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Prospettive rivoluzionarie nel XXI secolo

Post n°230 pubblicato il 10 Aprile 2009 da zmblog

Prospettive rivoluzionarie nel XXI secolo
di Domenico Losurdo
 
(pubblicato in lingua portoghese in «Alentejo popular» del 12 marzo 2009, pp. 8-11)
 
Nel 1938 Trotskij fondava la Quarta internazionale a partire da un presupposto: come nel corso del primo conflitto mondiale, così nel corso del secondo conflitto mondiale che ormai si profilava si sarebbe verificata la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria e ne sarebbe derivata un’ondata rivoluzionaria ancora più gigantesca di quella che aveva segnato la nascita della Russia sovietica. In effetti, un’ondata rivoluzionaria scuoteva l’intero pianeta ma si sviluppava secondo modalità diverse e contrapposte, a partire da guerre di resistenza e liberazione nazionale contro l’imperialismo: ciò non valeva solo per l’Unione Sovietica impegnata nella Grande guerra patriottica o per la Cina, o per la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, l’Albania; anche per paesi capitalistici più o meno avanzati quali la Grecia, l’Italia, la Francia, la rivoluzione si sviluppava come guerra di liberazione nazionale diretta dal partito comunista. In realtà, contrariamente alle previsioni di Trotskij, la nascita della Russia sovietica e l’impulso da essa fornita al movimento anticolonialista e sul versante opposto l’emergere del Terzo Reich impegnato a riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, facendola valere nella stessa Europa orientale, in sintesi proprio le novità emerse a partire dall’ottobre 1917 rendevano impossibile la ripetizione dello scenario della prima guerra mondiale.
 
Nel 1952, un anno prima della sua morte, Stalin faceva anche lui una previsione: sconfitti nel 1945, Germania e Giappone non avrebbero subito per sempre l’egemonia degli Stati Uniti; sarebbero scoppiate nuove violente contraddizioni interimperialiste, e ciò sarebbe stata l’occasione per un nuovo e forse decisivo ampliamento del campo socialista. Si sarebbe cioè verificato uno scenario simile a quello della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, la quale ultima, prima di coinvolgere l’Unione Sovetica, aveva visto scontrarsi solo paesi capitalistici. Com’è noto, le cose sono andate in direzione esattamente contrapposta: la forza del campo socialista e la paura della sua estensione hanno contribuito al compattamento dell’imperialismo, mentre è stato proprio il campo socialista che, non riuscendo a risolvere il problema nuovo del rapporto tra paesi socialisti, ha conosciuto contraddizioni aspre e persino violente al suo interno e infine è andato incontro alla sua dissoluzione.
 
Infine. Nel 1965 da Pechino Lin Piao faceva una terza previsione: la dialettica che aveva promosso la vittoria della rivoluzione in Cina, e cioè l’accerchiamento della città a partire dalla campagna, si sarebbe manifestata anche a livello planetario. La vittoria in Asia, Africa, America Latina delle rivoluzioni anticoloniali dirette da partiti comunisti avrebbe progressivamente accerchiato la metropoli capitalista e imperialista, finché questa stessa avrebbe finito col crollare. In realtà, nel 1928 Mao aveva charito che a rendere possibile la costruzione del «potere rosso» nelle campagne cinesi erano «le contraddizioni e la lotta fra gli Stati imperialisti». Proprio la vittoria della rivoluzione cinese e di altre rivoluzioni anticoloniali spingeva i paesi capitalisti ad accantonare in una certa misura le loro rivalità e a compattarsi sotto la guida degli Stati Uniti. Sicché, tra il 1989 e il 1991 non era la campagna socialista ad accerchiare la metropoli capitalista e imperialista, era al contrario la metropoli capitalista e imperialista ad accerchiare paesi quali Cuba, il Vietnam e la Cina.
 
In conclusione, ogni volta che si è abbandonato al gioco delle analogie, il movimento comunista è andato incontro a cocenti delusioni o a vere proprie catastrofi. E’ necessario invece, per dirla con Lenin, procedere ad un’«analisi concreta della situazione concreta». A questa lezione occorre ispirarsi, allorché ci interroghiamo sulle prospettive della rivoluzione nel XXI secolo. La situazione è radicalmente mutata rispetto al passato. Sull’onda del fallimento del progetto hitleriano di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, individuando nell’Europa orientale il Far West da colonizzare e germanizzare, sull’onda di Stalingrado e della disfatta inflitta al nazifascismo, subito dopo la seconda guerra mondiale si sviluppava una rivoluzione anticolonialista di dimensioni planetarie. Ad essere scosse non erano solo le colonie propriamente dette. In paesi come gli Stati Uniti e il Sudafrica i popoli di origine coloniale si ribellavano contro lo Stato razziale e il regime di white supremacy. Prima ancora che trovare espressione cosciente nei partiti e nelle forze di sinistra, l’internazionalismo era nei fatti: esso abbracciava i popoli coloniali e di origine coloniale, i paesi socialisti che appoggiavano la rivoluzione anticolonialista e antirazzista, le masse popolari dell’Occidente che si erano scosse di dosso il giogo del fascismo e che talvolta, ad esempio in Italia, erano riuscite a sancire nella stessa Costituzione il rifiuto della guerra e della politica di guerra e di egemonia.
 
1. La rivoluzione anticoloniale ieri e oggi
 
Ebbene, la prima domanda che ci dobbiamo porre è questa: che ne è oggi della gigantesca rivoluzione anticoloniale stimolata dalla rivoluzione d’ottobre e accelerata da Stalingrado? No, tale rivoluzione non è dileguata. In una realtà come quella palestinese il colonialismo continua a sussistere nella sua forma classica, come dimostrano l’ininterrotta espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, la conseguente espropriazione, deportazione ed emarginazione del popolo palestinese e il diffondersi di un regime di apartheid. E, tuttavia, nonostante la strapotenza e l’impiego barbarico della macchina da guerra israeliana, sostenuta peraltro dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea, nonostante tutto ciò, il popolo palestinese resiste eroicamente.
 
In altre parti del mondo la lotta tra colonialismo e anticolonialismo si manifesta in forme diverse. Sul continente americano il Novecento si apriva con una significativa dichiarazione di Theodore Roosevelt: alla «società civilizzata» nel suo complesso – egli affermava – spettava un «potere di polizia internazionale», e tale potere gli Stati Uniti l’avrebbero esercitato in America Latina. A partire da questa ripresa e radicalizzazione della dottrina Monroe, non si contano gli interventi militari effettuati dalla repubblica nordamericana a danno dei suoi vicini, considerati estranei al mondo civile e assimilati a barbari bisognosi della tutela imperiale. Sennonché, la dottrina Monroe è caduta radicalmente in crisi a partire da una rivoluzione di cui in questi giorni si è celebrato il cinquantesimo anniversario. Nel corso del mezzo secolo nel frattempo trascorso, ogni mezzo è stato messo in atto per isolare, diffamare. strangolare, liquidare la rivoluzione cubana, ma oggi la sua forza e il suo significato internazionale sono confermati dai mutamenti in atto in paesi quali il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador, il Brasile, il Nicaragua, il Paraguay. Con modalità di volta in volta assai diverse, la rivoluzione anticolonialista e antimperialista è in marcia in America Latina.
 
Nel corso del Novecento la rivoluzione anticolonialista ha divampato anche in Asia e in Africa. E’ oggi? Per fare il punto della situazione, conviene prendere le mosse da un’osservazione di Frantz Fanon, il grande teorico della rivoluzione algerina. Allorché si sentono costrette a capitolare – scrive Fanon nel 1961– le potenze coloniali sembrano dire ai rivoluzionari: «Giacché volete l’indipendenza, prendetevela e crepate»; in tal modo «l’apoteosi dell’indipendenza si trasforma in maledizione dell’indipendenza». E’ a questa nuova sfida, di carattere non più militare, che occorre saper rispondere: «ci vogliono capitali, tecnici, ingegneri, meccanici, ecc.». D’altro canto, già nel 1949, prima ancora della conquista del potere, Mao aveva insistito sull’importanza dell’edificazione economica: Washington desidera che la Cina si «riduca a vivere della farina americana», finendo così col «diventare una colonia americana». E dunque, senza la vittoria nella lotta per la produzione, agricola e industriale, la vittoria militare era destinata a rivelarsi fragile e inconcludente. In altre parole, Mao e Fanon hanno in qualche modo previsto da un lato lo stallo di tanti paesi africani che non sono riusciti a passare dalla fase militare alla fase economica della rivoluzione, dall’altro la svolta verificatasi in rivoluzioni anticoloniali come quella cinese e vietnamita.
 
2. La nascita del Terzo Mondo
 
E’ un punto cruciale sul quale conviene soffermarsi. Chiediamoci in che modo si è formato il Terzo Mondo, lo spazio tradizionalmente oppresso e saccheggiato dall’Occidente colonialista e imperialista. Con una lunga storia alle spalle, che l’aveva vista per secoli o per millenni in posizione eminente nello sviluppo della civiltà umana, ancora nel 1820 la Cina vantava un Pil che costituiva il 32,4% del Prodotto interno lordo mondiale; nel 1949, al momento della sua fondazione, la Repubblica Popolare Cinese era divenuto il paese più povero, o tra i più poveri, del globo. Non molto diversa è la storia dell’India che, sempre nel 1820, contribuiva per il 15, 7% al PIL mondiale, prima di cadere anch’essa in una spaventosa miseria. E cioè, non possiamo comprendere il processo di formazione del Terzo Mondo facendo astrazione dalla politica di saccheggio e di de-industrializzazione condotta dalle potenze colonialiste e imperialiste.
 
Ma al processo di formazione del Terzo Mondo contribuisce un’altra circostanza. Per comprenderla, dobbiamo far riferimento ad una rivoluzione che alla fine del Settecento si svolge in un paese che oggi si chiama Haiti ma che allora portava il nome di Santo Domingo. E’ una rivoluzione degli schiavi neri che spezzava al tempo stesso le catene del dominio coloniale e dell’istituto della schiavitù: nasceva così sul continente americano il primo paese affrancato dal flagello della schiavitù. A dirigere questo processo di emancipazione era un giacobino nero, Toussaint Louverture, una grande personalità storica per lo più ignorata dai nostri libri di storia ma che in una società democratica dovrebbe figurare obbligatoriamente anche nei libri di educazione civica. Ebbene, dopo la vittoria militare Toussaint Louverture si poneva il problema dell’edificazione economica: a tal fine avrebbe voluto utilizzare anche i tecnici e gli esperti bianchi provenienti dalle file del nemico sconfitto; per questo motivo fu accusato o sospettato di voler restaurare il dominio bianco e di tradire così la rivoluzione. Ne scaturiva una tragedia che ancora oggi ci deve far riflettere. Santo Domingo era un’isola assai ricca, grazie allo zucchero prodotto in piantagioni di ampie dimensioni e di notevole efficienza e largamente esportato. Certo, la ricchezza prodotta dagli schiavi era intascata dai loro padroni. Era possibile per gli ex-schiavi far funzionare a loro profitto l’economia sviluppata da loro ereditata grazie alla rivoluzione? Disgraziatamente, in seguito alla sconfitta della linea di Toussaint Louverture, a Santo-Domingo/Haiti subentrava un’arretrata agricoltura di sussistenza. L’isola conosceva così la miseria generalizzata, ed essa è tuttora uno dei paesi più poveri del globo. In conclusione, a formare il Terzo Mondo sono anche i paesi che non riescono a passare dalla fase militare a quella economica della rivoluzione, i paesi in cui per una ragione o per un’altra la rivoluzione anticoloniale conosce la sconfitta o il fallimento.
 
3. L’imperialismo e la condanna all’inedia dei popoli ribelli
 
Non si comprenderebbe nulla della lotta tra colonialismo e anticolonialismo, tra imperialismo e anti-imperialismo, se non si tenesse conto che essa viene condotta anche sul piano economico. Subito dopo la rivoluzione guidata da Toussaint Louverture, Thomas Jefferson dichiarava di voler ridurre all’«inedia» il paese che aveva avuto la sfrontatezza di abolire la schiavitù. Questa medesima vicenda si è riproposta nel Novecento. Già subito dopo l’ottobre 1917, Herbert Hoover, in quel momento alto esponente dell’amministrazione Wilson e più tardi presidente degli Usa, agitava in modo esplicito la minaccia della «fame assoluta» e della «morte per inedia» non solo contro la Russia sovietica ma contro tutti popoli inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione bolscevica.........

 
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