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quello che vedrete in bianconeri da tuttojuve

Post n°13443 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

SOTTOBOSCO - Tutto quello che vedrete e non vedrete nel film "Bianconeri. Juventus Story". Calciopoli e la faccia di Elkann: non è finita. Ecco da chi doveva difendersi Moggi. Tavecchio può riaprire processo. Il sigillo di Allegra Agnelli

Andrea Bosco ha lavorato al “Guerin Sportivo“, alla “Gazzetta dello Sport“, al “Corriere d'Informazione”, ai Periodici Rizzoli, al “Giornale“, alla Rai e al Corriere della Sera.
10.10.2016 00:55 di Andrea Bosco  articolo letto 24893 volte
 SOTTOBOSCO - Tutto quello che vedrete e non vedrete nel film "Bianconeri. Juventus Story". Calciopoli e la faccia di Elkann: non è finita. Ecco da chi doveva difendersi Moggi. Tavecchio può riaprire processo. Il sigillo di Allegra Agnelli

L'incipit sullo schermo nero, più che una informazione, è una dichiarazione di guerra. La Juventus ha 300 milioni di tifosi nel mondo. !3 milioni in Italia. Con una società del genere, tutti devono fare i conti. Inevitabilmente.

Una scritta bianca su un fondale nero. 

 Un altro schermo nero e altre scritte, alla fine, immediatamente prima dei titoli di coda, concluderanno con orgoglio e una punta di ironia, una vicenda leggendaria. Quella di una società calcistica indissolubilmente legata ad una famiglia: gli Agnelli . 

Tredici milioni: un abitante su sei, in Italia, tifa per la Signora degli scudetti.

Trentadue per la pelosa contabilità della Federazione Italiana Gioco Calcio. Trentaquattro, stampati a caratteri cubitali all'ingresso dello Juventus Stadium, vinti sul campo. Rivendicati da quanti quegli scudetti conquistarono. Intangibili per la dirigenza e per la tifoseria. Concessi dagli avversari. Con una sola eccezione: l'Inter. La tenutaria dello “scudetto di cartone" .

 

DA BRADY A PIRLO

 

Comincia così il bellissimo film di  Marco e Mauro La Villa “Bianconeri: Juventus Story". Un lavoro a più mani. La “famiglia" (Lapo e Ginevra Elkann), la collaborazione di Ennio Moricone, le interviste ( Buffon, Mauro, Vialli, Vidal, Del Piero, Pirlo, Chiellini, Bonucci, Nedved, Andrea Agnelli e John Elkann). La voce fuori campo è quella di Giancarlo Giannini. Un “narratore” che emoziona. Che seguendo la trama che gli è stata consegnata, ci mette la sua arte: la sua capacità di recitare. Nelle pause, nel tono, nelle sospensioni che sottintendono molto di più di quanto le parole non dicano.

Due parole guida: Famiglia e Casa. La famiglia è quella degli Agnelli che dal 1923 è proprietaria della Juventus. Casa significa la villa avita di Villar Perosa. E significa Stadium:  la nuova dimora della Fidanzata d'Italia.

La scelta dei due registi, che vivono negli Stati Uniti è precisa:  si parte dal 1981 per arrivare al 2012. Dalla rete di Brady a Catanzaro che vale lo scudetto, fino allo scudetto numero 30, conquistato, con Conte in panchina, a Trieste .

Liam Brady quando colloca la palla sul dischetto a Catanzaro sa già che nella stagione successiva verrà rimpiazzato da Michel Platini. Liam Brady non è uno qualunque. In Italia il suo grande valore non è stato probabilmente del tutto percepito. Neppure dagli juventini. Ho avuto la fortuna di pranzare anni fa a Mantova al Festival della Letteratura, con Nick Horby, il romanziere inglese “malato“ di Arsenal. Uno uomo intelligente e spassoso con una grande passione per il calcio. Gli chiesi, quale a suo parere fosse il più grande giocatore del mondo. Pensavo mi avrebbe risposto che era Pelè, o Maradona, o Platini. Senza un secondo di esitazione, Horby mi disse: “Liam Brady : un genio del pallone, un giocatore dalle intuizioni e dalle giocate scientifiche".

Confesso che rimasi senza parole. Ma nel tempo mi sono rivisto alcuni match di Brady, nella Juventus e nell'Arsenal. Aveva ragione Nick: dare la palla a Liam Brady era metterla in banca. La “teneva” e la faceva “fruttare”. Gran giocatore, grande professionista, grande uomo.

La storia dei fratelli la Villa comincia da lì. Un poco, seguendo il film ci rimani male. Perché la Juventus del quinquennio anni Trenta è citata di sfuggita. Quella degli anni Cinquanta di Boniperti e John Hansen la intuisci. Quella di Umberto Agnelli con Sivori e Charles è ridotta a due fermo immagine. E quella coraggiosa e tenace di Heriberto Herrera, quella soffiò lo scudetto sul filo di lana all'Inter mondiale di Helenio Herrera:  beh di quella indimenticabile squadra operaia, proprio non c'è traccia.

Si parte da Brady che viene congedato e da Michel Platini che ancora non è Le Roi, ma che ha fatto invaghire l'Avvocato, per quei piedi divini che sanno far gol, che aprono il campo anche da quaranta metri, per quell'attitudine del francese di origini piemontesi ad esserci quando serve.

 

GIANNI AGNELLI: L'ULTIMO PRINCIPE

 

Si parte da Michel Platini e dal protagonista dominante di questa storia: Gianni Agnelli che tutti chiamano l'Avvocato. E' un uomo speciale, dal fascino, dal carisma speciali. L'ultimo principe d'Italia. A lungo vero ministro degli esteri italiano nel mondo. L'uomo che siede - rispettato ed ascoltato - al tavolo dei Kennedy e di Henry Kissinger. L'uomo che frequenta le donne più affascinanti del pianeta ma sulle quali non ha mai detto una sillaba. L'uomo che ha imparato il mestiere da Vittorio Valletta e che ha la responsabilità di guidare la Fiat, l'azienda più importante del Paese. E contemporaneamente anche  la società calcistica  più amata e più detestata d' Italia: la  Juventus .

Spiega efficacemente Lapo Elkann in un insert del film: “La Juventus è amata ed odiata come i Lakers o gli Yankees“ .

Gianni Agnelli, la famiglia, la Fiat, la Juventus: storie indissolubili. Legate. Storie di grandi successi sportivi. E insieme di grandi dolori. Storie di gioie e di tragedie. Gli scudetti, le coppe, i giocatori forniti alla Nazionale. E i lutti: Edoardo il patriarca fondatore, morto in un incidente aereo. Le vittime dell'Heysel, la malattia devastante di Giovannino, l'erede designato, il suicidio di Edoardo, figlio di Gianni. La scomparsa prima di Gianni e poi di Umberto, il tornado Calciopoli.

Si chiese un giorno l'Avvocato. “Sono curioso di vedere se arriveremo prima noi a trenta scudetti o gli altri a venti“. Terza stella: ci hanno pensato gli eredi, Andrea Agnelli e John Elkan a soddisfare la curiosità di quel grande tifoso che un giorno confessò “di emozionarsi, ogni volta, leggendo una parola che cominciasse con la J" .

 

TRENTA E PIU' SCUDETTI

 

Trenta e più scudetti: per come stanno messe le cose, la curiosità dell'Avvocato andrebbe aggiornata. Prima la Juventus a quaranta (4 stelle) o gli altri a venti?

Già, gli “altri“. Che  il film dei  La Villa riduce a due:  Milan (Berlusconi) e Inter (Massimo Moratti). Non c'è traccia né della Roma, né del Napoli. Ma c'è traccia della Lazio, il cui ultimo scudetto coincise anche con la più grottesca delle gare mai disputate in Italia. Un Perugia – Juventus, sospesa per diluvio dopo il primo tempo per 71 minuti. E ripresa con modalità da pallanuoto sotto la direzione di Pierluigi Collina. Una sconfitta che ancora fa discutere.

Già, la Lazio. Responsabile anche di quella atroce beffa, all'ultima di campionato, ai danni dell'Inter.  Un 4-2 che consegnò lo scudetto alla Juventus contemporaneamente vittoriosa ad Udine. Era un 5 di maggio. “Ei fu" recitano i versi del poeta. Morte sportiva. Spiega Nedved chiamato a raccontare quella domenica: “Avevamo rapidamente vinto la nostra gara ad Udine. Ma in classifica l'Inter ci sopravanzava. Dalle radioline non si capiva alla fine cosa stesse succedendo. Mi dissero chi aveva segnato. E io chiesi: Poborsky? Gioca con me in nazionale e non segna mai. Non ci posso credere che ne ha fatti due“ .

 

BERLUSCONI E MORATTI

 

Già, Poborsky: quelle due clamorose reti, una alla Garrincha, in una difesa interista molle come il burro, non gli evitarono a fine stagione la cessione. Chissà mai perché. O forse, probabilmente  per un perché.

La disamina del film è corretta. Berlusconi: denaro (tanto) , campioni e idee innovative. L'Avvocato aveva capito che quell'imprenditore lombardo avrebbe cambiato il mondo del calcio. Ma  la grande differenza tra produrre automobili e fare l'editore televisivo con il supporto di immensi proventi pubblicitari è che (se contemporaneamente possiedi anche una società di calcio) prima viene la catena di montaggio e poi l'asso del pallone. Ci fu una stagione nella quale la Juve fece il “mercato” acquistando i modesti Traspedini e Volpi: con gli operai della Fiat  in cassa integrazione, investire nel calcio sarebbe stata cosa (per il Paese) inaccettabile.

“Noi non facciamo come Berlusconi – dice l'Avvocato , nel film – non spendiamo tanto. Piuttosto diamo fiducia ai giovani".

Il Cavaliere spendeva e spandeva. Voleva il tetto del mondo e l'ottenne: arando in Italia, in Europa e nel mondo, ogni terreno altrui.

Poi arrivò Massimo Moratti, figlio di Angelo, l'uomo che aveva costruito la famosa Inter che anche i non interisti snocciolavano a memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti ecc.“.  Moratti junior: un petroliere che ha la medesima disponibilità economica di Berlusconi, qualcuno sostiene, persino maggiore. Moratti tritura giocatori e allenatori come un macinino tritura la carne per le polpette. Spende moltissimo, Moratti: compra i migliori, una stagione “il migliore“ dell'epoca. Ronaldo il Fenomeno. Spende ma non vince. Comincia ad avere cattivi pensieri. E qualche giornale comincia  a pensarla come lui.

La Famiglia da tempo ha messo la Juventus nella mani di due manager: Antonio Giraudo (amministratore delegato) e Luciano Moggi (direttore generale). Li affianca una bandiera della Juventus: Roberto Bettega. La triade si autofinanzia: ha idee, potere, arroganza. Moggi, soprattutto è il mago del mercato che controlla giocatori, allenatori e ha confidenza con i designatori.

Dice nel film John Elkann: “Moggi si era montato la testa: quando si vince bisogna restare calmi. Quando si perde non ci si deve disperare".

 

IL POTERE DI MOGGI

 

Luciano Moggi gode in quel periodo di un grande potere. Più che averlo, il mondo del calcio reputa ce l'abbia. E lui fa di tutto per dare corpo a questa convinzione metropolitana.  L'uomo è simpatico, ma duro. Il mestiere lo ha imparato da Italo Allodi, direttore generale prima nell'Inter di Angelo Moratti e poi nella Juventus di Boniperti e infine a Napoli con Ferlaino. A Napoli, quello di Maradona, c'è anche lui : quello che tutta Italia chiama Lucianone.

Luciano Moggi è uno che “sa come si fa“ . E visto che ha cominciato a guadagnarsi il pane facendo il casellante in un piccolo scalo ferroviario,  sa come conservarselo, il pane.

Moggi è abile, furbo, spietato in un mondo dove abbondano i lupi. C'è una cosa che il film omette: dopo Calciopoli, dopo che nel 2006 la Juventus ha pagato per tutti, quando,nel 2010 si scopre (il film fa sentire le telefonate di Bergamo con Moratti e Facchetti)  che tutti parlavano con il designatore, Moggi (radiato dalla giustizia sportiva, condannato in tre gradi di giudizio per associazione per delinquere, reato prescritto) rivela che lui “quelle cose“ (le telefonate ai designatori n.d.r) ha dovuto farle per difendersi".

Parlare con i designatori, allora, non era vietato: tutti lo facevano.

E dunque da cosa doveva difendersi Moggi? Il film non ne fa menzione. Lo ipotizzo io. Da un arbitro (Pierluigi Collina, quello della pallanuoto di Perugia) che all'una di notte incontrava nel parcheggio della trattoria dell'addetto agli arbitri del Milan,  dentro ad un'auto, il deus ex machina rossonero, Adriano Galliani. Immagino non per parlare di olio e salumi. Si doveva difendere, Moggi, da chi  (Inter) tesserava giocatori (Recoba) con passaporti falsi, li faceva giocare, ma per il reato non subiva sanzioni dalla giustizia sportiva. Da chi presentava fidejussioni false (Roma) ma non subiva sanzioni, sempre dall'ineffabile giustizia sportiva. Da chi si iscriveva al campionato fuori tempo massimo (Roma) ma egualmente veniva fatto partecipare. Da chi mandava a Natale agli arbitri e agli assistenti (Roma) Rolex d'oro ma egualmente veniva perdonato dalla giustizia  sportiva. Da chi (Genoa) veniva beccato con una valigia di dobloni per truccare una partita, ma (incredibilmente?) non veniva radiato. Da chi presenziava con i propri ultras (Lazio) in rivolta (con sassi, biglie, spranghe, molotv e razzi)  davanti alla Federazione ed egualmente dalla giustizia sportiva non veniva punito. Mi fermo qui: ci vorrebbe la guida telefonica.

I comportamenti di Moggi punibili al massimo - data l'impossibilità di leggere  rapidamente la montagna  di carte processuali  (lo afferma Giannini nel racconto del film ) con qualche punto di penalizzazione e con una sanzione pecuniaria - fanno viceversa precipitare la Juventus in serie B con penalizzazione.

Quel processo dura solo due  settimane senza possibilità di difesa alcuna. La giustizia sportiva non lo prevede. Non siamo nell'Urss di Stalin, siamo in Italia. Ma così vanno le cose per quanto attiene alla giustizia sportiva: il procuratore espone, accusa, chiede le pene. E l'accusato non può difendersi. La sua difesa è irrilevante. Il tribunale sportivo giudica e raramente disattende le richieste del procuratore. Per la cronaca, in quel processo, uno dei componenti il collegio giudicante (Sandulli) affermerà, successivamente: “Giudicammo sull'onda del sentire popolare" .

 

PALAZZI: PERCHE'?

 

Il film di questo non fa menzione. Al pari dell'immonda canea montata dai giornali, una idrovora nella quale finì persino l'accorato appello di un monsignore  a Moggi, in favore di due cittadine  moldave che cercavano lavoro come  donne delle pulizie.

Senza il livore di troppi media ascari di questa o quella società sportiva, Calciopoli avrebbe avuto un altro indirizzo. Senza i media amici dell'Inter, il tribunale ( penale)  di Napoli non avrebbe potuto costruire un castello di teoremi. Non avrebbe potuto permettere al capo investigatore Auricchio, capitano dei Carabinieri, di trincerarsi dietro a tanti “non ricordo“ quando gli fu chiesto conto di come le intercettazioni telefoniche fossero state selezionate. Del perché ce ne fossero 40 di Moggi e non ci fossero quelle relative all'Inter, pur segnalate come rilevanti dai suoi aiutanti con tanto di baffi rossi. Senza la connivenza dei media che misero il silenziatore alla notizia, le telefonate incriminanti dell'Inter (che avrebbero potuto portare  alla retrocessione della società milanese), avrebbero avuto ben altro risalto. Senza l'affetto dei mille comici interisti, quelli che raccontavano che “perdere è bello“, i media nazionali avrebbero chiesto la testa del procuratore Stefano Palazzi. Il procuratore che incredibilmente presentò una relazione che ipotizzava per l'Inter la violazione dell'articolo uno del regolamento sportivo, punibile con la retrocessione. Si fosse trattato di un'altra società, (una che non avesse ricevuto scudetti a tavolino da un commissario straordinario ex  consigliere di amministrazione dell'Inter, una che non si autodefinisse “onesta”)  giornali e troupe televisive si sarebbero accampati per un mese fuori dalla casa di Palazzi per chiedergli conto di quel documento presentato un paio di giorni dopo che il reato era caduto in prescrizione. Media degni di questo nome avrebbero chiesto a Palazzi  conto dei suoi incomprensibili ritardi nelle indagini. Relativamente al dossier sul quale  il suo predecessore, Saverio Borrelli, ex Capo del pool “Mani Pulite“ lo aveva pubblicamente invitato “a continuare ad indagare e ad andare a fondo".

Argomenti che il film tocca di striscio. Ma che Calciopoli sia una ferita ancora aperta lo dimostrano le parole di John Elkann: “Ero molto giovane all'epoca e non riuscivo a valutare a pieno la situazione. Fu una enorme guerra contro la Juventus: soffrimmo le pene dell'inferno".

La faccia di Elkann nel film non è la faccia di uno che che considera chiusa la vicenda. Carlo Tavecchio si faccia proiettare in sala riservata la pellicola: Tar o non Tar trarrà dalla visione del film, elementi istruttivi.

Perché, a Torino hanno la memoria lunga. Ricordano chi è restato nel momento più terribile della storia della società (Buffon, Del Piero, Nedved,  Chiellini, Trezeguet ) e chi invece se ne andò nottetempo: da Ibra ,a Cannavaro, a Zambrotta. Alcuni pur avendo (Capello) ancora un anno di contratto.

Hanno la memoria lunga a Torino. Rammentano chi aveva predetto che la Juventus dopo Calciopoli non avrebbe mai più vinto.  Rammentano gli errori societari e i settimi posti. Fino al Rinascimento: la Juventus che da società familiare e padronale, diventa una vera società per azioni. Una azienda che sa produrre trofei assieme ad utili finanziari. Una mosca bianca in un mondo dove è normale chiudere i bilanci con il segno meno. E dove - senza sanzioni - è possibile continuare a partecipare senza pagare a fine mese gli stipendi ai giocatori .

E' in questo modo che arriva  (grazie al  lavoro di Agnelli, Marotta, Paratici, Nedved e alle decine di persone sconosciute al grande pubblico che quotidianamente lavorano per la Juventius), grazie ad un programma e a un progetto lo scudetto della terza stella: quello di Trieste.

Grazie a questi uomini e alla disponibilità dell'azionista di maggioranza Elkann, la Juventus sta diventando un colosso di dimensioni mondiali. Quanto a organizzazione, risorse, fatturato, qualità.

Questa Juventus ha eguagliato con un quinquennio di scudetti quella mitica degli anni Trenta. Ma visto che anche nel film , Giampiero Boniperti, dalla panchina degli studenti fondatori rammenta che “vincere non è importante, ma che alla Juventus è l'unica cosa che conta" ha messo le basi per diventare la migliore. Non solo in Italia. Con idee, conti in ordine, impianti ed iniziative di altissima qualità, staff selezionatissimo, giocatori di assoluta affidabilità, un vivaio che è in crescita.

Oltre al film visibile il 10-11-12 ottobre nelle sale italiane, presto i tifosi avranno a disposizione anche un libro sulla  leggenda della Vecchia Signora.

 

TAVECCHIO BATTA UN COLPO

 

Mentre chiudo queste note, Madama ha allungato in classifica sul Napoli. Io lo so cosa frulla nella testa di quelli di Torino. Li conosco. Credo lo sappia anche Tavecchio. Rivogliono gli scudetti.

La loro bulimia rappresenta un manifesto: vincere sempre per costringere la Federazione a riaprire il processo sportivo. Tantissimi anni fa Alfredo Binda fu pagato per non partecipare al Giro d'Italia. Carlo Tavecchio non ha le risorse per indurre la Juventus a non partecipare al campionato. E quand'anche le avesse, la Juventus rifiuterebbe. Ma ha la possibilità, Tavecchio, di riaprire il processo sportivo, agendo finalmente con equanimità. Rendendo giustizia a chi fu a suo tempo condannato con pene esorbitanti, rispetto al reato commesso.

Si faccia Tavecchio, una domanda: c'è il pericolo di una dittatura bianconera?

Si dia una onesta risposta. E poi si chieda: vale la pena essere tanto “sordi”  per un cartone ?

Il peso di Tavecchio nel Consiglio Federale va oltre la sua carica di presidente . 

Si faccia proiettare il film, Tavecchio.  E legga cosa propone prima dei titoli di coda. Sul  fondo nero scorrono tre blocchi di parole in bianco..

Il primo: Berlusconi sta cedendo il Milan ad investitori cinesi

Il secondo: Moratti ha ceduto l'Inter ad investitori indonesiani e cinesi

Il terzo: La famiglia Agnelli è sempre proprietaria della Juventus e continua a guidarla.

 

ALLEGRA: LA SIGNORA

 

Tutto all'americana, con grandi documenti, grandi fotografie, grandi interviste (la maggior parte in inglese), grandi momenti di calcio. Il titolo bellissimo di un giornale dopo il suicidio di Edoardo, “E' morto un uomo buono". E un pre-finale che a me è parso anche il sigillo della storia: la signora Allegra (mamma di Andrea) che onora il suo nome, regale nella sua matura bellezza, jeans e maglietta, che balla e canta allo Stadium insieme ad una nipotina l'inno della Juventus.

Chi conosce il peso di Allegra Agnelli nella famiglia sa che nessuno più di lei incarna i tratti della Signora.

“Storia di un grande amore"  recita il titolo dell'inno della Juve. E per amore si è disposti a fare qualsiasi cosa.

 
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