e i carri armati britannici vi entrarono la mattina stessa. La battaglia di Cheren era durata otto settimane i reparti britannici avevano avuto 536 morti e 3.299 feriti. I caduti italiani erano più di tremila.

Il generale Frusci si ritirò a sud verso l'Etiopia e il l° aprile cinque giorni prima della caduta di Addis Abeba gli inglesi occuparono l'Asmara, il loro prossimo obiettivo era Massaua la base navale 90 km a nord est della capitale dell'Eritrea affidata al comando dell'ammiraglio Bonetti il quale a un'intimazione di resa fattagli pervenire dal generale inglese che gli chiedeva di consegnarsi insieme con i cinque cacciatorpediniere presenti in porto rispose che Massaua sarebbe stata difesa. Ciononostante i cacciatorpediniere si affrettarono a uscire dalla base il 2 aprile dirigendo verso Port Sudan. Ma la ricognizione aerea li avvistò. Quattro furono colati a picco da una squadriglia di aerosiluranti il quinto fu affondato dall'equipaggio.

Nel frattempo due brigate indiane di fanteria la 7ª e la 10ª e la brigata della Francia Libera che adesso operava come reparto autonomo scendevano rapidamente la strada Asmara Massaua, l'ammiraglio Bonetti respinse anche una seconda intimazione di resa; l'8 aprile le tre brigate lanciarono un assalto simultaneo contro il perimetro della città con un forte appoggio aereo e riuscirono a sfondare le difese in parecchi punti. Sul tardo pomeriggio l'ammiraglio Bonetti capitolò con 9.600 uomini e 127 cannoni.

La caduta di Massaua suggellò la conclusione della campagna eritrea. La minaccia contro i territori africani orientali della Gran Bretagna e contro il Mar Rosso era stata eliminata e in teoria a questo punto sarebbe stato possibile procedere a un rapido trasferimento delle truppe in Egitto. Ma i mezzi di trasporto marittimi erano paurosamente scarsi e non rimaneva altro che compiere l'operazione via terra. Le truppe italiane impedivano però ancora i movimenti a tutte le truppe britanniche in Etiopia. Perciò era indispensabile liberare per prima cosa la strada che da Addis Abeba porta all'Asmara. Dopo il trasferimento in Egitto dei reparti la cui presenza non era giudicata indispensabile in Eritrea (compresa la 4ª divisione indiana) il resto, composto in massima parte dalla 5ª divisione indiana fu inviato a questo scopo in Etiopia.

Le truppe italiane che ancora resistevano erano state suddivise in due gruppi. A nord ovest si trovava quello del generale Nasi con base a Gondar; a sud e a sud ovest quello del generale Gazzera. Entrambi avevano avuto l'ordine di opporre l'estrema resistenza indipendentemente l'uno dall'altro. Il duca d'Aosta raccolse le truppe che lo seguivano nella ritirata da Addis Abeba verso nord e quelle che avevano lasciato l'Eritrea e stavano scendendo a sud, il cui comando fu affidato al generale Frusci. Gli ordini impartiti dal generale Wavell era lo sgombero della strada lungo la quale si sarebbe ritirato il duca d'Aosta e l'impresa era stata affidata al generale Platt il quale aveva a propria disposizione la 5ª divisione indiana proveniente dall'Eritrea (comandata dal maggior generale Mayne in sostituzione del generale Heath che era stato assegnato al comando di un corpo d'armata in Malesia) il l° raggruppamento di brigate sudafricane e reparti indigeni della disciolta Gideon Force al comando di ufficiali inglesi.

I sudafricani uscirono da Addis Abeba il 13 aprile, avanzando senza essere molestati sulla direttrice nord attraverso il passo Mussolini alto 3.300 m, a 192 km dalla capitale l'unica difficoltà che rallentò la marcia furono i numerosi tratti di strada distrutti e di qui proseguirono lungo la ripida discesa della grande valle incassata. Incontrarono la prima resistenza quando risalirono i pendii scoscesi puntando su Dessiè, situata 400 km a nord di Addis Abeba.

A Combolcià, una località fra le montagne a cavallo dell'unica strada che passava pochi chilometri a sud di Dessiè, gli italiani avevano stabilito solide posizioni difensive. Il generale Dan Pienaar, comandante del raggruppamento di brigata sudafricana, giudicò che un attacco frontale, sarebbe costato perdite troppo forti. Per cui impegnò l'artiglieria italiana con i suoi cannoni di medio calibro e da campagna e sotto questa copertura dispose la fanteria sopra la serie di alture sui 1.800 m che si allungavano in fila alla sua sinistra. Gli italiani tentarono immediatamente di prevenire la manovra con un attacco circoscritto ma i sudafricani, riuscirono a respingere l'avversario infliggendogli gravi perdite.

Impiegarono tre giorni per raggiungere gli obiettivi dai quali il 22 aprile dopo che si era unito a loro un gruppo di guerriglieri etiopici presero d'assalto le posizioni nemiche in due punti. Intanto il tiro dell'artiglieria sudafricana era diventato precisissimo e grazie al suo prezioso appoggio l'attacco ebbe un effetto cosi demoralizzante sugli italiani da indurre molti di loro ad arrendersi senza combattere. Le difese si sgretolarono quasi immediatamente. I sudafricani, che perdettero soltanto 9 dei loro uomini mentre altri 30 rimasero feriti, fecero 8.000 prigionieri e catturarono armi, mezzi di trasporto e altro materiale in grande quantità. Il resto degli italiani si ritirò. Gli inglesi arrivarono a Dessiè quando la città era già stata evacuata, ma la loro marcia fu nuovamente rallentata dalle estese distruzioni e dalle ostruzioni stradali

La strada che parte da Dessiè verso nord ridiscende nella grande valle incassata e l'attraversa per 192 km prima di risalire ripidissima con una serie di salite a forte pendenza, tagliando una catena di montagne profonda 80 km. A metà percorso si snoda serpeggiando attraverso un passo, l'Alagi, alto 3000 m. Il passo è dominato da nove ripide cime che toccano i 3.600 m e che costituivano una poderosa ridotta naturale munita di rifugi in caverna, con una superficie di oltre 31 km. I picchi a ovest del passo erano Pyramid (3.240 m), Whaleback (3.270 m), Middle Hill (3.450 m), Elephant (3.360 m) e l'Amba Alagi (3.360 m) in posizione elevata e immediatamente vicino al passo sorgeva il forte Toselli.

La cima a sud ovest del passo era detta Castle Ridge (3.180 m), quella a est Triangle (3.240 m) mentre lungo un crinale che si estendeva a nord est si alzavano le Twin Pyramids (3.390 m) e il Gumsa (3.450 m). A est del Gumsa vi era il passo Falagà, distante 11 km dall'Amba Alagi, attraverso cui passava una pista che si diramava dalla strada che passava pochi chilometri più a nord. Il duca d'Aosta aveva dislocato il suo comando sull'Arnba Alagi, già predisposto per l'ultima resistenza. Le vette circostanti che erano state tutte saldamente fortificate in precedenza con reticolati e postazioni di artiglieria in caverna, erano presidiate da 7.000 uomini con oltre 40 cannoni. Le riserve di viveri erano sufficienti per tre mesi.

Mentre l'avanzata da sud dei sudafricani continuava, la 5ª divisione indiana, incominciò a scendere dall'Eritrea seguita da una folta formazione di abissini guidati dal tenente colonnello Ranking della Defence Force sudanese e raggiunse le pendici dell'Amba Alagi il 29 aprile. Il generale Mayne inviò un gruppo tattico al comando del tenente colonnello Fletcher del reggimento di fanteria leggera Highland sulla pista che attraversava ad est il passo Falagà per distrarre l'attenzione dell'avversario quindi preparò l'attacco da ovest dopo una marcia attraverso un terreno montuoso privo di sentieri. L'avanzata sulle posizioni italiane cominciò il 3 maggio, il gruppo del colonnello Fletcher si diresse verso il passo Falagà ma non poté espugnare le posizioni fortificate antistanti al valico e fu ricacciato come il battaglione che aveva tentato di espugnare la posizione centrale, circa 5 km più a ovest. Il giorno seguente, la 29ª brigata indiana di fanteria conquistò e riuscì a mantenere, grazie all'appoggio dell'artiglieria, le tre cime più occidentali Pyramid, Whaleback e Elephant .

Nelle prime ore del giorno successivo, 5 maggio, con una rapida avanzata dall'Elephant coperta dal tiro delle artiglierie, si assicurò il possesso di Middle Hill, ma non poté avanzare più oltre, perché il 1° reggimento Worcestershire che era all'avanguardia fu bloccato dal fuoco intenso e preciso delle mitragliatrici italiane. Perciò il generale Mayne si affrettò a formare un raggruppamento di brigata dipendente dal comando della 9ª brigata indiana di fanteria e lo mandò di rinforzo al colonnello Fletcher per un nuovo tentativo contro il passo Falagà.

Intanto la 29ª brigata di fanteria indiana, dopo una marcia di avvicinamento notturna, fece una rapida conversione a sud del fianco occidentale e occupò due alture periferiche indifese lungo gli accessi sud occidentali dell'Amba Alagi. Gli italiani furono tratti in inganno dalla manovra e, nella confusione che segui, l'attacco del colonnello Fletcher contro il passo Falagà condotto dal III battaglione del 12° reggimento Frontier Force non solo riuscì, ma i suoi uomini poterono compiere una conversione a ovest e occupare la cima Gumsa, a 4 km dal valico verso l'Amba Alagi. Però dopo Gumsa il reparto fu costretto a fermarsi definitivamente, per le insuperabili difficoltà del terreno e per la tenacissima resistenza degli italiani che difendevano il crinale.

Mentre l'operazione era arrivata a questo punto morto, giunse il raggruppamento di brigata sudafricano, a conclusione della lunga marcia da Dessiè , insieme con due gruppi di armati etiopici che si gettarono contro Twin Pyramids alla fine gli italiani dopo una tenacissima resistenza furono respinti. Il trattamento che gli abissini riservarono ai prigionieri depresse profondamente il morale degli italiani ma rafforzò nei difensori della vetta vicina Triangle la decisione di lottare fino alla morte contro gli etiopi. Infatti quando gli abissini tentarono di gettarsi contro questo picco da Twin Pyramids furono ricacciati, nel corso di una delle più violente azioni difensive italiane di tutta la battaglia.

Il giorno seguente, 14 maggio, i sudafricani attaccarono Triangle. Gli italiani resistettero tutta la giornata, ma dopo che fu calata l'oscurità si ritirarono verso l'Amba Alagi, inseguiti dall'avversario che si precipitò direttamente verso il passo e il forte Toselli distante soltanto 1.600 m dall'Amba Alagi. Da questo lato l'Amba Alagi non era fortificata e i sudafricani speravano di conquistare il forte e di lanciarsi quindi all'attacco del fianco esposto del viceré. Ma il duca d'Aosta e il generale Frusci sapevano che la caduta di Triangle aveva seriamente indebolito la loro posizione e comprendevano qual era l'obiettivo degli attaccanti. Per di più dovevano tener conto di un nuovo fattore altrettanto grave: la volontà di resistenza degli italiani aveva subito un profondo mutamento dopo quello che gli etiopi avevano fatto ai prigionieri di Twin Pyramids. I comandanti italiani compresero che i loro uomini molto probabilmente avrebbero colto ogni occasione per arrendersi alle truppe nemiche regolari, dalle quali potevano aspettarsi di essere trattati correttamente. Perciò il viceré approfittò della presenza dei sudafricani per discutere i termini della resa.

Fu convenuto che gli inglesi avrebbero accordato l'onore delle armi. Il 19 maggio il duca d'Aosta e i 5.000 superstiti dell'Amba Alagi si arresero, mentre un reparto britannico rendeva gli onori. La battaglia dell'Amba Alagi era durata esattamente due settimane. Con la cattura dei suoi difensori il numero dei prigionieri fatti dalle truppe britanniche nei tre mesi e mezzo dall'inizio della campagna ammontava a poco meno di 230.000 uomini. Rimanevano ancora 80.000 italiani in armi, al comando del generale Gazzera nel settore sud occidentale e del generale Nasi in quello nord occidentale. Ciononostante la maggior parte delle unità britanniche fu trasferita con la massima rapidità possibile nel Medio Oriente.

L'ultima fase della campagna dell'Africa Orientale si svolse in due operazioni separate. La prima fu l'offensiva lanciata dal generale Cunningham contro la provincia del Galla Sidamo a sud ovest di Addis Abeba, tenuta dal generale Gazzera. La seconda, quella lanciata dal generale Platt contro le forze del generale Nasi attestate a nord del lago Tana, poté avere inizio soltanto dopo la conclusione della prima.

Le forze britanniche rimaste in Etiopia erano troppo esigue, per poter impegnarsi in una battaglia decisiva, perciò gli inglesi intendevano semplicemente contenere gli italiani nelle remote regioni nelle quali erano confinati. A sud ovest il generale Gazzera aveva circa 40.000 uomini, una scorta di riserve non abbondante ma comunque sufficiente e oltre duecento pezzi d'artiglieria con base a Gimma, circa 320 km a sud ovest di Addis Abeba. A nord ovest, con base a Gondar, il generale Nasi aveva più di 40.000 uomini e un'ottantina di cannoni distribuiti in roccaforti naturali sulle montagne, ma era in situazione precaria riguardo ai viveri.

Le fasi precedenti della campagna si stavano concludendo quando la stagione delle piogge torrenziali cominciò a rendere quasi impossibili i movimenti, questo costituì un grosso problema per il generale Cunningham. Quest'ultimo aveva a propria disposizione l'equivalente di circa quattro brigate: la 22ª brigata estafricana e due battaglioni sudafricani (distaccati) inquadrati nell'11ª divisione africana al comando del maggior generale Wetherall; la 21ª brigata estafricana e la 24ª della Costa d'Oro nella 12ª divisione africana al comando del maggior generale Godwin Austen. L'11ª divisione africana si trovava nella zona di Addis Abeba; la 12ª aveva una brigata a Neghelli, circa 600km a sud di Addis Abeba, dov'era arrivata dalla Somalia, e l'altra a Iavello, situata 240 km più lontano in direzione sud ovest lungo una pista che partiva da Mega e conduceva verso nord. Alla fine di aprile l'11ª divisione africana incominciò a muovere verso sud per raggiungere Sciasciamanna base di una divisione italiana situata grosso modo a mezza strada fra Addis Abeba e Neghelli. Dopo aver sostenuto scontri di scarsa importanza arrivò all'obiettivo quando gli italiani lo avevano evacuato. La 12ª divisione africana aveva ricevuto nel frattempo l'ordine di avanzare lungo la direttrice nord ossia verso Sciasciamanna muovendo dalle sue due posizioni di Neghelli e di Iavello. Da informazioni raccolte risultava che dopo Sciasciamanna le forze italiane si stavano raggruppando nuovamente nelle vicinanze di Soddu una località circa 112 km a sud ovest della prima. Perciò il generale Cunningham ordinò all'11ª divisione africana di procedere seguendo due direttrici: a ovest verso Soddu e a nord ovest verso Gimma mentre la 12ª divisione africana quasi completamente immobilizzata doveva tentar di avanzare come meglio poteva per occupare le zone retrostanti e cedere altre truppe all'11ª divisione africana.

Anche questa volta gli ostacoli più duri che l'11ª divisione africana incontrò per raggiungere l'obiettivo furono il maltempo e il terreno. Tuttavia il 22° raggruppamento di brigata estafricana sostenne un aspro combattimento sconfiggendo la forte resistenza opposta dagli italiani a Goluto, 72 km a ovest di Sciasciamanna sulla strada di Gimma. Soddu fu conquistata dopo una disordinata battaglia in cui furono fatti prigionieri gli stati maggiori di due divisioni italiane.

Data la situazione il generale Gazzera ordinò alle sue forze attestate nella zona di Soddu di spostarsi come meglio potevano a ovest dell'Omo Bottego che era straripato conducendo con sé la popolazione civile. Egli aveva deciso di tentare la resistenza in quel punto; ma le condizioni veramente insostenibili e le continue piogge torrenziali frustrarono il tentativo degli italiani. In questa fase dell'offensiva gli inglesi fecero complessivamente 18.000 prigionieri. L'impresa stava però logorando le truppe del generale Cunningham il quale per rafforzare l'11ª divisione africana, le aggregò la 23ª brigata nigeriana e la mandò lungo la strada che da Addis Abeba porta direttamente a Gimma, affinché forzasse l'Omo Bottego ad Abalti. La 22ª brigata estafricana doveva compiere un tentativo analogo all'altezza di Sciolo. Entrambe le operazioni si conclusero con buon esito, specialmente a Sciolo dove furono catturati 4.000 italiani dopo aspri combattimenti.

La 23ª brigata nigeriana, che aveva l'ordine di avanzare su Lekenti dove in base a quanto era stato riferito, si stavano concentrando due divisioni italiane, fece un'immediata conversione a nord seguendo una delle poche strade in discrete condizioni di viabilità. Contemporaneamente la 22ª brigata estafricana doveva avanzare su Gimma sede del comando di Gazzera, che si trovava 96 km più a ovest. Ma nel frattempo gli indigeni della zona di Gimma, stimolati dai successi degli inglesi, si erano già raccolti in bande e conducevano la guerriglia per conto proprio. A Gimma vi erano parecchie migliaia di profughi civili italiani fra i quali anche donne e bambini, e il generale Gazzera si rendeva conto che un problema essenziale era quello della loro salvezza. Perciò rivolse un appello urgente al generale Cunningham, esponendogli la gravità del pericolo e invitandolo ad occupare Gimma.

La 22ª brigata estafricana avanzò il più rapidamente possibile e il 21 giugno entrò in Gimma accettando la resa dell'intero presidio. Il generale Gazzera si era ritirato, lasciando in città e negli immediati dintorni 15.000 soldati che furono fatti tutti prigionieri. La brigata estafricana senza quasi concedersi una sosta, riprese la faticosa avanzata dirigendosi a nord ovest di Gimma per appoggiare i nigeriani che stavano compiendo buoni progressi su una strada in condizioni migliori: avevano occupato Lekenti debellando una debolissima resistenza e adesso inseguivano gli italiani in ritirata verso ovest. A Dembi una località a 64 km da Ginima la 22ª brigata estafricana sconfisse un reparto italiano di retroguardia facendolo prigioniero mentre i nigeriani occupavano quasi contemporaneamente Ghimbi 96 km a ovest di Lekenti dopo aver sostenuto un vittorioso combattimento con la retroguardia nemica.

A questo punto le brigate estafricana e nigeriana assieme alle bande etiopiche dovevano dar la caccia a due divisioni italiane pressoché intatte che si stavano ritirando a nord ovest. Ma le condizioni meteorologiche peggiorarono nuovamente e gli inseguitori furono ostacolati anche dalle abili interruzioni stradali effettuate dagli italiani che però si stavano precipitando in una trappola. Un contingente belga composto da due battaglioni, appoggiati da una batteria di mortai pesanti rinforzato da un battaglione estafricano avanzava per unirsi al generale Platt nel settore nordoccidentale

In questo momento le forze belghe si trovavano circa nel punto esatto sul quale si dirigevano gli italiani e il maggior generale Gilliaert comandante delle truppe del Congo stava ispezionando il settore. Il 3 luglio egli ordinò alle sue truppe di entrare in azione contro gli italiani. Il generale Gazzera stretto improvvisamente dai belgi freschi e ben equipaggiati, comprese che questa era la fine. Il generale Gilliaert accettò la resa concedendo a Gazzera e a quanto era rimasto delle sue forze 5.000 uomini dell'esercito regolare e 2.000 etiopi irregolari l'onore delle armi.

Le ultime, consistenti forze italiane in Africa Orientale erano rappresentate dal gruppo del generale Nasi. Saldamente arroccato in una fortezza montuosa a nord del lago Tana con i suoi 40.000 uomini attestati sulla cresta dei pendii a un'altitudine di oltre 3.000 m, su posizioni naturali pressoché inespugnabili. Il comando di Nasi si trovava a Gondar a 2.100 m sul livello del mare. L'unica strada effettivamente transitabile che vi conduceva partiva dall'Asmara quasi 480 km a nord est; e passava a 112 km da Gondar attraverso il passo Uolchefit unica via di transito in una barriera naturale alta 3.000 m. Per arrivare al valico la strada si snodava a zigzag lungo una regione quasi interamente rocciosa superando un dislivello di 1.200 m. Circa 5.000 italiani presidiavano il passo e la zona circostante. Ma fra Uolchefit e Gondar si trovavano bande etiopiche ostili agli italiani e i due presidi erano tagliati fuori l'uno dall'altro.

A sud est una pista praticabile soltanto durante la stagione asciutta univa Gondar a Dessiè distante 400 km; a cavallo della pista a circa 160 km da Gondar e a 2.700 m di altitudine si trovava un villaggio montano Debra Tabor difeso da una forte guarnigione italiana come l'altro villaggio che dominava la pista, Culcabera 40 km da Condar. Un altro sentiero di montagna che conduceva al confine con il Sudan era sbarrato da un presidio italiano a Celga 48 km a ovest di Gondar. Il generale Nasi pur disponendo di questo notevole spiegamento di forze difensive aveva scarse riserve di viveri e non poteva ricevere nulla da fuori. Gli mancava inoltre l'appoggio dell'aviazione sicché quando il tempo non era proibitivo le sue posizioni erano esposte agli attacchi aerei nemici.

In maggio il battaglione sudanese che in precedenza aveva fatto parte della Gideon Force aveva attaccato Celga a ovest di Gondar ma era stato duramente battuto e respinto da un deciso contrattacco italiano e due tentativi intrapresi dai gruppi etiopici contro le posizione di Uolchefit erano falliti nella stessa maniera. In giugno la posizione di Debra Tabor aveva subito un incessante violentissimo martellamento dall'aria, tanto che le difese erano crollate completamente e il comandante si era arreso insieme con i suoi uomini oltre 5.000 alle bande indigene guidate da ufficiali inglesi senza opporre ulteriore resistenza.

In luglio il III battaglione del 14° reggimento Punjab, sceso lungo la strada proveniente dall'Asmara aveva ritentato la conquista del passo di Uolchefit ma era stato respinto anch'esso subendo forti perdite. La 25ª brigata estafricana della 12ª divisione africana passata agli ordini del maggior generale C. C. Fowkes avendo il generale Godwin Austen assunto il comando di un corpo d'armata nel deserto occidentale egiziano, aveva raggiunto Massaua via mare; alla fine di settembre arrivò di fronte al passo Uolcheflt per tentare un nuovo assalto. Non vi fu battaglia perché il presidio italiano aveva esaurito le ultime riserve di viveri e il 27 settembre fu costretto a arrendersi per fame. In settembre sir William Platt promosso da poco tenente generale fu destinato al comando di nuova costituzione dell'Africa. Il generale Cunningham si era già trasferito nel deserto occidentale egiziano al comando dell'8ª armata. Le piogge che erano cadute senza interruzione per cinque mesi non potevano ormai durare molto più a lungo per cui si potevano preparare i piani per la battaglia che avrebbe segnato la conclusione della campagna nell'Africa Orientale.

La 26ª brigata estafricana che adesso faceva parte della 12ª divisione africana e che nel frattempo era stata portata a Dessiè si spinse più avanti, fino a Debra Tabor e si attestò lungo la rotabile che conduceva a Gondar mentre la 25ª brigata estafricana rimasta a Uolchefit si dispose a sud per collaborare all'offensiva. Oltre a queste forze anche quelle abissine raccolte adesso in quattro gruppi ebbero l'ordine di convergere su Gondar, il battaglione sudanese invece fu portato avanti per un altro assalto a Celga.

 
 
 

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Terza.

Post n°206 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Terza.

Sulla destra la 9ª brigata di fanteria della 5ª divisione indiana approfittando del momento in cui gli italiani erano preoccupati per l'esito dei combattimenti in atto sulla sinistra cominciò ad avanzare verso Dologorodoc ma si trovò quasi subito sotto il micidiale tiro incrociato dei difensori, fino a quando riuscì ad avanzare furtivamente nell'oscurità e ad assicurarsi un punto d'appoggio a Dologorodoc. Alle prime luci dell'alba il forte fu preso d'assalto conquistato e tenuto nonostante i ripetuti contrattacchi. La battaglia continuò a infuriare tutto il giorno del 16 marzo senza che le truppe britanniche riuscissero ad avanzare ma non perdettero terreno.

Prima ancora che l'occupazione della Somalia da parte degli inglesi fosse completa, il generale Cunningham decise di cominciare l'avanzata in Etiopia. Tre ragioni imponevano rapidità all'azione.

La prima era che non sapeva di preciso quando avrebbe dovuto cedere una parte degli uomini alle sue dipendenze, né quanti, perché la loro presenza era assolutamente necessaria nel Medio Oriente.

La seconda era che il crollo della Somalia aveva parzialmente indebolito l'avversario, ma se avesse temporeggiato gli avrebbe offerto la possibilità di riorganizzarsi e di riprendere animo.

La terza era che alla fine di aprile o agl'inizi di maggio in Etiopia sarebbero incominciate le grandi piogge, rendendo praticamente impossibile ogni movimento.

Un sondaggio precedente effettuato sul confine meridionale etiopico attraverso il deserto di lava di Chelbi, da due brigate della 1ª divisione sudafricana partite da Marsabit nella provincia settentrionale del Kenya, aveva dimostrato che il tentativo italiano di un'invasione dal sud era irrealizzabile. Un secondo tentativo sperimentale di penetrare in Etiopia dal Kenya era stato intrapreso soltanto dopo che la caduta di Chisimaio aveva rivelato la debolezza degli italiani. Due brigate sudafricane le quali, dopo aver attraversato la frontiera a nord di Marsabit, si erano dirette verso Mega, una città etiopica dell'interno attaccandola il 18 febbraio e trovando scarsa resistenza, tanto che il presidio italiano si arrese dopo poche ore. Furono catturati 26 ufficiali, 972 fra sottufficiali graduati e soldati, nonché 7 cannoni.

A quel punto si arrivò alla decisione definitiva di un'invasione dall'Etiopia meridionale, ma l'unica strada transitabile che portava da Mega verso nord si svolgeva lungo una pista tortuosa in mezzo alle montagne, mentre l'inattesa e imminente caduta di Mogadiscio in Somalia offriva la possibilità di un percorso molto più agevole, perciò il peso dell'azione fu spostato da Mega e le truppe si lanciarono all'inseguimento degli italiani che si ritiravano dalla Somalia.

Il duca d'Aosta tentando di prevenire una probabile avanzata delle truppe sudafricane ordinò al generale de Simone che si stava ritirando da Mogadiscio, di inviare una divisione 720 km a sud ovest di Neghelli, a cavallo dell'unica strada transitabile proveniente da Mega. In considerazione che gli inglesi avevano spostato da Mega la loro direttrice dell'attacco questa manovra provocò l'indebolimento delle forze italiane sulla direttrice dell'avanzata britannica dalla Somalia.

Il compito d'inseguire le truppe del generale de Simone fu affidato all'11ª divisione africana del maggiore generale Wetherall, alla quale furono aggregati il 1°, raggruppamento di brigata sudafricano e la 22" brigata dell'Africa Orientale. L'ala divisione comprendeva inoltre la 23ª brigata nigeriana e alcuni reparti sudafricani di artiglieria da campagna e pesante e per di più durante quest'azione avrebbe potuto contare su un massiccio appoggio aereo.

La strada che porta da Mogadiscio a Giggiga, la linea di ritirata italiana, corre per 640 km attraverso le pianure somale, quindi, a circa 320 km oltre il confine, in territorio etiopico, raggiunge i contrafforti montuosi dell'interno e si arrampica ripida verso Giggiga da dove continua, superando i 3.000 m di altitudine. L'11ª divisione africana incalzava la ritirata a un ritmo cosi serrato che gli italiani non accennarono neppure a un tentativo di resistenza finché non ebbero oltrepassato Giggiga che fu abbandonata il 17 marzo.

A più di una trentina di chilometri a ovest di Giggiga la strada che porta a Harrar, attraversa una stretta gola, il passo di Marda, e 96 km più avanti, in direzione ovest, passa attraverso un'altra strozzatura, il passo di Babile. Entrambi questi passi si prestavano ottimamente alla difesa in quanto non consentivano l'accerchiamento, ed entrambi furono scelti dagli italiani per attestarsi.

Il 21 marzo, l'artiglieria sudafricana diresse un pesante tiro di preparazione contro le posizioni italiane di passo Marda. A mezzogiorno i nigeriani avanzarono sul terreno scoperto, sotto un fuoco intenso ma poco preciso che servi a rallentare l'avanzata e alla sera un distaccamento aveva raggiunto una posizione dominante sul lato destro della strada, dalla quale si poteva dare l'assalto alla cresta. Il piccolo gruppo ricevette rinforzi nel corso della notte, in attesa di espugnare la cima il mattino successivo. Ma alle prime luci dell'alba gli attaccanti si accorsero che le difese erano state abbandonate: durante la notte gli italiani si erano ritirati per opporre resistenza al passo Babile.

L'inseguimento fu ripreso immediatamente e a metà pomeriggio i nigeriani avevano già coperto 96 km. La velocità dell'attacco colse gli italiani impreparati: infatti, le posizioni difensive del passo Babile non erano ancora state presidiate. Dopo una vivace azione di retroguardia gli italiani arretrarono di altri 16 km, fino alle rive del Bisidimo, ma i nigeriani li raggiunsero prima che avessero potuto organizzare la difesa. Si ritirarono di nuovo dopo una breve azione diversiva, allo scopo di guadagnare tempo. Harrar, a soli 19 km di distanza, era presidiata da tre brigate italiane, sicché gli inseguitori si attendevano una forte resistenza; ma mentre i nigeriani si trovavano ancora sul fiume Bisidimo gli italiani, non si sa per quale inesplicabile motivo, dichiararono Harrar città aperta.

A 80 km da Harrar, in direzione nord ovest, si trova Dire Daua, un importante centro amministrativo dove risiedeva una numerosa comunità italiana. Le truppe britanniche si trovavano ancora a grande distanza dalla località, quando incontrarono un gruppo di italiani appartenenti alla polizia civile, latori di un appello urgente rivolto al generale Wetherall affinché accelerasse l'entrata delle sue truppe nella città. Il presidio militare si era ritirato e bande di etiopi composte in maggioranza di disertori armati si erano scatenate contro la popolazione civile indifesa commettendo saccheggi e stupri, assassinando e mutilando.

Le strade non erano transitabili ai veicoli poiché gli italiani le avevano parzialmente distrutte, , ma un reparto di truppe sudafricane avanzò a piedi e arrivò a Dire Daua dove si dovette impegnare in combattimento per le vie di una città. Gli etiopi erano ben armati e i sudafricani impiegarono un giorno e una notte per instaurare una parvenza d'ordine.

Sia l'alto comando inglese sia quello italiano erano rimasti profondamente colpiti dalle atrocità commesse dagli etiopi, tanto che i fatti di Dire Daua ebbero un peso determinante nelle successive decisioni circa il destino di Addis Abeba.

Il presidio che si era ritirato da Dire Daua tentava intanto di aprirsi un varco a sud ovest, attraverso i sentieri di montagna, dirigendosi verso il fiume Auasc, distante 250 km e a metà strada da Addis Abeba, con la speranza di non venire scoperto poiché riteneva che le ostruzioni stradali avrebbero rallentato considerevolmente l'avanzata britannica. Auasc è uno dei più grandi fiumi etiopici e sulla sua riva sinistra gli italiani stavano costruendo opere difensive in posizione tatticamente vantaggiosa.

Tuttavia il 1° raggruppamento di brigata sudafricano che si trovava adesso all'avanguardia, si spinse avanti per 160 km lungo la strada e mentre gli italiani che si erano ritirati da Dire Daua stavano ancora avanzando fra le montagne, era arrivato in prossimità dell'Auasc. La 22ª brigata britannica dell'Africa Orientale oltrepassò il gruppo sudafricano e raggiunse il fiume prima della guarnigione italiana di Dire Daua e prima ancora che fossero state approntate le difese. Senza indugi ne risali il corso e, sotto la protezione del tiro dell'artiglieria, gli uomini si diedero da fare per stabilire una piccola testa di ponte sulla riva opposta, Addis Abeba si trovava a soli 240 chilometri. A questo punto il duca d'Aosta decise di rinunciare alla difesa della capitale, comunicò a Mussolini che la sua unica speranza per riuscire in questo intento era di resistere in una o più località inespugnabili, abbandonando tutti i settori esposti. Per alleggerire la propria situazione e per il bene della stessa comunità dei connazionali sarebbe stato opportuno che questa passasse al più presto sotto la protezione militare inglese, soprattutto per evitare che in Addis Abeba si ripetesse quanto era avvenuto a Dire Daua. Perciò il duca ordinò di sgombrare la strada per non ostacolare l'ingresso delle truppe britanniche e diede disposizioni di lasciare sul posto scorte di viveri e un gruppo di funzionari civili affinché gli occupanti potessero mantenere in efficienza i servizi essenziali Le forze inglesi attestate sul fiume Auasc non erano a conoscenza della decisione presa dal viceré però furono informate che gli italiani in ritirata, anziché ripiegare su Addis Abeba, si stavano dirigendo a sud ovest verso l'inospitale regione di Neghelli, lontano dalla loro direttrice d'avanzata.

Nelle prime ore del 5 aprile un messaggero della polizia italiana giunse tutto affannato davanti alle prime linee degli inglesi, recando un appello urgente che li sollecitava a entrare senza indugio in Addis Abeba. Il presidio italiano si era ritirato al completo e gli etiopi si stavano sfrenando selvaggiamente, come era avvenuto a Dire Daua. Erano in pericolo soprattutto le donne e i bambini. Perciò il mattino seguente un nucleo misto formato da reparti delle tre brigate che avevano preso parte all'inseguimento entrò in città.

In otto settimane gli inglesi avevano percorso 2.700 km su un terreno che in certi tratti era fra i più impervi dell'Africa. Non avevano dovuto sostenere combattimenti di gran rilievo e le loro perdite negli scontri erano state esigue soltanto 501 uomini. Gli italiani avevano perduto buona parte dell'armamento, dell'equipaggiamento e delle scorte di viveri, oltre a un gran numero di prigionieri, però in combattimento anche le loro perdite erano state relativamente leggere. Addis Abeba era stata occupata, ma vi era ancora un'armata italiana in perfetta efficienza cosa che al momento si adattava ai piani del duca d'Aosta, ma non spiegava la rinunzia completa a un impegno più deciso per la difesa della Somalia, dell'Etiopia sudorientale o di Addis Abeba. E' da notare che il viceré aveva impartito disposizioni precise affinché in certi punti chiave ad esempio sul Giuba, a Dire Daua sui due passi montani prima di Harrar, sulle rive dell'Auasc, tutte posizioni strategiche di prim'ordine gli italiani opponessero resistenza, ma non uno dei suoi ordini fu eseguito. Inoltre l'aviazione italiana, che in questa prima fase sarebbe stata ancora in grado di sostenere una parte di rilievo nelle operazioni, praticamente non l'ebbe mai.

Mentre l'offensiva sferrata a sud dal generale Cunningham otteneva ottimi risultati nella parte nordoccidentale dell'Etiopia era già in corso un'altra fase della campagna, alla quale partecipava l'imperatore Haile Selassié, ed era diretta dal maggior generale William Platt, comandante del Sudan, dove il maggiore O.C. Wingate, si distinse nella condotta di operazioni belliche effettuate con truppe irregolari. Tali truppe, denominate Gideon Force, la cui composizione numerica non superò mai i 50 ufficiali e i 20 sottufficiali inglesi, gli 800 soldati di truppa sudanesi e gli 800 volontari etiopici, tennero impegnate con l'appoggio sporadico di capitribù e di bande etiopiche locali sette brigate italiane e numerose bande indigene arruolate al servizio degli italiani.

L'anno precedente il generale Wavell aveva ordinato di prendere in esame la possibilità di fomentare una ribellione etiopica contro gli italiani, nel caso l'Italia fosse entrata in guerra. Il colonnello D. A. Sandford, che in passato era vissuto in Etiopia, fu aggregato allo stato maggiore del generale Platt a Khartoum, con l'incarico di studiare il progetto. Perciò, quando l'Italia dichiarò guerra, il colonnello Sandford fu inviato in Etiopia a capo di una piccola missione militare che doveva svolgere la sua opera fra i capitribù simpatizzanti. Due settimane dopo l'entrata in guerra dell'Italia, Haile Selassié si era trasferito in volo da Londra a Khartoum e uno dei compiti essenziali affidati alla missione del colonnello Sandford era quello di predisporre una base all'interno del paese dove l'imperatore si potesse stabilire.

La missione del colonnello Sandford entrò in Etiopia dal Sudan un mese dopo lo scoppio delle ostilità e in un mese percorsero circa 300 km tra le alte montagne a sud est del lago Tana riuscendo ad assicurarsi l'amicizia di parecchie tribù. Inoltre il colonnello Sandford riferì che la presenza in Etiopia di Haile Selassié sarebbe stata di grande importanza, uno dei risultati del suo rapporto fu la decisione di formare un reparto di soldati etiopici quale esercito personale di Haile Selassié composto da unità speciali con ufficiali e sottufficiali inglesi comandato dal maggiore Wingate. Un battaglione della Defence Force sudanese aveva il compito di aprire una strada per i rifornimenti tra il confine e la sede che nel frattempo il colonnello Sandford aveva scelto come la più adatta per il comando di Haile Selassié. La località era Balaia, una fortezza montuosa naturale e isolata all'interno dell'Etiopia, a 3.131 m sul livello del mare, a 112 km dal confine e a 128 km a sud ovest del lago Tana.

All'arrivo di Haile Selassié Sandford, che nel frattempo era stato promosso generale di brigata, fu nominato suo consigliere personale. Wingate, promosso tenente colonnello, sostituì Sandford come capo della missione. Le unità sudanesi ed etiopiche entrarono a far parte della missione che Wingate chiamò col nome di Gideon Force, Gli italiani si erano ormai accorti che stavano maturando eventi nuovi e importanti, ma il loro servizio informazioni riferì semplicemente che un forte contingente di truppe inglesi era penetrato dal Sudan in Etiopia. Tribù locali, istigate e rifornite di armi da Sandford, cominciarono anch'esse a far opera di disturbo a danno degli italiani, i quali decisero di riorganizzare e raggruppare le loro forze a sud del lago Tana. Concentrarono due brigate a Bahar Dar, sul lago Tana, e due brigate a Buriè, 190 km più a sud, lasciando libera la strada che correva in mezzo al fine di non avere uno spiegamento di forze troppo esteso. Wingate arrivò con la Gideon Force sul crinale da cui si dominava la strada di Danghila un villaggio a sud del lago Tana il 19 febbraio proprio mentre gli italiani si stavano riorganizzando su quelle posizioni. Wingate divise la Gideon Force in due gruppi. Ne mandò uno a disturbare il ripiegamento italiano verso Bahar Dare con l'altro si precipitò giù per la strada di montagna verso Buriè, per impegnare una seconda brigata che si stava ritirando in quella direzione.

Durante i quindici giorni che seguirono la Gideon Force condusse contro gli italiani una serie di attacchi diurni e notturni che ebbero l'effetto di scompaginare l'avversario e di infliggergli gravi perdite. Anche la Gideon Force aveva subito forti perdite specialmente fra gli etiopi, il 14 marzo l'imperatore Haile Selassié si stabili nella nuova sede di Buriè.

Però la situazione si rifece critica quasi immediatamente, un potente capo etiopico ostile all'imperatore, Ras Hailù si era unito agli italiani a Debra Marcos con parecchie migliaia dei suoi guerrieri. Incoraggiato da questo avvenimento e dopo aver scoperto che il suo servizio informazioni lo aveva mal ragguagliato, il tenente generale di divisione Nasi, comandante italiano del settore, ordinò di riprendere Buriè e alle due brigate attestate a Bahar Dar di fare una sortita per tagliare la via della fuga all'imperatore. Il peso dei combattimenti fu sostenuto dal battaglione sudanese al comando del tenente colonnello Boustead. Lottando senza interruzioni per dieci notti di seguito, a un'altitudine per loro inusitata, i sudanesi sferrarono una serie di attacchi abilmente condotti contro gli italiani che tentavano di avanzare da Debra Marcos. Gli abissini di Ras Hailù, non abituati alle operazioni notturne e comunque totalmente digiuni di disciplina abbandonarono il campo.Il 4 aprile gli italiani sospesero i combattimenti ed evacuarono Debra Marcos. Nel settore meridionale Addis Abeba fu occupata due giorni dopo dalle truppe del generale Cunningham e Haile Selassié si trasferì a Debra Marcos.

Il generale Platt affidò immediatamente alla Gideon Force un nuovo compito. Gli inglesi sospettavano che il duca d'Aosta dirigendosi a nord di Addis Abeba avrebbe cercato di raccogliere le sue forze per opporre resistenza in qualche località fra le montagne. Perciò Wingate ricevette l'ordine d'impedire ai reparti nemici che si trovavano nella regione del lago Tana sia di aggregarsi alle truppe del viceré sia di unirsi fra loro; e la Gideon Force suddivisa in parecchi piccoli gruppi si sparpagliò per operare in un vasto raggio. La strada che dal lago Tana andava verso est per esempio fu tagliata da un gruppo; un altro gruppo insistette nelle azioni di disturbo contro i reparti italiani che si trovavano a Bahar Dar fino al punto da costringerli a ritirarsi lungo la sponda orientale del lago Tana e di qui verso nord; un altro gruppo ancora sorvegliava continuamente le forze di ras Hailù se mai questi avesse voluto cambiare ancora una volta idea mentre una quarta frazione della Gideon Force attaccò un battaglione italiano che si trovava 96 km a sud est del lago Tana costringendolo alla resa.

Una parte del presidio italiano che si era ritirato da Debra Marcos e che non poteva ripiegare a sud verso Addis Abeba poiché la capitale era già stata occupata dal generale Cunningham aveva attraversato nel frattempo le montagne dirigendosi verso est. La sua forza corrispondeva più o meno a quella di una brigata. Un piccolo reparto di sudanesi e di etiopi si lanciò all'inseguimento e seguitarono ad attaccare senza tregua i reparti in ritirata. Gli italiani riuscirono a raggiungere Addis Derrà, un villaggio fortificato di montagna 145 km a est di Debra Marcos e ad oltre 3.000 m sul livello del mare. Resistettero li sino alla metà di maggio, quando la mancanza di viveri li costrinse a riprendere la ritirata. Intanto Wingate aveva assunto il comando del piccolo reparto inseguitore ed era riuscito a ottenere l'appoggio di alcune tribù del luogo. Con il loro aiuto una parte del gruppo fu ora in grado di portarsi davanti al nemico in ritirata per bloccargli la strada. Seguirono tre giorni di combattimenti, il quarto giorno Wingate informò il comandante avversario, colonnello Maraventano, di aver ricevuto l'ordine di trasferire altrove le sue truppe sicché gli italiani, se non si fossero decisi ad arrendersi senza indugio, sarebbero rimasti alla mercé delle numerose bande etiopiche che si stavano ammassando nella zona. Si trattava soltanto di uno stratagemma, ma il colonnello Maraventano sapeva bene cosa sarebbe successo ai suoi 8.100 uomini se fossero caduti nelle mani degli etiopi. Perciò decise di arrendersi e questa fu l'ultima azione della Gideon Force che complessivamente aveva fatto 15.600 prigionieri e catturato un forte quantitativo di armi. Questa fase della campagna era durata in tutto tre mesi esatti.

L'offensiva britannica in Eritrea ebbe un obiettivo limitato come tutte le altre offensive in questo teatro di guerra. Secondo il punto di vista britannico finché Cassala rimaneva in mano degli italiani sussisteva il pericolo di un'avanzata nemica nel Sudan. Per parare l'eventuale pericolo il generale Wavell fu costretto a rafforzare le truppe del generale Platt che presidiavano questa regione di confine a tutto scapito del Medio Oriente. Le forze italiane in Eritrea al comando del generale Frusci erano cospicue ed efficienti: a Cassala e nella zona circostante nonché in certi capisaldi lungo la frontiera si trovavano 17.000 uomini ben equipaggiati con carri armati leggeri e artiglierie. Nelle retrovie il generale Frusci disponeva di tre divisioni e di tre brigate autonome e inoltre poteva ricevere rinforzi dall'Etiopia settentrionale. Gli inglesi attribuivano molta importanza alla riconquista di Cassala perché in tal modo avrebbero privato il nemico di un'eventuale linea di avanzata nel Sudan.

Ma il generale Frusci non aveva alcuna intenzione di tentare un'avanzata. Il duca d'Aosta si attendeva un'avanzata inglese in Eritrea. Così per pura coincidenza proprio quando il generale Platt stava preparando un attacco contro Cassala il viceré ordinò l'evacuazione della città e degli altri punti di frontiera per un ripiegamento su posizioni più favorevoli all'interno dell'Eritrea. L'avanzata del generale Platt su Cassala doveva incominciare il 19 gennaio, il ripiegamento italiano su posizioni situate approssimativamente lungo il limite orientale dell'obiettivo inglese ebbe inizio il 18 gennaio. La 4ª divisione indiana del maggior generale Beresford Peirse e la 5ª divisione indiana del maggior generale Heath ebbero l'ordine d'inseguire gli italiani in ritirata. Il primo contatto si ebbe a Cherù un villaggio eritreo che si trova a 96 km a est di Cassala e a 64 km dal confine dove una brigata italiana avrebbe dovuto impegnare gli inglesi con un'azione di retroguardia. Ma le truppe britanniche accerchiarono il villaggio precludendo all'avversario ogni possibilità di ripiegamento; sebbene gli italiani avessero tentato di aprirsi un varco, il comandante e circa 900 uomini furono fatti prigionieri.

A 72 km da Cherù, in direzione sud est, si trova Barentù e a 112 km ad est Agordat si trattava di due cittadine montane situate in posizioni difensive naturali e presidiate ciascuna da una divisione. L'avanzata indiana si svolse simultaneamente lungo due strade puntando su entrambe le città. Agordat la più orientale delle due fu raggiunta per prima dalla 4ª divisione indiana a nove giorni dall'inizio dell'avanzata. Dopo un vivace combattimento fra i monti che durò tre giorni e nel quale furono impiegati i carri armati da fanteria, Beresford Peirse l'accerchiò tagliando la strada che portava verso est. Tuttavia buona parte degli italiani riuscì ad aprirsi un varco in questa direzione abbandonando però sul terreno materiale bellico compresi cannoni e carri armati. A Barentù raggiunta dalla 5ª divisone indiana che era stata ripetutamente ritardata nella marcia da azioni di retroguardia gli italiani opposero una strenua difesa ma solo fino a quando appresero che Agordat era caduta e che la ritirata verso est era quindi preclusa. Durante la notte si aprirono un varco verso sud ovest fra le montagne. Le truppe britanniche inviate all'inseguimento non riuscirono a raggiungerli.

Wavell ordinò al generale Platt di spingersi verso Cheren e l'Asmara perché improvvisamente si era reso conto non senza sorpresa che sarebbe stato possibile conquistare tutta questa regione eliminando cosi anche il pericolo costituito dalla base navale di Massaua. Ma l'Asmara era lontana più di 170 km a est e Cheren che si trovava circa a metà strada era una delle posizioni difensive naturali più fortemente presidiate ed era l'unica via d'accesso al capoluogo dell'Eritrea e a Massaua. Gli ultimi 4 km della strada che porta a Cheren corrono in una gola angusta e incassata e costituiscono l'unico passaggio attraverso quella che praticamente è una parete rocciosa sovrastata da undici cime alte 600 metri e più sopra il livello della strada ciascuna delle quali era stata trasformata in una posizione difensiva dominante l'imbocco della gola. La strada che l'attraversa era stata distrutta o ostruita.

Sette di queste cime che coprono complessivamente una superficie di circa 13 km2 denominate Cameron Ridge, Sanchill, Brigs Peak, Hog's Back, Saddle, Flat Top e Samanna sorgevano sulla sinistra della gola e della strada. Le quattro rimanenti sulla destra erano: Dologorodoc (con un fortino), Falestoh, Zeban e Zalale. Un pendio tra la cima Falestoh e la Zalale che saliva verso un basso crinale formava un valico: Aqua Col.

Una divisione italiana rinforzata da tre battaglioni dell'11° reggimento granatieri di Savoia presidiava le difese mentre due brigate avanzavano a marce forzate per unirsi a quella e altre quattro rimanevano di riserva. I primi tentativi inglesi di aprirsi un passaggio furono compiuti dalla 4ª, divisione indiana. Il 3 febbraio all'alba l'11ª brigata di fanteria attaccò Sanchill, Brigs Peak e Cameron Ridge le tre cime sulla sinistra più vicine all'accesso alla gola. La battaglia con l'appoggio di un nutrito fuoco d'artiglieria da entrambe le parti infuriò quattro giorni. Gli indiani raggiunsero la sommità delle tre cime ma furono ricacciati sia da Sanchill sia da Brigs Peak dai risoluti contrattacchi degli italiani che combattevano con una tenacia raramente riscontrata loro comandante era il generale Carnimeo alle dipendenze del generale Frusci.

Il 7 febbraio la 5ª brigata di fanteria indiana sferrò un attacco notturno in direzione di Aqua Col sulla destra. L'azione di avvicinamento si compiva su un terreno molto accidentato e malgrado tutte le difficoltà e il tiro micidiale degli italiani la sommità del passo fu raggiunta ma non fu possibile tenerla per effetto dei ben diretti contrattacchi delle truppe italiane.

Il 10 febbraio Beresford Peirse sferrò un nuovo attacco sulla sinistra e sulla destra: gli obiettivi erano gli stessi degli attacchi precedenti. L'11ª brigata di fanteria indiana s'impossessò un'altra volta di Brigs Peak e ne fu ricacciata di nuovo. Un secondo attacco ebbe lo stesso esito di quello precedente. Altrettanto avveniva nella lotta per il possesso dell'Aqua Col dove buona parte della sella cadde nelle mani della 5ª brigata di fanteria indiana che in tale azione si meritò la Victoria Cross, ma fu ripresa dagli italiani nei contrattacchi.

 
 
 

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Seconda.

Post n°205 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Seconda.

La prima era che non sapeva di preciso quando avrebbe dovuto cedere una parte degli uomini alle sue dipendenze, né quanti, perché la loro presenza era assolutamente necessaria nel Medio Oriente.

La seconda era che il crollo della Somalia aveva parzialmente indebolito l'avversario, ma se avesse temporeggiato gli avrebbe offerto la possibilità di riorganizzarsi e di riprendere animo.

La terza era che alla fine di aprile o agl'inizi di maggio in Etiopia sarebbero incominciate le grandi piogge, rendendo praticamente impossibile ogni movimento.

Un sondaggio precedente effettuato sul confine meridionale etiopico attraverso il deserto di lava di Chelbi, da due brigate della 1ª divisione sudafricana partite da Marsabit nella provincia settentrionale del Kenya, aveva dimostrato che il tentativo italiano di un'invasione dal sud era irrealizzabile. Un secondo tentativo sperimentale di penetrare in Etiopia dal Kenya era stato intrapreso soltanto dopo che la caduta di Chisimaio aveva rivelato la debolezza degli italiani. Due brigate sudafricane le quali, dopo aver attraversato la frontiera a nord di Marsabit, si erano dirette verso Mega, una città etiopica dell'interno attaccandola il 18 febbraio e trovando scarsa resistenza, tanto che il presidio italiano si arrese dopo poche ore. Furono catturati 26 ufficiali, 972 fra sottufficiali graduati e soldati, nonché 7 cannoni.

A quel punto si arrivò alla decisione definitiva di un'invasione dall'Etiopia meridionale, ma l'unica strada transitabile che portava da Mega verso nord si svolgeva lungo una pista tortuosa in mezzo alle montagne, mentre l'inattesa e imminente caduta di Mogadiscio in Somalia offriva la possibilità di un percorso molto più agevole, perciò il peso dell'azione fu spostato da Mega e le truppe si lanciarono all'inseguimento degli italiani che si ritiravano dalla Somalia.

Il duca d'Aosta tentando di prevenire una probabile avanzata delle truppe sudafricane ordinò al generale de Simone che si stava ritirando da Mogadiscio, di inviare una divisione 720 km a sud ovest di Neghelli, a cavallo dell'unica strada transitabile proveniente da Mega. In considerazione che gli inglesi avevano spostato da Mega la loro direttrice dell'attacco questa manovra provocò l'indebolimento delle forze italiane sulla direttrice dell'avanzata britannica dalla Somalia.

Il compito d'inseguire le truppe del generale de Simone fu affidato all'11ª divisione africana del maggiore generale Wetherall, alla quale furono aggregati il 1°, raggruppamento di brigata sudafricano e la 22" brigata dell'Africa Orientale. L'ala divisione comprendeva inoltre la 23ª brigata nigeriana e alcuni reparti sudafricani di artiglieria da campagna e pesante e per di più durante quest'azione avrebbe potuto contare su un massiccio appoggio aereo.

La strada che porta da Mogadiscio a Giggiga, la linea di ritirata italiana, corre per 640 km attraverso le pianure somale, quindi, a circa 320 km oltre il confine, in territorio etiopico, raggiunge i contrafforti montuosi dell'interno e si arrampica ripida verso Giggiga da dove continua, superando i 3.000 m di altitudine. L'11ª divisione africana incalzava la ritirata a un ritmo cosi serrato che gli italiani non accennarono neppure a un tentativo di resistenza finché non ebbero oltrepassato Giggiga che fu abbandonata il 17 marzo.

A più di una trentina di chilometri a ovest di Giggiga la strada che porta a Harrar, attraversa una stretta gola, il passo di Marda, e 96 km più avanti, in direzione ovest, passa attraverso un'altra strozzatura, il passo di Babile. Entrambi questi passi si prestavano ottimamente alla difesa in quanto non consentivano l'accerchiamento, ed entrambi furono scelti dagli italiani per attestarsi.

Il 21 marzo, l'artiglieria sudafricana diresse un pesante tiro di preparazione contro le posizioni italiane di passo Marda. A mezzogiorno i nigeriani avanzarono sul terreno scoperto, sotto un fuoco intenso ma poco preciso che servi a rallentare l'avanzata e alla sera un distaccamento aveva raggiunto una posizione dominante sul lato destro della strada, dalla quale si poteva dare l'assalto alla cresta. Il piccolo gruppo ricevette rinforzi nel corso della notte, in attesa di espugnare la cima il mattino successivo. Ma alle prime luci dell'alba gli attaccanti si accorsero che le difese erano state abbandonate: durante la notte gli italiani si erano ritirati per opporre resistenza al passo Babile.

L'inseguimento fu ripreso immediatamente e a metà pomeriggio i nigeriani avevano già coperto 96 km. La velocità dell'attacco colse gli italiani impreparati: infatti, le posizioni difensive del passo Babile non erano ancora state presidiate. Dopo una vivace azione di retroguardia gli italiani arretrarono di altri 16 km, fino alle rive del Bisidimo, ma i nigeriani li raggiunsero prima che avessero potuto organizzare la difesa. Si ritirarono di nuovo dopo una breve azione diversiva, allo scopo di guadagnare tempo. Harrar, a soli 19 km di distanza, era presidiata da tre brigate italiane, sicché gli inseguitori si attendevano una forte resistenza; ma mentre i nigeriani si trovavano ancora sul fiume Bisidimo gli italiani, non si sa per quale inesplicabile motivo, dichiararono Harrar città aperta.

A 80 km da Harrar, in direzione nord ovest, si trova Dire Daua, un importante centro amministrativo dove risiedeva una numerosa comunità italiana. Le truppe britanniche si trovavano ancora a grande distanza dalla località, quando incontrarono un gruppo di italiani appartenenti alla polizia civile, latori di un appello urgente rivolto al generale Wetherall affinché accelerasse l'entrata delle sue truppe nella città. Il presidio militare si era ritirato e bande di etiopi composte in maggioranza di disertori armati si erano scatenate contro la popolazione civile indifesa commettendo saccheggi e stupri, assassinando e mutilando.

Le strade non erano transitabili ai veicoli poiché gli italiani le avevano parzialmente distrutte, , ma un reparto di truppe sudafricane avanzò a piedi e arrivò a Dire Daua dove si dovette impegnare in combattimento per le vie di una città. Gli etiopi erano ben armati e i sudafricani impiegarono un giorno e una notte per instaurare una parvenza d'ordine.

Sia l'alto comando inglese sia quello italiano erano rimasti profondamente colpiti dalle atrocità commesse dagli etiopi, tanto che i fatti di Dire Daua ebbero un peso determinante nelle successive decisioni circa il destino di Addis Abeba.

Il presidio che si era ritirato da Dire Daua tentava intanto di aprirsi un varco a sud ovest, attraverso i sentieri di montagna, dirigendosi verso il fiume Auasc, distante 250 km e a metà strada da Addis Abeba, con la speranza di non venire scoperto poiché riteneva che le ostruzioni stradali avrebbero rallentato considerevolmente l'avanzata britannica. Auasc è uno dei più grandi fiumi etiopici e sulla sua riva sinistra gli italiani stavano costruendo opere difensive in posizione tatticamente vantaggiosa.

Tuttavia il 1° raggruppamento di brigata sudafricano che si trovava adesso all'avanguardia, si spinse avanti per 160 km lungo la strada e mentre gli italiani che si erano ritirati da Dire Daua stavano ancora avanzando fra le montagne, era arrivato in prossimità dell'Auasc. La 22ª brigata britannica dell'Africa Orientale oltrepassò il gruppo sudafricano e raggiunse il fiume prima della guarnigione italiana di Dire Daua e prima ancora che fossero state approntate le difese. Senza indugi ne risali il corso e, sotto la protezione del tiro dell'artiglieria, gli uomini si diedero da fare per stabilire una piccola testa di ponte sulla riva opposta, Addis Abeba si trovava a soli 240 chilometri.

A questo punto il duca d'Aosta decise di rinunciare alla difesa della capitale, comunicò a Mussolini che la sua unica speranza per riuscire in questo intento era di resistere in una o più località inespugnabili, abbandonando tutti i settori esposti. Per alleggerire la propria situazione e per il bene della stessa comunità dei connazionali sarebbe stato opportuno che questa passasse al più presto sotto la protezione militare inglese, soprattutto per evitare che in Addis Abeba si ripetesse quanto era avvenuto a Dire Daua. Perciò il duca ordinò di sgombrare la strada per non ostacolare l'ingresso delle truppe britanniche e diede disposizioni di lasciare sul posto scorte di viveri e un gruppo di funzionari civili affinché gli occupanti potessero mantenere in efficienza i servizi essenziali Le forze inglesi attestate sul fiume Auasc non erano a conoscenza della decisione presa dal viceré però furono informate che gli italiani in ritirata, anziché ripiegare su Addis Abeba, si stavano dirigendo a sud ovest verso l'inospitale regione di Neghelli, lontano dalla loro direttrice d'avanzata.

Nelle prime ore del 5 aprile un messaggero della polizia italiana giunse tutto affannato davanti alle prime linee degli inglesi, recando un appello urgente che li sollecitava a entrare senza indugio in Addis Abeba. Il presidio italiano si era ritirato al completo e gli etiopi si stavano sfrenando selvaggiamente, come era avvenuto a Dire Daua. Erano in pericolo soprattutto le donne e i bambini. Perciò il mattino seguente un nucleo misto formato da reparti delle tre brigate che avevano preso parte all'inseguimento entrò in città.

In otto settimane gli inglesi avevano percorso 2.700 km su un terreno che in certi tratti era fra i più impervi dell'Africa. Non avevano dovuto sostenere combattimenti di gran rilievo e le loro perdite negli scontri erano state esigue soltanto 501 uomini. Gli italiani avevano perduto buona parte dell'armamento, dell'equipaggiamento e delle scorte di viveri, oltre a un gran numero di prigionieri, però in combattimento anche le loro perdite erano state relativamente leggere. Addis Abeba era stata occupata, ma vi era ancora un'armata italiana in perfetta efficienza cosa che al momento si adattava ai piani del duca d'Aosta, ma non spiegava la rinunzia completa a un impegno più deciso per la difesa della Somalia, dell'Etiopia sudorientale o di Addis Abeba. E' da notare che il viceré aveva impartito disposizioni precise affinché in certi punti chiave ad esempio sul Giuba, a Dire Daua sui due passi montani prima di Harrar, sulle rive dell'Auasc, tutte posizioni strategiche di prim'ordine gli italiani opponessero resistenza, ma non uno dei suoi ordini fu eseguito. Inoltre l'aviazione italiana, che in questa prima fase sarebbe stata ancora in grado di sostenere una parte di rilievo nelle operazioni, praticamente non l'ebbe mai.

Mentre l'offensiva sferrata a sud dal generale Cunningham otteneva ottimi risultati nella parte nordoccidentale dell'Etiopia era già in corso un'altra fase della campagna, alla quale partecipava l'imperatore Haile Selassié, ed era diretta dal maggior generale William Platt, comandante del Sudan, dove il maggiore O.C. Wingate, si distinse nella condotta di operazioni belliche effettuate con truppe irregolari. Tali truppe, denominate Gideon Force, la cui composizione numerica non superò mai i 50 ufficiali e i 20 sottufficiali inglesi, gli 800 soldati di truppa sudanesi e gli 800 volontari etiopici, tennero impegnate con l'appoggio sporadico di capitribù e di bande etiopiche locali sette brigate italiane e numerose bande indigene arruolate al servizio degli italiani.

L'anno precedente il generale Wavell aveva ordinato di prendere in esame la possibilità di fomentare una ribellione etiopica contro gli italiani, nel caso l'Italia fosse entrata in guerra. Il colonnello D. A. Sandford, che in passato era vissuto in Etiopia, fu aggregato allo stato maggiore del generale Platt a Khartoum, con l'incarico di studiare il progetto. Perciò, quando l'Italia dichiarò guerra, il colonnello Sandford fu inviato in Etiopia a capo di una piccola missione militare che doveva svolgere la sua opera fra i capitribù simpatizzanti. Due settimane dopo l'entrata in guerra dell'Italia, Haile Selassié si era trasferito in volo da Londra a Khartoum e uno dei compiti essenziali affidati alla missione del colonnello Sandford era quello di predisporre una base all'interno del paese dove l'imperatore si potesse stabilire.

La missione del colonnello Sandford entrò in Etiopia dal Sudan un mese dopo lo scoppio delle ostilità e in un mese percorsero circa 300 km tra le alte montagne a sud est del lago Tana riuscendo ad assicurarsi l'amicizia di parecchie tribù. Inoltre il colonnello Sandford riferì che la presenza in Etiopia di Haile Selassié sarebbe stata di grande importanza, uno dei risultati del suo rapporto fu la decisione di formare un reparto di soldati etiopici quale esercito personale di Haile Selassié composto da unità speciali con ufficiali e sottufficiali inglesi comandato dal maggiore Wingate. Un battaglione della Defence Force sudanese aveva il compito di aprire una strada per i rifornimenti tra il confine e la sede che nel frattempo il colonnello Sandford aveva scelto come la più adatta per il comando di Haile Selassié. La località era Balaia, una fortezza montuosa naturale e isolata all'interno dell'Etiopia, a 3.131 m sul livello del mare, a 112 km dal confine e a 128 km a sud ovest del lago Tana.

All'arrivo di Haile Selassié Sandford, che nel frattempo era stato promosso generale di brigata, fu nominato suo consigliere personale. Wingate, promosso tenente colonnello, sostituì Sandford come capo della missione. Le unità sudanesi ed etiopiche entrarono a far parte della missione che Wingate chiamò col nome di Gideon Force, Gli italiani si erano ormai accorti che stavano maturando eventi nuovi e importanti, ma il loro servizio informazioni riferì semplicemente che un forte contingente di truppe inglesi era penetrato dal Sudan in Etiopia. Tribù locali, istigate e rifornite di armi da Sandford, cominciarono anch'esse a far opera di disturbo a danno degli italiani, i quali decisero di riorganizzare e raggruppare le loro forze a sud del lago Tana. Concentrarono due brigate a Bahar Dar, sul lago Tana, e due brigate a Buriè, 190 km più a sud, lasciando libera la strada che correva in mezzo al fine di non avere uno spiegamento di forze troppo esteso. Wingate arrivò con la Gideon Force sul crinale da cui si dominava la strada di Danghila un villaggio a sud del lago Tana il 19 febbraio proprio mentre gli italiani si stavano riorganizzando su quelle posizioni. Wingate divise la Gideon Force in due gruppi. Ne mandò uno a disturbare il ripiegamento italiano verso Bahar Dare con l'altro si precipitò giù per la strada di montagna verso Buriè, per impegnare una seconda brigata che si stava ritirando in quella direzione.

Durante i quindici giorni che seguirono la Gideon Force condusse contro gli italiani una serie di attacchi diurni e notturni che ebbero l'effetto di scompaginare l'avversario e di infliggergli gravi perdite. Anche la Gideon Force aveva subito forti perdite specialmente fra gli etiopi, il 14 marzo l'imperatore Haile Selassié si stabili nella nuova sede di Buriè.

Però la situazione si rifece critica quasi immediatamente, un potente capo etiopico ostile all'imperatore, Ras Hailù si era unito agli italiani a Debra Marcos con parecchie migliaia dei suoi guerrieri. Incoraggiato da questo avvenimento e dopo aver scoperto che il suo servizio informazioni lo aveva mal ragguagliato, il tenente generale di divisione Nasi, comandante italiano del settore, ordinò di riprendere Buriè e alle due brigate attestate a Bahar Dar di fare una sortita per tagliare la via della fuga all'imperatore. Il peso dei combattimenti fu sostenuto dal battaglione sudanese al comando del tenente colonnello Boustead. Lottando senza interruzioni per dieci notti di seguito, a un'altitudine per loro inusitata, i sudanesi sferrarono una serie di attacchi abilmente condotti contro gli italiani che tentavano di avanzare da Debra Marcos. Gli abissini di Ras Hailù, non abituati alle operazioni notturne e comunque totalmente digiuni di disciplina abbandonarono il campo.Il 4 aprile gli italiani sospesero i combattimenti ed evacuarono Debra Marcos. Nel settore meridionale Addis Abeba fu occupata due giorni dopo dalle truppe del generale Cunningham e Haile Selassié si trasferì a Debra Marcos.

Il generale Platt affidò immediatamente alla Gideon Force un nuovo compito. Gli inglesi sospettavano che il duca d'Aosta dirigendosi a nord di Addis Abeba avrebbe cercato di raccogliere le sue forze per opporre resistenza in qualche località fra le montagne. Perciò Wingate ricevette l'ordine d'impedire ai reparti nemici che si trovavano nella regione del lago Tana sia di aggregarsi alle truppe del viceré sia di unirsi fra loro; e la Gideon Force suddivisa in parecchi piccoli gruppi si sparpagliò per operare in un vasto raggio. La strada che dal lago Tana andava verso est per esempio fu tagliata da un gruppo; un altro gruppo insistette nelle azioni di disturbo contro i reparti italiani che si trovavano a Bahar Dar fino al punto da costringerli a ritirarsi lungo la sponda orientale del lago Tana e di qui verso nord; un altro gruppo ancora sorvegliava continuamente le forze di ras Hailù se mai questi avesse voluto cambiare ancora una volta idea mentre una quarta frazione della Gideon Force attaccò un battaglione italiano che si trovava 96 km a sud est del lago Tana costringendolo alla resa.

Una parte del presidio italiano che si era ritirato da Debra Marcos e che non poteva ripiegare a sud verso Addis Abeba poiché la capitale era già stata occupata dal generale Cunningham aveva attraversato nel frattempo le montagne dirigendosi verso est. La sua forza corrispondeva più o meno a quella di una brigata. Un piccolo reparto di sudanesi e di etiopi si lanciò all'inseguimento e seguitarono ad attaccare senza tregua i reparti in ritirata. Gli italiani riuscirono a raggiungere Addis Derrà, un villaggio fortificato di montagna 145 km a est di Debra Marcos e ad oltre 3.000 m sul livello del mare. Resistettero li sino alla metà di maggio, quando la mancanza di viveri li costrinse a riprendere la ritirata. Intanto Wingate aveva assunto il comando del piccolo reparto inseguitore ed era riuscito a ottenere l'appoggio di alcune tribù del luogo. Con il loro aiuto una parte del gruppo fu ora in grado di portarsi davanti al nemico in ritirata per bloccargli la strada. Seguirono tre giorni di combattimenti, il quarto giorno Wingate informò il comandante avversario, colonnello Maraventano, di aver ricevuto l'ordine di trasferire altrove le sue truppe sicché gli italiani, se non si fossero decisi ad arrendersi senza indugio, sarebbero rimasti alla mercé delle numerose bande etiopiche che si stavano ammassando nella zona. Si trattava soltanto di uno stratagemma, ma il colonnello Maraventano sapeva bene cosa sarebbe successo ai suoi 8.100 uomini se fossero caduti nelle mani degli etiopi. Perciò decise di arrendersi e questa fu l'ultima azione della Gideon Force che complessivamente aveva fatto 15.600 prigionieri e catturato un forte quantitativo di armi. Questa fase della campagna era durata in tutto tre mesi esatti.

L'offensiva britannica in Eritrea ebbe un obiettivo limitato come tutte le altre offensive in questo teatro di guerra. Secondo il punto di vista britannico finché Cassala rimaneva in mano degli italiani sussisteva il pericolo di un'avanzata nemica nel Sudan. Per parare l'eventuale pericolo il generale Wavell fu costretto a rafforzare le truppe del generale Platt che presidiavano questa regione di confine a tutto scapito del Medio Oriente. Le forze italiane in Eritrea al comando del generale Frusci erano cospicue ed efficienti: a Cassala e nella zona circostante nonché in certi capisaldi lungo la frontiera si trovavano 17.000 uomini ben equipaggiati con carri armati leggeri e artiglierie. Nelle retrovie il generale Frusci disponeva di tre divisioni e di tre brigate autonome e inoltre poteva ricevere rinforzi dall'Etiopia settentrionale. Gli inglesi attribuivano molta importanza alla riconquista di Cassala perché in tal modo avrebbero privato il nemico di un'eventuale linea di avanzata nel Sudan.

Ma il generale Frusci non aveva alcuna intenzione di tentare un'avanzata. Il duca d'Aosta si attendeva un'avanzata inglese in Eritrea. Così per pura coincidenza proprio quando il generale Platt stava preparando un attacco contro Cassala il viceré ordinò l'evacuazione della città e degli altri punti di frontiera per un ripiegamento su posizioni più favorevoli all'interno dell'Eritrea. L'avanzata del generale Platt su Cassala doveva incominciare il 19 gennaio, il ripiegamento italiano su posizioni situate approssimativamente lungo il limite orientale dell'obiettivo inglese ebbe inizio il 18 gennaio. La 4ª divisione indiana del maggior generale Beresford Peirse e la 5ª divisione indiana del maggior generale Heath ebbero l'ordine d'inseguire gli italiani in ritirata. Il primo contatto si ebbe a Cherù un villaggio eritreo che si trova a 96 km a est di Cassala e a 64 km dal confine dove una brigata italiana avrebbe dovuto impegnare gli inglesi con un'azione di retroguardia. Ma le truppe britanniche accerchiarono il villaggio precludendo all'avversario ogni possibilità di ripiegamento; sebbene gli italiani avessero tentato di aprirsi un varco, il comandante e circa 900 uomini furono fatti prigionieri.

A 72 km da Cherù, in direzione sud est, si trova Barentù e a 112 km ad est Agordat si trattava di due cittadine montane situate in posizioni difensive naturali e presidiate ciascuna da una divisione. L'avanzata indiana si svolse simultaneamente lungo due strade puntando su entrambe le città. Agordat la più orientale delle due fu raggiunta per prima dalla 4ª divisione indiana a nove giorni dall'inizio dell'avanzata. Dopo un vivace combattimento fra i monti che durò tre giorni e nel quale furono impiegati i carri armati da fanteria, Beresford Peirse l'accerchiò tagliando la strada che portava verso est. Tuttavia buona parte degli italiani riuscì ad aprirsi un varco in questa direzione abbandonando però sul terreno materiale bellico compresi cannoni e carri armati. A Barentù raggiunta dalla 5ª divisone indiana che era stata ripetutamente ritardata nella marcia da azioni di retroguardia gli italiani opposero una strenua difesa ma solo fino a quando appresero che Agordat era caduta e che la ritirata verso est era quindi preclusa. Durante la notte si aprirono un varco verso sud ovest fra le montagne. Le truppe britanniche inviate all'inseguimento non riuscirono a raggiungerli.

Wavell ordinò al generale Platt di spingersi verso Cheren e l'Asmara perché improvvisamente si era reso conto non senza sorpresa che sarebbe stato possibile conquistare tutta questa regione eliminando cosi anche il pericolo costituito dalla base navale di Massaua. Ma l'Asmara era lontana più di 170 km a est e Cheren che si trovava circa a metà strada era una delle posizioni difensive naturali più fortemente presidiate ed era l'unica via d'accesso al capoluogo dell'Eritrea e a Massaua. Gli ultimi 4 km della strada che porta a Cheren corrono in una gola angusta e incassata e costituiscono l'unico passaggio attraverso quella che praticamente è una parete rocciosa sovrastata da undici cime alte 600 metri e più sopra il livello della strada ciascuna delle quali era stata trasformata in una posizione difensiva dominante l'imbocco della gola. La strada che l'attraversa era stata distrutta o ostruita.

Sette di queste cime che coprono complessivamente una superficie di circa 13 km2 denominate Cameron Ridge, Sanchill, Brigs Peak, Hog's Back, Saddle, Flat Top e Samanna sorgevano sulla sinistra della gola e della strada. Le quattro rimanenti sulla destra erano: Dologorodoc (con un fortino), Falestoh, Zeban e Zalale. Un pendio tra la cima Falestoh e la Zalale che saliva verso un basso crinale formava un valico: Aqua Col.

Una divisione italiana rinforzata da tre battaglioni dell'11° reggimento granatieri di Savoia presidiava le difese mentre due brigate avanzavano a marce forzate per unirsi a quella e altre quattro rimanevano di riserva. I primi tentativi inglesi di aprirsi un passaggio furono compiuti dalla 4ª, divisione indiana. Il 3 febbraio all'alba l'11ª brigata di fanteria attaccò Sanchill, Brigs Peak e Cameron Ridge le tre cime sulla sinistra più vicine all'accesso alla gola. La battaglia con l'appoggio di un nutrito fuoco d'artiglieria da entrambe le parti infuriò quattro giorni. Gli indiani raggiunsero la sommità delle tre cime ma furono ricacciati sia da Sanchill sia da Brigs Peak dai risoluti contrattacchi degli italiani che combattevano con una tenacia raramente riscontrata loro comandante era il generale Carnimeo alle dipendenze del generale Frusci.

Il 7 febbraio la 5ª brigata di fanteria indiana sferrò un attacco notturno in direzione di Aqua Col sulla destra. L'azione di avvicinamento si compiva su un terreno molto accidentato e malgrado tutte le difficoltà e il tiro micidiale degli italiani la sommità del passo fu raggiunta ma non fu possibile tenerla per effetto dei ben diretti contrattacchi delle truppe italiane.

Il 10 febbraio Beresford Peirse sferrò un nuovo attacco sulla sinistra e sulla destra: gli obiettivi erano gli stessi degli attacchi precedenti. L'11ª brigata di fanteria indiana s'impossessò un'altra volta di Brigs Peak e ne fu ricacciata di nuovo. Un secondo attacco ebbe lo stesso esito di quello precedente. Altrettanto avveniva nella lotta per il possesso dell'Aqua Col dove buona parte della sella cadde nelle mani della 5ª brigata di fanteria indiana che in tale azione si meritò la Victoria Cross, ma fu ripresa dagli italiani nei contrattacchi.

Le perdite aumentavano in maniera impressionante e non era possibile continuare a mantenere una pressione del genere; inoltre gli inglesi avevano bisogno di una tregua per procurarsi rifornimenti e rinforzi. Per distrarre l'attenzione e forse anche una parte delle truppe dell'avversario il 7° raggruppamento di brigate della fanteria indiana attestato a Karora vicino all'estremità settentrionale dell'Eritrea ricevette l'ordine di dirigersi a sud. Comprendeva un battaglione inglese uno indiano e una brigata della Francia Libera.

La calma durò fino alla metà di marzo quando sia la 4ª sia la 5ª divisione indiana furono pronte. La 4ª doveva attaccare sulla sinistra mentre la 5ª doveva occupare Dologorodoc sulla destra per avanzare quindi verso Falestoh e Zeban. Intanto il 7° raggruppamento di brigata di fanteria indiana, che si trovava già a soli 12 km da Cheren, doveva attirare l'attenzione degli italiani su quel settore.

Preceduta da un violento bombardamento aereo e dal tiro d'interdizione di entrambe le divisioni l'11ª brigata di fanteria della 4ª divisione indiana rinforzata da due battaglioni il mattino del 15 marzo diede l'assalto a Sanchill, Brigs Peak, Hog's Back e Flat Top mentre la 5ª brigata di fanteria indiana attaccava Samanna. Tutti gli obiettivi furono raggiunti ma ancora una volta gli italiani ripresero Sanchill Brigs Peak e Samanna.

 
 
 

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Prima.

Post n°204 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

Seconda Guerra Mondiale. Guerra in Africa Orientale. Parte Prima.

In considerazione dello stato di ribellione che continuava a mantenersi un pò su tutte le regioni del territorio etiopico, dopo la conclusione delle operazioni di conquista (1935/36) gli italiani erano stati costretti a mantenere in armi forze molto superiori a quelle previste. Nel 1937, vi erano, infatti, 255.000 uomini (135.000 nazionali e 120.000 coloniali) anziché 100.000 (50.000 nazionali e 50.000 coloniali) come stabilito. Nel maggio 1940, alla vigilia della partecipazione italiana al conflitto, vi erano 285.000 uomini, di cui 85.000 nazionali e 200.000 coloniali.

Fin dal primo momento era stato stabilito, che in caso di guerra l'Impero avrebbe dovuto provvedere autonomamente alla propria difesa. Il governatore generale era allora il maresciallo Graziani. Il 1° dicembre 1937 Graziani chiese, l'assegnazione delle armi che egli riteneva indispensabili alla difesa: 3 brigate corazzate, 24 batterie controcarro, 3 gruppi di artiglieria contraerea, 6 battaglioni carri armati e autoblindo, 5 autogruppi.. Gli fu risposto di pensare all'ordine interno; alla difesa esterna si sarebbe provveduto successivamente.

Nel maggio 1939 il duca d'Aosta divenuto viceré d'Etiopia, presentò un piano delle misure da prendere per raggiungere l'autosufficienza. Il costo era di 4,8 miliardi che furono rifiutati, il duca ritornò sull'argomento con un piano ridotto a un pò meno di un miliardo e mezzo; ne furono concessi 900 che in realtà non saranno assegnati fino all'aprile 1940. Nel febbraio il viceré riunì i governatori generali delle varie regioni per un approfondito esame della situazione in vista del pericolo di guerra e misero in evidenza l'inconsistenza delle forze disponibili per la difesa alle frontiere, una volta provveduto alla repressione della guerriglia interna. Roma si rese conto, della precarietà della situazione e il 6 aprile l'invio di un blocco considerevole di materiale e di personale ma soltanto 24 carri medi, 24 carri leggeri, pochi pezzi di artiglieria e 300 tra ufficiali e specialisti giunsero a destinazione mentre tutto il resto rimase bloccato nel porto di Napoli dall'inizio dello stato di guerra.

L'autosufficienza, avrebbe dovuto essere garantita dall'ammasso di scorte adeguate, sufficienti a vivere e combattere per un anno. Il 10 giugno 1940 la situazione era ben lontana da questo livello. Le deficienze maggiori riguardavano la motorizzazione, sia per il limitato numero degli autocarri sia, soprattutto per la crisi nella disponibilità di gomme, corrispondenti appena al fabbisogno di un paio di mesi. Le scorte di carburante erano valutate sufficienti a 6/7 mesi di esercizio salvo naturalmente eventuali distruzioni da parte del nemico. Minori preoccupazioni destava il settore del vestiario e del vettovagliamento. Le munizioni di artiglieria erano accantonate nel quantitativo previsto, quelle per le armi portatili raggiungevano appena la metà del livello prestabilito. Mancavano totalmente le armi contraeree e controcarro. Le poche mitragliere da 20 disponibili (24 in tutto) erano prive di congegno di puntamento per il tiro contraereo e prive di munizionamento speciale controcarro: soltanto nella primavera del 1941 furono inviati 4.000 colpi, per aereo. L'organizzazione delle forze terrestri era stata adattata fondamentalmente alle esigenze della sicurezza interna. Esistevano soltanto due divisioni di fanteria, di tipo più o meno corrispondenti a quelle della madrepatria. Le operazioni di polizia richiedevano in prevalenza la disponibilità di unità leggere di entità elasticamente variabile in relazione ad obiettivi di volta in volta differenti. Perciò la base dell'organizzazione erano il battaglione e la brigata, composta di un numero vario di battaglioni, tanto per le truppe nazionali quanto per quelle coloniali. Era prevista la riunione occasionale di due o più brigate con congrui rinforzi di artiglieria e di elementi delle altre armi in divisioni di formazione opportunamente dosate in relazione alla natura e alle caratteristiche della particolare operazione da compiere. L'arma corazzata era rappresentata da 24 carri medi da 11 tonnellate 35 carri leggeri da 5 tonnellate e 126 vecchie autoblindo. Tutto l'armamento, dal fucile alla mitragliatrice all'artiglieria era costituito da residuati della prima guerra mondiale.

Con le forze regolari collaboravano poi bande irregolari che portavano un prezioso apporto nell'azione di controllo e di repressione della ribellione ma si dimostrarono estremamente infide con il procedere degli eventi fino a passare al nemico nell'ultima parte della campagna. Sola eccezione costituirono gli eritrei che dimostrarono con un generoso contributo di eroismo e di sangue la loro fedeltà all'Italia. Alla vigilia della dichiarazione di guerra tutto il potere, civile e militare, fu accentrato nelle mani del viceré che aveva alla sua diretta dipendenza, i comandanti dei tre scacchieri: nord (generale Frusci), sud (generale Gazzera), est (generale Nasi) e del settore autonomo del Giuba (generale Pesenti. L'aviazione disponeva teoricamente di 325 aeroplani ma in realtà soltanto 183 risultavano disponibili per la linea di volo, con 61 apparecchi di riserva in magazzino e 81 in riparazione. Si trattava di modelli assolutamente superati, destinati a soccombere, nonostante l'impegno dei piloti, nell'incontro con quelli della RAF. Allo scoppio della guerra il comando generale di Addis Abeba ricevette da Roma la seguente direttiva: tutelare all'interno e difendere all'esterno l'integrità del territorio dell'impero. Su questa base chiaramente difensiva era però prevista la preparazione di eventuali operazioni offensive a obiettivo limitato, da realizzare soltanto dietro ordine esplicito di Roma, allo scopo di migliorare la sicurezza della frontiera, nel Sudan, a Gibuti e nella Somalia britannica.

Durante il periodo della non belligeranza erano stati compiuti lavori difensivi di modesta entità in corrispondenza dei tratti più vulnerabili della frontiera e, nell'interno, a protezione di posizioni particolarmente delicate e vitali. Lo schieramento era stato effettuato in base al giusto criterio di mantenere in potenza la maggiore possibile massa di manovra, a disposizione dei comandanti di scacchiere e per la riserva generale, nelle mani del viceré. Perciò si era provveduto ad una sottile copertura delle frontiere mentre per la sicurezza all'interno dopo aver destinato un minimo di forze alla funzione di presidio statico locale si faceva assegnamento preminente sull'impiego di colonne mobili.

Lo sviluppo della situazione generale dopo il 10 giugno fino alla conclusione dell'armistizio con la Francia, portò a cancellare dalla lista delle possibili operazioni offensive per la rettifica delle zone di confine quelle dirette contro Gibuti. Gli italiani procedettero allora, in primo luogo, all'occupazione di Cassala nel Sudan sudorientale, per assicurarsi il possesso di quell'importante nodo di comunicazioni di primaria importanza nei riguardi di eventuali progetti d'invasione dell'Eritrea. L'obiettivo fu raggiunto il 4 luglio con perdite insignificanti dalle due parti. Rettifiche minori di importanza strettamente locale furono compiute in corrispondenza della frontiera del Kenya. Soltanto successivamente si pensò ad organizzare l'operazione, per l'occupazione della Somalia Britannica che doveva avere inizio a primi dell'agosto 1940.

L'Etiopia aveva un territorio che con i suoi 1.250.000 chilometri quadrati di superficie era il più inaccessibile di tutta l'Africa e teoricamente si trattava di un paese facile da difendere contro l'invasore ma la quasi impossibilità di movimento, tranne che sulle pochissime strade principali e la quasi totale mancanza di mezzi di comunicazione combinate con le enormi distanze imponevano severe restrizioni non solo all'esercito invasore ma anche ai difensori.

A nord dell'Etiopia si trovava la colonia italiana dell'Eritrea, 120.000 chilometri quadrati di montagne e di desolata terra desertica. Ad est e sud est vi era la Somalia in parte italiana in parte inglese ed in parte francese che comprendeva 800.000 chilometri quadrati quasi completamente privi di risorse. Alla natura del terreno si deve aggiungere l'impreparazione che da entrambe le parti, c'era su questo teatro di guerra. La Gran Bretagna quando l'Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940, non aveva in Africa Orientale forze capaci di sostenere una campagna. Le formazioni che era stato possibile mettere insieme o reclutare sul posto potevano consentire soltanto all'inizio di pensare alla possibilità di difendere il Kenya la Somalia britannica e il Sudan contro un'invasione italiana e anche questo limitatamente al caso che tale invasione fosse alquanto blanda.

Sulla carta gli italiani avevano una soverchiante superiorità numerica ma questa situazione era parzialmente modificata da diversi seri handicap. Le forze britanniche aumentarono sensibilmente nelle varie fasi della campagna. Gli italiani non ricevettero alcun rinforzo, ma comunque le loro forze all'inizio della campagna erano rilevanti. In base agli stessi dati italiani comprendevano: truppe nazionali 91.203 truppe indigene 199.273 totale 290.476 uomini, gli italiani poi, erano tagliati fuori dalla madrepatria senza alcuna possibilità di ricevere rinforzi o complementi di qualsiasi specie e l'Etiopia non aveva né l'economia né le risorse per soddisfare le esigenze di una campagna prolungata.

I britannici, il cui servizio informazioni era inadeguato e trascurato non sapevano quanto poco valessero effettivamente le forze italiane. Si doveva tenere conto perciò della possibilità d'una invasione di territori in mano inglese. Gli italiani invasero la Somalia britannica ma nel Sudan limitarono la loro attività alla presa di Cassala, un centro importante a 20 km circa dalla frontiera Eritrea e nel Kenya all'occupazione di Moyale una piccola città di confine. Nei due casi lo scopo era soltanto di privare i britannici di due basi potenziali, di due possibili vie d'accesso all'Africa Orientale italiana.

Invasione o no, la presenza dell'Italia nell'Africa Orientale era un grave problema. Il Corno d'Africa dominava l'ingresso del Mar Rosso la linea vitale per il Medio Oriente dopo la chiusura del Mediterraneo. Gli aerei italiani con base a terra rappresentavano una minaccia per le navi britanniche che rifornivano il Medio Oriente e a Massaua esisteva anche una base navale. Per di più a causa della presenza italiana il Mar Rosso era ufficialmente zona di guerra il che significava che le navi americane non potevano entrarvi. Ciò aggravava ulteriormente il problema dei rifornimenti. Un'altra seria considerazione sorgeva dalla convinzione che gli italiani stessero organizzando rapidamente le forze indigene reclutate in Etiopia e fintanto che l'Africa Orientale italiana rappresentava una potenziale minaccia, le truppe anche se necessarie altrove, dovevano essere dirottate nel Kenya e nel Sudan per l'eventualità di un'avanzata italiana in una di quelle regioni.

 

La campagna dell'Africa Orientale ebbe inizio con l'invasione italiana della Somalia britannica. Il duca d'Aosta principe di casa Savoia e viceré d'Etiopia aveva ricevuto ordine da Mussolini di mantenere atteggiamento difensivo. Ma il viceré temeva che la Somalia francese con il suo importante porto di Gibuti potesse rappresentare una comoda base per l'invasione britannica dell'Etiopia e benché la Somalia francese fosse passata a Vichy dopo il crollo della Francia il duca d'Aosta non si fidava della guarnigione francese di Gibuti. La miglior precauzione suggerì a Mussolini sarebbe stata l'occupazione della Somalia britannica.

Tanto la Somalia britannica quanto la Somalia italiana sono regioni desolate, vi sono scarsissime risorse naturali non piove quasi mai. A circa 80 km all'interno, verso la frontiera etiopica e parallela alla costa corre un'alta catena di montagne laviche alte sui 2.000 metri che un invasore proveniente dall'Etiopia deve necessariamente attraversare. Quindi, era la zona ideale per bloccare il nemico, o qui o non è più possibile fermarlo, non essendovi altre posizioni difensive. La prima valutazione britannica era che non fosse possibile difendere la Somalia il che equivaleva a offrire agli Italiani la costa lungo il golfo di Aden. Il generale Wavell decise che bisognava fare uno sforzo per tenerla. Occorreva un minimo di cinque battaglioni ma al momento dell'inizio dell'invasione italiana il 3 agosto 1940, il comandante della colonia brigadiere A R Chater disponeva soltanto del I battaglione del reggimento della Rhodesia del Nord del II battaglione fucilieri reali africani e di due compagnie del reggimento Punjab del piccolo Camel Corps somalo e di una batteria con quattro obici da 94 mm. Contro queste forze il generale Nasi comandante italiano nell'Etiopia sud orientale disponeva di 26 battaglioni, ciascuno con la propria artiglieria, cinque bande al comando di ufficiali italiani quattro batterie da campagna, carri leggeri e medi e autoblindo. Inoltre le forze britanniche non avevano avuto tempo di costruire difese che servissero da copertura ai pochi passi attraverso la catena montagnosa. Il più importante di tali passi per il quale passava la sola strada per Berbera corrispondeva ad un'ampia apertura della catena stessa ed era chiamato Tug Argan.

Dopo aver attraversato la frontiera completamente aperta il 3 agosto le forze italiane si frazionarono. Una colonna si diresse verso la frontiera della Somalia francese: ed entro due giorni essa aveva raggiunto il suo obiettivo che era quello di bloccare la guarnigione francese nel caso questa fosse disposta a intervenire in appoggio agli inglesi. Sul resto delle forze al comando del maggior generale de Simone, si appuntò immediatamente l'attenzione del Camel Corps somalo. Pur costretto a ripiegare continuamente il Camel Corps impiegò ogni possibile forma di disturbo ritardando seriamente l'avanzata degli italiani. Di conseguenza, il generale de Simone impiegò due giorni per raggiungere Hargeisa. Sopravvalutando la forza del Camel Corps invece di buttarsi subito su Tug Argan, perse tre giorni a trasformare Hargeisa in una base atta a sostenere i seri combattimenti che si attendeva.

Il generale de Simone riprese la sua marcia l'8 agosto e raggiunse Tug Argan l'11 ma l'indugio di Hargeisa era stato di grande importanza per I difensori britannici: aveva dato tempo al battaglione Black Watch di arrivare e aveva inoltre consentito al generale Wavell di assegnare un comandante alle forze di difesa, il maggior generale A R Godwin Austen, arrivato proprio quando l'invasore raggiungeva Tug Argan. Qui la strada piena di curve era dominata da sei alture lontane da un chilometro e mezzo a due, e occupate da forze britanniche. Gli italiani misero in atto un pesante sbarramento di artiglieria e quindi si lanciarono con forze che assommavano a una brigata contro un'altura tenuta da una compagnia del III battaglione del 15° reggimento Punjab. Presero l'altura e la conservarono malgrado due decisi contrattacchi degli indiani. Altre due alture furono assaltate ma i difensori, nettamente inferiori nel numero, tennero duro ed inflissero gravi perdite agli italiani che in quel giorno non fecero altri progressi. Il giorno successivo furono attaccate tutte le posizioni difensive e tutte, meno una resistettero. Mentre le forze britanniche erano impegnate al completo, gli italiani disponevano di ampie riserve, con cui riuscirono gradatamente a salire sulla destra e cominciarono ad avanzare sul fianco est delle alture difese. Il 13 agosto i combattimenti continuarono ancora per tutta la giornata senza che nessuno dei difensori cedesse terreno. Dopo però che falli un tentativo di bloccare le infiltrazioni nemiche, le truppe britanniche cominciarono a rendersi conto che stavano per essere circondate e correvano pericolo di essere tagliate fuori dall'unica loro linea di ritirata.

Il 14 agosto quarto giorno di battaglia, i difensori resistevano ancora ma la minaccia di essere tagliati fuori da un momento all'altro si faceva sempre più evidente, il generale Godwin Austen, allora telegrafò al Cairo affermando che, in assenza di ogni altra posizione atta alla difesa, l'unico modo per salvare le sue forze era evacuare la Somalia. Il Cairo approvò, Godwin Austen resistette ancora un giorno contro attacchi continui ma la notte del 15 cominciò a ritirarsi verso una posizione predisposta alcune miglia più indietro dove il Black Watch rinforzati da una compagnia della Rhodesia del Nord e da una del Punjab doveva condurre azioni di retroguardia. C'è da dire che il Black Watch contrattaccò due volte con tanta violenza che gli italiani furono costretti a fermarsi, il che concesse al generale Godwin Austen il tempo per imbarcare le sue forze su una nave da guerra in attesa a Berbera. Gli italiani raggiunsero Berbera il 1 agosto.

La difesa della Somalia britannica era costata agli inglesi 250 perdite contro le 205 degli italiani. Gli italiani avevano pagato cara la conquista e si resero conto che il prezzo sarebbe stato assai più alto se le forze britanniche avessero disposto un adeguato appoggio d'artiglieria. La maggior parte delle forze evacuate da Berbera andò ad aggiungersi all'organizzazione che gradualmente si andava predisponendo nel Kenya, e la Somalia fu lasciata indisturbata per sette mesi, a parte attacchi aerei occasionali e, in dicembre, un raid dal Kenya guidato dal generale Godwin Austen, ad un posto di frontiera.

Il controattacco Inglese.

Quando fu lanciato il primo attacco contro l'Africa Orientale italiana, nel febbraio 1941, per rimuovere quella che era ancora considerata una minaccia contro il Kenya, esso fu diretto contro la Somalia e fu principalmente opera della 12ª divisione africana del generale Godwin Austen (1ª brigata del Sud Africa, 22ª brigata dell'Africa Orientale e 24a brigata della Costa d'Oro) Un problema difficile era come arrivare alla Somalia. La sola strada transitabile correva attraverso il distretto della frontiera settentrionale del Kenya una regione stepposa, quasi senza strade calda ostile e priva d'acqua tranne che nei mesi delle piogge quando però il suolo si trasformava in un immenso acquitrino e diventava impossibile transitarvi. Dal più vicino capolinea ferroviario c'erano più di 600 km; di lì in poi i rifornimenti dovevano essere trasportati per strade che mettevano a dura prova i non molti automezzi disponibili. In effetti, quella regione rappresentava più un ostacolo di diverse centinaia di chilometriche un conveniente trampolino di lancio. Il generale Cunningham, che aveva assunto il comando nel Kenya in novembre aveva calcolato che nessun attacco sarebbe stato possibile prima di maggio, quando le grandi piogge sarebbero cessate; ma la grande impazienza che regnava a Londra insieme al grande bisogno che si aveva nel Medio Oriente delle truppe che si trovavano in Kenya indussero ad affrettare i tempi. L'offensiva di febbraio non veniva però considerata con molta fiducia. Le forze italiane in Somalia erano assai sopravvalutate. Ci si attendeva una forte resistenza a Chisimaio una importante città portuale nel sud sul fiume Giuba. Se non si riusciva a prendere Chisimaio e ad attraversare il Giuba prima che le forze britanniche avessero consumato buona parte dei rifornimenti non sarebbe stato possibile avanzare verso nord. Si aveva persino l'impressione che fosse necessario ritirarsi, qualora Chisimaio non fosse caduta entro dieci giorni.

Per i primi 150 chilometri ad est attraverso una regione piatta, fino alla città di Afmadu che la 12ª divisione africana doveva attaccare l'11 febbraio non ci si aspettava alcuna resistenza del distretto della frontiera settentrionale. Il 10 febbraio Afmadu fu pesantemente bombardata dall'aviazione sudafricana: l'effetto sul morale della guarnigione italiana fu tale che quando le truppe di testa della 12ª divisione africana cautamente si avvicinarono, scoprirono che gli italiani erano fuggiti. Spostarsi nella Somalia meridionale è altrettanto difficile che nella regione della frontiera settentrionale del Kenya ma le tre brigate della 12ª divisione africana dopo che Afmadu era stata trovata sgombera, procedettero con sorprendente celerità. La 24ª brigata della Costa d'Oro procedette per un centinaio di chilometri verso ovest e il giorno seguente conquistò una posizione difesa sulla riva destra del Giuba vincendo una accanita resistenza prima di lanciarsi per altri 50 km verso nord ad impadronirsi di una seconda posizione sul Giuba.

Il mattino del 14 febbraio i sudafricani presero Gobuin, 130 km a sud est di Afmadu, sulla frontiera del Giuba, appena 15 km a nord di Chisimaio: con ciò veniva sgomberata la via alla 22ª brigata dell'Africa Orientale che prese d'assalto Chisimaio la sera stessa. La resistenza fu trascurabile, essendo gli italiani per la maggior parte in fuga.Il duca d'Aosta sopravvalutando la forza dei britannici come questi avevano sopravvalutato la sua ordinò l'evacuazione di Chisimaio e la distruzione di tutti i magazzini ed installazioni ma la celerità dell'avanzata britannica aveva prevenuto le demolizioni. Gli italiani occupavano ora con forze considerevoli la sponda del Giuba di fronte ai sudafricani a Gobuin. Avevano distrutto il ponte e si erano organizzati a difesa così che ebbero poca difficoltà a bloccare il primo tentativo delle truppe sudafricane di attraversamento del fiume. Per una settimana furono fatti numerosi tentativi poi alcuni battelli d'assalto sudafricani riuscirono ad attraversare 11 km a monte.

Gli italiani contrattaccarono immediatamente ma la testa di ponte resistette mentre dei rinforzi venivano traghettati. Seguirono due giorni di accaniti combattimenti ma il 23 febbraio I sudafricani erano padroni di entrambe le rive su un'ampiezza di 8 miglia. I sudafricani si buttarono immediatamente verso nord e con una puntata di 80 chilometri lungo la riva orientale si riunirono alla brigata della Costa d'Oro che aveva forzato dopo scarsa lotta il passaggio del fiume 130 km più a monte e stava dirigendosi a sud contro Gelib una città situata sulla riva orientale a cavallo della strada principale del nord. Era stato elaborato un piano particolareggiato ma la resistenza italiana inaspettatamente e misteriosamente, crollò quasi subito. Era chiaro ormai che le forze italiane o non volevano combattere o erano incapaci di offrire una consistente resistenza.

Il comandante italiano era lo stesso generale de Simone che aveva combattuto la battaglia di Tug Argan sette mesi prima. Disponeva di due divisioni nella zona ma la sua riluttanza ad impegnarle era uno dei frutti della difesa organizzata a Tug Argan dal generale Godwin Austen che ora lo fronteggiava di nuovo. C'è da notare che i mezzi di trasporto italiani erano molto inferiori alle esigenze e privarono così il generale de Simone di quella mobilità che è fattore essenziale della manovra tattica. La provata abilità delle brigate del generale Godwin Austen a muovere ad alta velocità su un terreno orribile obbligava il generale de Simone ad essere guardingo nei momenti cruciali dell'azione e lo privava di ogni iniziativa. L'aviazione italiana per giunta faceva una meschina figura mentre le truppe britanniche godevano di un eccellente appoggio aereo. In quel momento l'aviazione italiana aveva abbondanza di apparecchi in Africa Orientale e cosi pure di pezzi di ricambio e di carburante: la ragione di questo comportamento non è mai stato spiegato.

Le truppe etiopiche che combattevano con gli italiani si rivelavano assai malfide e tendevano a sparire nella macchia ai primi colpi. Ciò non avrebbe dovuto sorprendere gli italiani che affidarono invece agli etiopi il compito di ritardare e molestare le forze britanniche. Dopo la caduta di Gelib il comando italiano in Somalia si disintegrò e i piani britannici furono sottoposti a revisione.

La mancanza di una seria resistenza italiana aveva colto di sorpresa gli inglesi e indicava che si potevano assumere dei rischi non considerati in precedenza. Inoltre la presa di Chisimaio, da parte dei britannici, senza quasi doverla danneggiare consentiva di portare via mare i rifornimenti cambiando cosi l'intera situazione logistica. Ciò che era cominciato come una puntata limitata per eliminare una possibile minaccia sul Kenya si trasformava ad un tratto in un'operazione offensiva volta a cacciare completamente gli italiani dalla Somalia allo scopo di usufruire di questa regione come base per l'invasione dell'Etiopia da sud est. Il generale Cunningham ordinò quindi che Mogadiscio la capitale con un porto importante e buoni servizi, venisse occupata al più presto possibile. La fresca 23ª brigata della Nigeria (della II divisione africana) che nel frattempo si era trasferita dal Kenya nella zona di Chisimaio venne immediatamente dislocata a Gelib col compito di inseguire gli italiani in ritirata, questi bersagliati dal mare e dal cielo trasformarono la ritirata in una rotta e i nigeriani coprirono i 400 km che li separavano da Mogadiscio in tre giorni. Non fu neppure tentata una qualsiasi difesa di Mogadiscio e il 25 febbraio i primi nigeriani entrarono nella città ove trovarono 1.500.000 litri di benzina e 360.000 litri di carburante per aerei nonché una quantità considerevole di provviste, il porto era stato nemmeno seriamente danneggiato.

Il rastrellamento degli Italiani nell'interno della Somalia venne affidato alla brigata 21ª dell'Africa Orientale e 24ª della Costa d'Oro. Il generale Wavell consentì a liberare il generale Cunningham dal compito di rioccupare la Somalia britannica poiché l'azione verso l'Etiopia non doveva essere rinviata. Due battaglioni della guarnigione di Aden furono successivamente inviati nella Somalia britannica e non trovarono quasi resistenza. La conquista della Somalia aveva richiesto un tempo incredibilmente breve: nel complesso erano stati guadagnati quasi due mesi sulla data che non molto tempo prima era stata considerata come la più opportuna per dare inizio alle operazioni. La valutazione di ciò che era realizzabile nella campagna dell'Africa Orientale poteva pertanto essere massicciamente riveduta. Era stato acquisito un importante dato di esperienza: che la celerità di movimento sconcertava i comandanti italiani. Questa esperienza venne poi ampiamente sfruttata in seguito e servì più di una volta a mandare all'aria i piani degli italiani.

 
 
 
 
 

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Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

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...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
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Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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