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NAPOLI VELATA – LA RECITAZIONE DI GIOVANNA MEZZOGIORNO da il cinematografo

Post n°14204 pubblicato il 14 Gennaio 2018 da Ladridicinema
 

di Gianni Canova

Come catatonica. Come in trance. Come sospesa. Come se non fosse lei ad agire, ma fossero i fatti, gli accadimenti e gli incontri ad agire in lei. È straordinario il lavoro di “sottrazione” che Giovanna Mezzogiorno ha messo in atto per creare il personaggio di Adriana, protagonista di Napoli velata di Ferzan Ozpetek. In un contesto narrativo dai tratti marcatamente melò, alle prese con una sceneggiatura e una regia che non temono di far propri gli eccessi (drammaturgici, ma anche ritmici, sintattici e visivi) che del melò sono costitutivi e irrinunciabili, lei lavora in direzione opposta. Quanto più la regia eccede, tanto più lei recede. Cioè leva, sottrae, riduce. Quasi a creare una sorta di attrito (un controcanto?) fra il suo corpo e il contesto – narrativo, ma anche sociale, culturale ed emozionale – in cui il suo corpo agisce. Meglio: viene agito. Perché fin dall’inizio il personaggio di Adriana non sceglie. Viene scelto. Non decide, accetta che altri decidano per lei.

Prendete anche solo la prima scena, quella in cui lei assiste insieme a tutti gli altri personaggi al rito apotropaico della “figliata” dei femminielli. Uno sconosciuto, da lontano, la guarda fisso negli occhi, poi le si avvicina e le dice: “Tu passerai la notte con me”. Lei non replica, non risponde, non reagisce. Il suo viso è come una maschera impenetrabile. Un mix di titubanza, sorpresa, compiacimento, desiderio, paura, curiosità. Ma è il suo corpo a rispondere. La vediamo camminare di spalle, al fianco dello sconosciuto, in una piazza di Napoli, e poi, subito dopo, appena entrati in casa, abbandonarsi rapinosamente al sesso che lui le offre e le chiede. Il sesso, finalmente. Come scomparso dal cinema italiano degli ultimi anni, continuamente alluso, evocato, raccontato, ma mai visto e vissuto, irrompe con spavalda energia nell’incipit del film di Ozpetek. Senza preamboli, senza preliminari. Appassionato, divorante, vorace. E Giovanna Mezzogiorno vi si abbandona con un’intensità di cui non molte altre attrici italiane sarebbero capaci. Senza paura di mettere in gioco e in campo la nudità, il corpo, la bocca, il seno, i glutei, la pelle, la lingua, gli ansimi e i gemiti di ogni relazione d’amore. Lei vi si getta a capofitto, spudorata e innocente al tempo stesso. E solo qui, in questa scena davvero esemplare, abbandona quello stato di sospensione che caratterizza il suo personaggio per tutto il film. Qui e nel sorriso con cui si sveglia il mattino dopo, quando assapora l’aroma del caffè bollente che lui le mette sotto il naso. Per tutto il resto del film Adriana è come distaccata. Emotivamente prosciugata. Simile, in questo, alle statue di cui il film è punteggiato. O ai cadaveri di cui lei si prende cura (è anatomo-patologa all’ospedale di Napoli).

La statue, i cadaveri: corpi inorganici, corpi senza vita. Tra loro, il corpo vivo di Adriana si aggira come compresso e sperduto, lasciando intuire le tempeste interiori che lo devastano solo attraverso un’accuratissima microfisica dei gesti (un battito di ciglia, un abbozzo di sorriso, uno smarrimento dello sguardo). Mentre altri attori del cast, a cominciare dai bravissimi Peppe Barra e Luisa Ranieri, conformano la loro recitazione all’esuberanza tipica del melò (o della napoletanità…), Giovanna Mezzogiorno – in sintonia con Alessandro Borghi, chiamato come lei a interpretare un doppio ruolo – oscilla tra freddezza e incandescenza, facendo proprio del suo volto e del suo corpo di attrice il luogo in cui queste due pulsioni contrastanti si incontrano e si neutralizzano. I primi piani di Adriana diventano così il luogo di massima ambiguità dell’intreccio, simili – in questo – alla scala a spirale su cui si apre il film, senza che si capisca se è inquadrata dal basso o dall’alto, e se sia occhio o utero o coscienza, ma simili anche alla maschera antica dietro cui si nascondono le due algide archeologhe interpretate da Lina Sastri e Isabella Ferrari, che proprio grazie alla maschera al contempo si celano e si rivelano. Perché proprio la maschera è il cuore del mistero che il film mette in scena. La maschera o le maschere. Perché tutti i personaggi ne hanno una. Tutti, anche i fantasmi partoriti dalla mente della protagonista. Ma nessuna ha la potenza di senso di quella che Giovanna Mezzogiorno fa indossare proprio ad Adriana: lei è l’unica che trasmette a noi spettatori lo stesso turbamento della statua settecentesca che appare nel finale, quella del Cristo velato nella cappella Sansevero di Napoli: una superficie di marmo in cui le passioni tanto più affiorano e si rivelano quanto più sono nascoste e trattenute.

Velate, per l’appunto: come se Ozpetek e la Mezzogiorno avessero applicato alla creazione del personaggio una loro personale, sensuale ed efficacissima estetica della velatura.

 
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