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Cento anni fa nasceva Pietro Germi, il regista che raccontò i difetti degli italiani da optimaitalia

Post n°11742 pubblicato il 22 Settembre 2014 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

I suoi drammi e commedie offrono un ritratto perfetto dell’Italia ipocrita del dopoguerra. Per molti anni è stato sottovalutato dalla critica, perché non era comunista. E qualche diffidenza resta ancora oggi.

Pietro Germi, nato a Genova il 14 settembre di cento anni fa, è stato uno dei maestri del cinema italiano. L’affermazione oggi è banale, ma non è sempre stato così. Per lungo tempo, nonostante il successo di pubblico, la critica lo ha bistrattato, ritenendolo al massimo un buon artigiano. E qualcosa dell’antica diffidenza deve restare se, in occasione dell’anniversario, non si segnalano iniziative di peso: il festival del cinema di Venezia, appena concluso, avrebbe potuto cogliere l’occasione e dedicargli un omaggio.

Germi non piaceva: non andava bene il suo carattere taciturno e scontroso – “un capitano degli alpini”, diceva Mastroianni –, che in un ambiente come quello del cinema, avvezzo a personaggi estroversi alla Fellini, gli alienò non poche simpatie. Insospettiva poi che, negli anni del neorealismo, il regista preferisse ispirarsi al cinema di genere hollywoodiano, mescolando le sue storie profondamente italiane con modelli narrativi americani. Il film d’esordio Il testimone (1946), storia di un ex galeotto ingiustamente incarcerato che decide di uccidere il testimone che lo aveva fatto imprigionare, è un noir. In nome della legge (1949), ritratto in anticipo sui tempi della mafia siciliana, ha le cadenze di un western – la sua analisi del fenomeno, va detto, non è priva di ambiguità. Il cammino della speranza (1950), viaggio in Italia di un gruppo di minatori siciliani che vogliono emigrare in Francia, è debitore di Furore di John Ford: per come ritrae i diseredati, con rispetto e adesione; e per una cura formale, a partire dalla fotografia satura come il fondo di una miniera, che ha poco da invidiare al cinema americano.

Dalle trame si capisce che l’interesse di Germi andava agli stessi umiliati e offesi al centro delle pellicole neorealiste. Il problema è che Germi non era comunista. Era dichiaratamente socialdemocratico, amico di Saragat, e questo lo rese inviso alla critica, in larga parte ideologicamente vicina al partito comunista e maldisposta verso un autore che rappresentava sì la dura vita dei lavoratori, ma senza individuare nella lotta di classe la chiave per il riscatto. Nei racconti di ambiente operaio, come Il ferroviere (1956) e L’uomo di paglia (1958) – nei quali interpretò anche i ruoli principali – Germi si concentrò sulla crisi personale degli uomini e sulla disgregazione della famiglia, senza dare troppo peso, come avrebbe preteso la critica, alla coscienza proletaria. Non sarebbe difficile raccogliere un florilegio dei giudizi sui suoi film: quando andava bene lo accusavano di essere “volgare” – la stessa critica che facevano a Billy Wilder che, guarda caso, dichiarò che Germi era il regista italiano a cui si sentiva più vicino. Nel 1959 girò Un maledetto imbroglio (1959), riduzione molto libera di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda: e volle giustamente recitare la parte del protagonista, il commissario Ingravallo, che molto gli somigliava per scontrosità e pessimismo. Non si era mai visto un poliziesco così in Italia: per il compiuto ritratto d’ambiente romano e per come delineava la vita di commissariato, con gente che mescola toni spicci a una comprensione umana che deriva dalla praticaccia del mondo.

 

Con il passaggio alla commedia mise a segno i suoi capolavori. Divorzio all’italiana (1961), grande successo internazionale, è il ritratto al vetriolo di una Sicilia incardinata su riti tribali immodificabili, un film di corrosiva lucidità antropologica. Mastroianni, l’indimenticabile barone Fefé Cefalù, come un raisonneur pirandelliano fa leva sulle leggi di quel mondo per sbarazzarsi della moglie, costruendole un amante su misura e potendola quindi uccidere ai sensi della norma sul codice d’onore. Il che significa minimo della pena e coronamento del sogno d’amore per Angela, una giovanissima Sandrelli. Il giudizio di Germi, accentuato sino al grottesco nel meno calibrato Sedotta e abbandonata (1964), riguarda tutto il paese, e sbaglierebbe chi volesse leggere nello sguardo del genovese Germi pregiudizi antimeridionali. Lo confermò il film con cui vinse la palma d’oro a Cannes, Signore e signori (1966), radiografia della mutazione in corso nel Nord-est: il ritratto corale di una città – una riconoscibile Treviso – in cui gli intrecci di corna sono gli stessi dai tempi di Boccaccio, ma aggiornati e incattiviti dall’onnipresenza del denaro, che ritma le esistenze dei protagonisti, tutti stimati professionisti. Sesso e soldi come motore del mondo: la stessa “volgare” ricetta dei film di Wilder, cui si aggiunge, poiché siamo in Italia, la religione. Da Signore e signori la chiesa esce malissimo: “La chiesa non dovrebbe mai mescolarsi con le autorità; e lì invece lo fa più che altrove, e ciò rientra sempre in quel quadro di ipocrisia che è uno dei temi del film”, scrisse il regista.

L’Italia del boom e del capitalismo spiazzò l’umanesimo populista di Germi, più a suo agio con sanguigni contadini e proletari che con questa borghesia fatua e consumista. Forse per questo nelle ultime pellicole faticò a trovare la giusta misura: come in Serafino (1968), grande successo ma di retroguardia, anche formale, che di fronte all’impazzimento sociale preferisce chiudersi in uno scenario agreste. Con il merito però di trovare il primo ruolo adatto alla vena anarchica e ruspante di Adriano Celentano.

Gli ultimi decenni hanno ristabilito l’esatta misura delle cose. È finito il linciaggio ideologico e la critica oggi parla di Germi con crescente rispetto, a partire dal documentatissimo volume di Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro GermiResta almeno un rammarico: che il regista non sia riuscito a girare il progettato Amici miei, per la malattia a cui si sarebbe arreso a soli sessant’anni. Lo realizzò l’amico Mario Monicelli, che nei titoli di testa volle mettere, ed è più di un semplice omaggio, “un film di Pietro Germi”. Monicelli ne trasse un film bellissimo, funebre e ilare: ma chissà che cosa sarebbe stato capace di fare Germi.

 
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