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La luna su Torino

Post n°12785 pubblicato il 28 Novembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina La luna su Torino

A Torino, città che ci viene ricordato essere sul 45° parallelo, ovvero equidistante dal Polo Nord e l'Equatore, un universitario che lavora al bioparco e l'impiegata di un'agenzia di viaggi dalla vita sentimentale incerta, abitano nella grande casa di un amico 40enne che non ha lavorato un giorno in vita sua e campa di rendita. Insoddisfatti da ciò che hanno ma anche incapaci di immaginare una vita diversa i tre cercano di barcamenarsi.
C'è un'innegabile eco di Dopo mezzanotte in La Luna su Torino, in cui di nuovo le coordinate geografiche (stavolta non la Mole ma la linea del 45° parallelo), il cinema muto e i sogni di un domani sentimentale e umano migliore di tre giovani sono gli elementi che, mescolati anarchicamente, danno vita a un film che cerca di tradurre nella modernità il cinema in cui la trama è funzionale ai personaggi e non viceversa. Quel che ha di originale la nuova opera di Davide Ferrario è invece la scelta di separare i tre personaggi, coinvolgendoli in storie diverse ma contigue, in cui manifestare tre facce diverse di un'inspiegabile insoddisfazione e una sempre più urgente esigenza di cambiamento. 
Ma è con pochissima ispirazione che il regista di Torino gioca su terreni a lui congeniali (di nuovo la propria città, di nuovo temi di uno dei suoi film più noti), aspirando a raccontare l'inesprimibile, il sublime scrutare in quella parte dell'animo che il cervello non riesce a leggere chiaramente e che il cinema ambisce a comunicare senza passare per la logica. Il mondo di La Luna su Torino è luddista, altero, lontanissimo dalla realtà ma nemmeno così significativo da riuscire a parlarne per metafora (il riferimento molto sbandierato dell'equidistanza tra Polo Nord e Equatore in primis è un accostamento dal senso quasi nullo). Una dimensione, quella in cui si muovono i personaggi, non diversa dal casale ricco e in rovina in cui abitano, isolato e gestito con implausibile allegra opulenza che non necessita di lavoro.
Qualunque altra storia di scollamento dalla realtà, di ansia per il mancato raggiungimento di aspirazioni cui non si sa dare un nome sarebbe risultata più accettabile delle tirate passatiste con cui Ferrario condisce il film. Citazioni letterarie di spessore, dimostrazioni intellettuali, disprezzo manifesto per ciò che è lontano dal raffinato e un abuso continuo di tutte le armi stereotipiche della cultura cinefila, ridotta ai suoi elementi più di nicchia, alteri e snob (dal cinema muto alla francofonia) sono la coperta di un film che sotto nasconde pochissimo e pare essere fatto per conquistare solo con la sua superficie colorata, fatta di inquadrature sghembe, dipinta per rappresentare le aspirazioni del proprio pubblico d'elezione, tenendo a distanza ogni possibile ingerenza della cultura più dinamica e moderna ben simboleggiata dagli anime giapponesi che Ferrario chiama manga e fa identificare a personaggi che dicono d'amarli unicamente con il sonoro gaudente dell'animazione erotica.

 
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