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Messaggi di Gennaio 2016

 

I pinguini di Madagascar

Post n°12943 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina I pinguini di Madagascar

Ci sono pinguini che si accontentano di un'esistenza da carini e coccolosi e ci sono pinguini che, al contrario, hanno fatto dell'avventura mozzafiato il loro pesce quotidiano. Come Skipper, Kowalski, Rico e Soldato. E poco importa se Soldato è davvero carino e coccoloso: il suo desiderio più grande è proprio quello di liberarsi di questa etichetta e poter dimostrare a Skipper di essere un membro a tutti gli effetti della squadra, meritevole e coraggioso. L'occasione gli verrà fornita dalla missione contro il malvagio Octavius Tentacoli, un ex polpo invidioso (ora umanoide geneticamente modificato) che minaccia di trasformare tutti i pinguini della terra in mostri. 
Se avete pensato anche solo per un attimo che i tanti "Madagascar" erano sufficienti e che non c'era dunque bisogno di uno spin-off dedicato ai pinguini della serie, basteranno pochissimi minuti di questo film per farvi ricredere del tutto, nonostante, magari, siate persino già passati attraverso la serie televisiva.
Sì, perché Skipper, Kowalski, Rico e Soldato sono davvero un'unità di élite, come amano presentarsi, e non solo quando si tratta di salvare il mondo, ma anche e soprattutto quando si tratta di far funzionare una commedia. Non c'è una sola tipologia di umorismo che sfugga loro, dalla presa in giro metacinematografica (dei documentaristi in Antartide, per esempio, pronti a tutto per movimentare il loro girato) allo slapstick, che percorre tutta la lunghezza del film, all'umorismo più surreale, che è la loro vera arma segreta. Pronti a tutto per salvare la Terra, persino a rinunciare al corso di teatro già prenotato, i magnifici quattro non falliranno l'obiettivo, nonostante l'ora dedicata ai rimbalzi sui gonfiabili proprio quando tutto sembrava ormai perduto. 
Virtuosi della strategia dell'ultimo minuto e persino dell'azione in assenza di qualsivoglia strategia, i pinguini di Madagascar hanno gioco facile nel superare di gran lunga in simpatia i loro sodali in quest'avventura, ovvero la task force segreta Vento del Nord. L'agente Classified (un husky pieno di sé) e i suoi compagni, infatti, sono soliti alle entrate in scena con effetti speciali e allo sfoggio di alta tecnologia, ma si tratta molto spesso di puro fumo negli occhi. I nostri, invece, regalano allo spettatore effetti speciali molto più pirotecnici, anche se spesso prodotti involontariamente. In questo senso, non possiamo che rallegrarci, infine, per la comparsata fuori tempo massimo di re Julien, sovrano indiscusso del nonsense e campione di scervellato ottimismo.

 
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Under the skin

Post n°12942 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina Under the Skin

Il corpo di una donna viene recuperato da un misterioso motociclista fuori strada e trascinato su un camion, dove un'aliena, con le medesime sembianze della malcapitata, ne indossa letteralmente le vesti. L'aliena intraprende quindi un viaggio attraverso la Scozia, sfruttando il proprio fisico seducente per adescare uomini soli e non restituirli mai più alle loro vite. 
Glazer va dritto al centro del romanzo di Michel Faber, rinunciando ad ogni conoscenza o informazione preparatoria per occuparsi solo e soltanto del viaggio della protagonista e costruire così un on the road visionario, teso ad immaginare barlumi di altre dimensioni ma anche e soprattutto a guardare il nostro mondo con un occhio altro. 
Tre versioni del copione e un periodo di fermo potevano insospettire e ora appare evidente che l'incertezza era e resta legittima. Spogliato del contesto fantascientifico e ridotto quasi al silenzio, il film non guadagna a sufficienza in atmosfera da compensare le perdite in materia di psicologia e possibilità di identificarsi con il personaggio. Quest'ultima, poi, è una scomparsa non da poco, perché è proprio sull'ambiguità del discorso identitario che si gioca la partita: chi sia la vittima e chi il carnefice, è la domanda più che esplicita che il regista gira allo spettatore. 
Tornano, dunque, le sovrapposizioni e i doppi ingannatori di Birth, ma sparisce completamente il sentimento che ci avvicinava e turbava in quell'occasione. Là, infatti, dove Nicole Kidman ci straziava silenziosamente nel suo esser pronta ad apparire un'aliena e ad affrontare la solitudine pur di credere all'amore, con un ribaltamento narrativo che trascina però con sé anche un senso più profondo, Scarlett Johansson è qui inizialmente insensibile al dolore così come al piacere per poi sperimentare l'emergenza di una sorta di curiosità, di desiderio di un contatto, di saggiare un gusto, che la conduce rapidamente (e ideologicamente) alla rovina. 
Il confronto insistito sullo spazio visionario ed estetizzante ma in verità crudele e annientatore proprio della dimensione aliena e quello più aspro, squallido e violento delle Highlands e, per estensione, dell'umanità (abitato però dalla comicità televisiva e riscaldato qualche volta dal rifugio domestico) è tutto quello che Glazer decide di dire e mostrare, ma la sensazione è che sia un discorso povero e riduttivo, che ci lascia insensibili e alieni al destino della protagonista.

 
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Miss Violence

Post n°12941 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Miss Violence

Nella famiglia di Angeliki tutto sembra andare per il verso migliore se non fosse che la bambina, il giorno del suo 11esimo compleanno, a sorpresa si suicida buttandosi dalla finestra. Lo smarrimento che segue è inusualmente cauto, l'annuncio di una serie di altre stranezze che lentamente riveleranno l'inferno familiare vissuto dalla bambina e che ora vivono gli altri membri della famiglia. Il massimo della pulizia del perbenismo borghese che il patriarca mantiene infatti è solo una patina.
Appartenente alla scuola di Michael Haneke, Alexandros Avranas mette il pubblico nei panni degli anelli più deboli del suo film e li vessa dall'inizio alla fine, ne tortura e umilia spirito e animo molto prima della carne (di violenza vera in Miss violence ce n'è pochissima), ma a differenza del regista austriaco sembra non avere una motivazione per tanta distanza e freddezza dai suoi protagonisti.
L'intuizione migliore del film così pare essere quella per la quale lungo tutto il corso della pellicola si fatica a comprendere i ruoli della famiglia. Le parentele sono svelate lentamente e con un continuo ribaltamento di senso, mostrando con i fatti e non con le parole lo smarrimento umano di quel nucleo e aumentando, di scoperta in scoperta, la sensazione di disumana oppressione. 
È il punto in cui culmina tutto questo lento costruire a deludere allora. La chiusa di una storia che sembra non avere speranze sceglie una via peculiare, asseconda il titolo, non concilia nè terrorizza davvero ma riesce solo a rendere ancor più fastidiosi e insulsi i personaggi, la cui mancanza di dignità non è mai affrontata, spiegata o solo comunicata. Così, quando è finita, la parabola di Miss Violence e tutta la distanza che il regista prende dai personaggi nel metterli in scena, generano una profonda disaffezione e pochissima partecipazione anche ai drammi più ingiusti che senza empatia risultano artificiosi.
Vista la situazione economica della Grecia non è difficile trovare paragoni, metafore o possibili allegorie con la storia del film, tuttavia l'impressione è che tale aderenze esistano più negli occhi di chi vuole vederle che nel film in sè.

 
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The remaining

Post n°12940 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Per i giovani, belli e innamorati Skilar e Dan il giorno del matrimonio non potrebbe essere più tragicamente memorabile: un disastroso terremoto preannuncia la caduta dal cielo degli angeli dell’Apocalisse, la morte o meglio il trapasso nell’aldilà dei buoni e credenti, e l’inizio di un incubo terrificante per i superstiti, coloro che nella loro vita non hanno creduto o hanno compiuto del male.

 

Prodotto di fantascienza che rientra nell’ormai consolidato sottogenere horror del mockumentary, con l’ambiziosa commistione di catastrofico e teologico.

La fine del mondo, la fede, l’amore, l’amicizia si intrecciano in un susseguirsi di situazioni ansiogene che funzionano nel loro essere presentate senza troppo mostrare all’occhio dello spettatore, secondo una serie di inquadrature sfuggenti, accompagnate da discreti effetti digitali e con scene di panico e fuga di massa, tuttavia è proprio la sottotraccia filosofica di stampo biblico e quel forzato ribadire dell'esistenza di un incerto libero arbitrio a non esercitare un vero mordente, così come i protagonisti e le loro relazioni e reazioni non riescono a prendere allo stomaco lo spettatore, relegando presto nel dimenticatoio la visione.

 
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I nostri ragazzi

Post n°12939 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 


Due fratelli dai caratteri opposti (uno chirurgo pediatrico e l'altro avvocato) si incontrano a cena ogni mese in un ristorante stellato con le reciproche mogli che si detestano senza nasconderlo troppo. Il pediatra ha un figlio, Michele, e l'avvocato una figlia, Benedetta, nata da un precedente matrimonio. I due adolescenti si frequentano spesso. Una notte una telecamera di sicurezza riprende (senza che se ne possa ricostruire l'identità) l'aggressione a calci e pugni da parte di un ragazzo e di una ragazza nei confronti di una mendicante che finisce inizialmente in coma. Le immagini vengono messe in onda da "Chi l'ha visto?" e in breve tempo le due coppie acquisiscono la certezza che gli autori dell'atto delittuoso sono i reciproci figli. Che fare?
Ivano De Matteo con La bella gente e Gli equilibristi aveva raccontato l'irrompere di un elemento che veniva da fuori in un nucleo familiare apparentemente ben assestato. Ora invece la sfida si fa ancora più complessa. Cosa accade se invece ciò che sconvolge assetti ormai consolidati irrompe dall'interno? La sequenza che apre il film appartiene all'ordinaria follia quotidiana che trova spazio nella cronaca o nei Tg specializzati in disgrazie, finendo col collocarsi non solo come elemento che attraversa il film (il chirurgo si occupa di una delle vittime) ma soprattutto come occasione di riflessione sullo scatenarsi di una violenza incontrollata mirante a risolvere in tempi brevi qualsiasi questione e a rimuovere letteralmente dalla faccia della Terra ciò che rischia di rappresentare un pericolo. 
Lo spettatore viene però posto in una condizione di estraneità al fatto che gli viene consentito di giudicare nella sua dinamica assegnando torti e ragioni. È quanto accade dopo che invece l'accaduto costringe ognuno a porsi la domanda: io come mi comporterei? La totale amoralità dei due ragazzi ci può spaventare spingendoci quasi a rifiutarne le modalità di espressione. De Matteo ci chiede piuttosto di guardarla in faccia senza nascondere la testa sotto la sabbia. Perché è su questo piano che ai genitori viene chiesto di intervenire, senza prediche inutili ma anche senza cedimenti. A questo si intreccia l'ulteriore e fondamentale domanda: il degrado morale, l'assenza di punti fermi va imputata a una gioventù ormai lasciata in balia dei social network o ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere al maglio della realtà? I genitori di Michele e Benedetta non sono 'cattive persone', non possono neppure imputare alla società (visto il loro status) un degrado sociale a cui attribuire le proprie opzioni. 
Dentro di loro alberga però (e ha messo radici) la convinzione di poter aggirare ogni ostacolo azzittendo qualsiasi sussulto di coscienza. Forse non in tutti e forse non nello stesso modo. De Matteo ci accompagna nell'osservazione delle loro reazioni suggerendoci pre-giudizi con i quali confrontarci.

 
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Umbroken

Post n°12938 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina Unbroken

Louis Zamperini è un campione di mezzofondo americano. Figlio di italiani immigrati e corridore olimpico alle Olimpiadi di Berlino del 1936, quattro anni dopo Zamperini viene reclutato nell'Aviazione come bombardiere. Nel 1942, durante una missione di recupero sull'Oceano Pacifico, il suo B-24 precipita rovinosamente, dimezzando il suo equipaggio. Sopravvissuto insieme a due commilitoni, Zamperini resiste in mare per quarantasette giorni, cibandosi di pesce crudo e schivando i colpi delle mitragliatrici aeree giapponesi. Recuperato dalla marina nemica viene condotto in un campo di prigionia, dove diventa presto ostaggio del sadismo di Watanabe, un sergente perverso col vizio del bastone e dell'umiliazione. Dovranno passare ancora due lunghi anni prima che Zamperini riacquisti la libertà, tornando in Patria e dai suoi cari.
Sulla carta, Unbroken prometteva davvero bene: la sceneggiatura di Joel e Ethan Coen, la fotografia di Roger Deakins (Fargo,Fratello, dove sei?Non è un paese per vecchi), la musica immediatamente riconoscibile di Alexandre Desplat, la storia incredibile di un uomo che l'odissea della Seconda Guerra Mondiale trasforma in eroe, l'impegno civile di Angelina Jolie, la più celebre di tutte le ambasciatrici di buona volontà. Sullo schermo si rivela invece un biopic grottesco, meglio, la storia di un martirio grottesco consumato durante la Seconda Guerra Mondiale. Come Nella terra del sangue e del miele, romanzo d'amore sullo sfondo del conflitto civile in Bosnia ed Erzegovina, Unbroken rivisita la Storia attraverso un destino individuale, un racconto 'edificante' orchestrato dentro un film di guerra che abusa dei codici standard del genere. Protagonista di uno dei film più belli e dolenti di Clint Eastwood (Changeling), Angelina Jolie sembra snobbare la rilevanza dell'umano e funebre dittico dell'autore americano (Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima). Due film, due fronti e due punti di vista sulla Seconda Guerra Mondiale, che smontano una mascherata collettiva. Nel primo l'eroismo US marketing, nel secondo l'assurdità di una battaglia già persa per i giapponesi, un'ultima battaglia per difendere l'onore disonorandolo. I combattimenti in Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jimasono messi in scena con il tumulto e il furore necessari, realistici ma mai eccitanti, perché quello che interessa veramente a Eastwood è il rispetto degli individui soprattutto dentro situazioni moralmente estreme. 
Diversamente Unbroken crogiola in un esercizio di autocelebrazione nazionale datata e indigesta che oppone ai bravi, belli(ssimi) e coraggiosi prigionieri americani, i soldati giapponesi, tutti ugualmente cattivi, sadici e inumani. Una crudeltà la loro che sfiora la caricatura e ignora le sfumature, producendo in faccia al vessato protagonista l'orribile sergente Watanabe, a cui la Jolie non accorda mai la tregua di un cielo limpido (e malickiano). Agito da un furore cristiano, Unbroken trabocca cliché e violenza gratuita, soprattutto nella seconda parte, quella rinchiusa nei campi di lavoro dove approda il corpo patito di Louis Zamperini, a cui la Jolie fa sopportare, con compiacenza inaudita, un inventario completo di oltraggi. 
Percosse, violazioni e torture diventano argomento esclusivo di una biografia che conferma, dopo 12 anni schiavo, un gusto (in)discutibile per il sadismo compulsivo. Centotrentasette minuti che esibiscono gli effetti perversi del male, impotente davanti all'invincibile protagonista, sopravvissuto a un attacco aereo, a un incidente aereo, alla fame e alla sete dentro un gommone alla deriva nel Pacifico, alla prigionia nella jungla, ai campi di lavoro, al gelo delle miniere, alle sevizie di un funzionario militare. Una vita fuori norma quella di Zamperini, a cui Angelina Jolie aggiunge una dimensione cristologica gravosa, come la trave che Jack O'Connell deve sollevare sopra la testa, dentro la 'scena madre' e davanti all'ufficiale di Miyavi, giovane e incisiva star pop-rock nipponica. Adattamento del bestseller di Laura Hillenbrand, "Sono ancora un uomo. Una storia epica di resistenza e coraggio", Unbroken non rende grazia alla memoria di Louis Zamperini, eroe di guerra morto il 2 luglio del 2014. Aveva novantasette anni, più pudore e più fiato della sua pallida agiografia.

 
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Burder run

Post n°12937 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

a giornalista che lavora per una televisione di impronta conservatrice ed è molto rigida in tema di immigrazione negli Stati Uniti dal Messico. Il giorno in cui intuisce che suo fratello, che opera con un organismo statale per il soccorso ai clandestini proprio sul confine, è scomparso Sophie cerca di rintracciarlo. Finisce così in Messico dove conosce direttamente e anche sulla propria pelle la sofferenza di tante persone che vedono nell'emigrazione l'unico barlume di salvezza.
Chi ha visto Sindrome cinese non avrà certo dimenticato Jane Fonda nei panni di una reporter d'assalto che si trova anche a dover modificare alcune sue posizioni ideologiche nel corso della vicenda. Ora un ruolo simile se lo assume una Sharon Stone dalla chioma corvina e dal volto segnato da un tormento interiore che, man mano che la vicenda procede, si fa sempre più acuto. 
Ispirato a fatti realmente accaduti il film ci conduce, con le cadenze di un thriller, in quel girone infernale attraverso cui passano tanti di coloro che cercano di immigrare clandestinamente in Messico superando la barriera che è stata costruita in anni recenti. Facciamo soprattutto la conoscenza con i 'coyote', loschi personaggi capaci di qualsiasi aberrazione pur di lucrare sulla sorte di esseri umani spesso abbandonati al loro destino dopo che hanno pagato per il passaggio. È quello che è accaduto e accade anche in Europa con l'immigrazione dall'Africa e dalle parti meno fortunate del pianeta. I punti deboli stanno nel personaggio interpretato da Giovanna Zacarias che finisce con l'assomigliare un po' troppo a una virago da fumetto sadomaso e nel colpo di scena finale che sa un po' di posticcio (pur affondando le radici in una pratica purtroppo comune). Resta però interessante lo sguardo che viene rivolto, pur rispettando le regole del genere, a una realtà che quotidianamente supera i confini dell'orrore.
Se Billy Zane è nel film solo per avere un nome in cartellone (fin quasi al finale non ha praticamente un ruolo se non quello di chi, legato a una catena, si divincola) Sharon Stone dimostra di saper gestire il superamento della mezza età scegliendo un personaggio che la disancori dallo stereotipo erotico che le è stato costruito addosso. Vedere la scena dello stupro per credere.

 

 

 
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American sniper

Post n°12936 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina American Sniper

Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l'abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato 'pastore di gregge', votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l'Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale. 
Come il proiettile di un tiratore scelto, "il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia ad ogni angolo di strada", diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell'ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell'evento o a funzionare qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha anticipato, addestrato e maturato, quello di David O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog(Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), di Brian De Palma (Redacted), diKathryn Bigelow (The Hurt Locker). 
Girati prima e dopo l'undici settembre, frattura storica, categoria dell'immaginario e spartiacque per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi dei (tele)spettatori. Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell'orrore che si ritrova ad abitare,American Sniper sale sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l'idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell'incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa. 
Appesantito dal peso dei colpi che mette a tiro e dalle scelte che compie il suo personaggio dietro al mirino, Bradley Cooper infila la bolla allucinatoria che la guerra soffia sui soldati e aderisce alla genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. E il sentimento di pietà che il ranger di Un mondo perfetto riservava all'uomo in fuga di Kevin Costner, Eastwood adesso lo chiede allo spettatore, sollevando Kyle dal giudizio e confermando di essere sempre in grado di cogliere il bilico tra ombra e luce. La semplicità ideologica di Kyle e la sua immediatezza comunicativa non sono prive di complessità. Kyle è un adulto pronto ad affrontare ogni prova con forza e coerenza, supportato dal sentimento e da una fede incrollabile. Diversamente dall'artificiere della Bigelow, che disarma là dove Kyle arma, lo sniper di Eastwood è in grado di ritrovare l'intima misura, il ritmo che lo lega al mondo e alla coscienza di esistere. Kyle non è certo immune al disorientamento progressivo che genera l'azione bellica e l'investitura di eroe, nondimeno è capace di ammettere le proprie responsabilità, davanti a dio e allo psichiatra, rimettendo il debito di adrenalina e riallineando le cicatrici. Ma è proprio a casa, nella sua amata patria e davanti a un marine che voleva richiamare da una non vita, che si compie la beffa e si realizza l'assurdità della guerra, ridotta da Clint a esercizio di idiozia, vedi i soldati-ingegneri sacrificati al cecchino iracheno sul muro di gomma. Se Chris Kyle, quello vero, non fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni probabilità American Sniper lo avrebbe girato un altro regista, ricettivo alla manifestazione dell'eroismo americano. Perché è proprio quel tragico epilogo a emergere tutto ilnonsenso, ad affrancarlo dal particolare e a convincere l'autore americano a farne una storia universale. 
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l'aiuto della sensibilità. Contro l'effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che vagola, che non vive ma sopravvive, Gran Torino di cui non ci si fa nulla se non lasciarla in garage, senza uno spazio in cui muoverla, senza un futuro in cui accenderla. Solo un presente in cui ogni tanto scoprirla e lucidarla, blaterando di patriottismo e trascurando le conseguenze che la sciagurata fase della politica internazionale degli Stati Uniti ha sul suo stesso tessuto sociale. 
Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull'autobiografia di Chris Kyle, squaderna un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della 'vita', un Paese che congeda con tre spari e col Silenzio un altro soldato, scomparso fuori campo e nascosto in un posto "tra il nulla e l'addio".

 
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Ogni maledetto Natale

Post n°12935 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Ogni maledetto Natale

Massimo e Giulia si innamorano a prima vista, senza sapere quasi nulla l'uno dell'altra. Quando, dopo pochi giorni di frequentazione, Giulia invita Massimo a trascorrere il Natale a casa sua, il ragazzo inizialmente rifiuta, perché per lui quella ricorrenza è "il momento più spaventoso dell'anno". Ma la nostalgia di Giulia lo convince ad accettare l'invito della ragazza, e Massimo si ritrova a trascorrere la vigilia con i Colardo, un gruppo di boscaioli del viterbese che sembrano essere rimasti fermi all'età della pietra, quanto a grazie sociali. 
Questa è solo la prima parte di Ogni maledetto Natale, commedia surreale scritta e diretta dai creatori di Boris: la seconda parte del film infatti è ambientata a casa di Massimo, dove i ricchissimi Marinelli Lops si apprestano a consumare il pranzo di Natale. Sorpresa! A interpretare i famigliari di Massimo sono gli stessi attori che interpretavano quelli di Giulia, ovviamente in ruoli diametralmente opposti.
L'idea è buona, e costituisce un interessante esperimento di cinema. Purtroppo però la sceneggiatura di Ogni maledetto Natalefa acqua da tutte le parti, a cominciare dall'incipit (perché mai Giulia, evidentemente evoluta rispetto alla sua famiglia, vuole presentarla subito a Massimo?), e nella prima metà del film fa leva su gag puerili e caratterizzazioni fortemente stereotipate che commettono il crimine peggiore, per una commedia: non fanno ridere. La seconda parte è molto migliore della prima, sia perché mescola in modo intelligente pathos e satira (mentre la prima "spara sulla Crocerossa" reiterando i luoghi comuni sui provinciali laziali), sia perché c'è una maggior comprensione - da insider, si direbbe - della "fauna" altolocata: i dialoghi migliorano, le caratterizzazioni diventano più credibili, con l'eccezione, spiritosa ma pesante, del maggiordomo filippino interpretato da Corrado Guzzanti con una stereotipizzazione etnica degna del signor Yunioshi di Colazione da Tiffany (ed eravamo nel lontano 1961...). È vero che la commedia, soprattutto quella surreale e satirica, deve spingere il pedale sopra le righe, ma deve anche avere una coerenza interna che renda quantomeno plausibili le svolte narrative e uniforme il registro comico. Invece il cast, che rappresenta il meglio della commedia italiana contemporanea (e del dramma, nel caso di Laura Morante, che infatti è l'unica a rimanere convincente pur nelle sue caratterizzazioni estreme), non riesce a suonare di concerto, creando una cacofonia che a volta lascia spazio ad assoli divertenti, ma in generale non trova l'armonia. La responsabilità non è del cast, ma dei direttori d'orchestra: o dei troppi cuochi che, come è noto, rovinano il brodo.

 
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Joy

Post n°12934 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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SE I CÉSAR PARLASSERO ITALIANO… MORETTI, SORRENTINO E MORRICONE I PIÙ AMATI ANCHE IN FRANCIA

Post n°12933 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 
Tag: eventi, news

di Laura Delli Colli

La Francia continua ad amare il buon cinema italiano. Non è una sorpresa ma la nuova ‘tripletta’ di candidature conquistata in questi giorni aspettando i César è la conferma importante di una liaison che non si smentisce. Dopo i Golden Globe e gli Oscar®, infatti, i francesi hanno candidato anche ai premi più prestigiosi di Francia tre nomi, tre grandi firme del nostro cinema, che da sempre conquistano anche gli spettatori francesi. Tra le nomination ai César, appena annunciate, ci sono infatti Mia madre di Nanni Moretti e Youth di Paolo Sorrentino (che concorrono tra i migliori film stranieri) e, di nuovo, Ennio Morricone, questa volta non per Tarantino ma per la colonna sonora di En mai fais ce qu’il te plait di Christian Carion, un film francese che non abbiamo ancora visto in Italia.

Tutti in gara ai César 2016, che verranno consegnati il 26 febbraio, proprio alla vigilia degli Academy Awards. Certo non sarà facile conquistare dopo le nomination anche il premio cinematografico più ambito di Francia: i film di Moretti e Sorrentino se la vedranno infatti con Il figlio di Saul di Laszlo Nemes, favoritissimo anche a Los Angeles,Taxi Teheran di Jafar Panahi, Birdman di Alejandro Gonzalez Iñarritù e i belgi Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco va Dormael e Je suis mort mais j’ai des amis di Guillaume e Stéphane Malandrin. Per Morricone, ormai ‘top’ nei premi di tutto il mondo,  cinquina invece con Stephen Warbeck (Mon roi), Warren Ellis (Mustang), Raphael (Les Cowboys) e Grégoire Hetzel (Trois souvenirs de ma jeunesse).

Come finirà? Lo sapremo solo tra qualche settimana, intanto per ai francesi l’Italia ha cucinato un menù di cinema d’autore, opera prime e, ovviamente, commedie occupando letteralmente per un week end fino a domenica sera il Cinema Arlequin per l’ottava edizione della manifestazione “De Rome à Paris“, rassegna ormai consolidate nelle attesa dei distributori francesi e nel suo piccolo per il nostro mercato strategica, pur in un insostenibile confronto con la super promozione di Unifrance. L’incontro con il cinema francese, accende insomma da oggi nel cuore di Saint Germain uno schermo per dare al cinema italiano, così amato a Parigi, almeno una vetrina di visibilità. Protagoniste  opere cinematografiche inedite in Francia, ma non c’è solo Checco Zalone con Quo vado?: un po’ come sugli schermi dell’ultima stagione, il panorama offerto dalla rassegna invoglia infatti i francesi ad incuriosirsi con alcuni film piccoli piccoli “Arianna” di Carlo Lavagna, “I Ricordi del Fiume” di Gianluca e Massimiliano De Serio, “Se Dio Vuole” di Edoardo Falcone, “WAX: We are the X” di Lorenzo Corvino, e ancora “Noi e la Giulia” di Edoardo Leo “N-Capace” di Eleonora Danco, “Lo Chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, e “Italian Gangsters” di Renato De Maria. Senza dimenticare “Lea” di Marco Tullio Giordana realizzato per la tv da un autore caro ai francesi e, “Dobbiamo Parlare” di Sergio Rubini, una commedia dolceamara, ‘da camera’, divertente e cattiva al punto giusto, come ben sappiamo in Italia, per raccontare due coppie in crisi nello specchio di una serata (molto) borghese . Un mood che certamente li incuriosirà…

 
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L'abbiamo fatta grossa

Post n°12932 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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L'abbiamo fatta grossa

Post n°12931 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

E' nata una nuova coppia comica?Difficile dirlo ora,ma sicuramente il risultato di questo film targato Verdone-Albanese convince ampiamente. Pur nella semplicità della storia,abbiamo un film piacevole che però sfrutta furbamente il sentimento anti-politico nazionale per raccontare fatti che possono essere reali, regalandoci anche un'interessante satira del bel paese. Le battute cercano spesso e volentieri la risata facile ma il film riesce a mantenere un ottimo ritmo. L'abbiamo fatta grossa, come gli ultimi film di Verdone, ci parla di nuovi poveri, senza prospettive di guadagno vero e il cui unico obiettivo è fare 4 soldi. Racconto della miseria umana che si accompagna alla miseria economica e i suoi protagonisti sono diventati tutte vittime di difficoltà economiche ma senza la seriosità precedente e molta leggerezza in più

 
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Creed

Post n°12930 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Difficile dire se il golden globe a Stallone sia meritato o meno vista la concorrenza; e ancora più difficile dire se vincerà l'oscar come migliore attore non protagonista; ma certo è che la sua interpretazione in Creed devo dire sorprende per la sua drammaticità e la capacità di regalare un Rocky più tragico e drammatico e fuori dalla propaganda dei film precedenti e che permette di aprire in questo spin-off una nuova saga. Creed nel complesso è un film abbastanza semplice e scontato, che copia in maniera anche sfacciata il primo Rocky. La struttura di Creed è molto semplice, basilare e soprattutto rodata, con chiara volontà di attirare i nostalgici

 
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The artist

Post n°12929 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina The Artist

Hollywood 1927. George Valentin è un notissimo attore del cinema muto. I suoi film avventurosi e romantici attraggono le platee. Un giorno, all'uscita da una prima, una giovane aspirante attrice lo avvicina e si fa fotografare sulla prima pagina di Variety abbracciata a lui. Di lì a poco se la troverà sul set di un film come ballerina. È l'inizio di una carriera tutta in ascesa con il nome di Peppy Miller. Carriera che sarà oggetto di una ulteriore svolta quando il sonoro prenderà il sopravvento e George Valentin verrà rapidamente dimenticato.
Anno Domini 2011, era del 3D che invade con qualche perla e tante scorie gli schermi di tutto il mondo. Michel Hazanavicius porta sullo schermo, con una coproduzione di rilievo, un film non sul cinema muto (che sarebbe già stato di per sé un bel rischio) ma addirittura un film 'muto'. Cioé un film con musica e cartelli su cui scrivere (neanche tanto spesso) le battute dei personaggi. Si potrebbe subito pensare a un'operazione da filologi cinefili da far circuitare nei cinema d'essai. Non è così. La filologia c'è ed è così accurata da far perdonare l'errore veniale dei titoli di testa scritti con una grafica e su uno sfondo che all'epoa erano appannaggio dei film noir. Hazanavicius conosce in profondità il cinema degli Anni Venti ma questa sua competenza non lo ha raggelato in una riesumazione cinetecaria. Si ride, ci si diverte, magari qualcuno si commuove anche in un film che utilizza tutte le strategie del cinema che fu per raccontare una storia in cui la scommessa più ardua (ma vincente perlomeno al festival di Cannes) è quella di di-mostrare che fondamentalmente le esigenze di un pubblico distante anni luce da quei tempi sono in sostanza le stesse. Al grande schermo si chiede di raccontare una storia in cui degli attori all'altezza si trovino davanti una sceneggiatura e un sistema di riprese che consentano loro di 'giocare' con i ruoli che gli sono stati affidati. Se poi il film può essere letto linguisticamente anche a un livello più alto (come accade in questa occasione in particolare con l'uso della colonna sonora di musica e rumori) il risultato può dirsi completo. Per una volta poi si può anche parlare con soddisfazione di un attore 'cane'. Vedere per credere.

 
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Revenant - Redivivo

Post n°12928 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Revenant è un film che entra in maniera diretta nell'essenza dell'uomo e nella sua natura. Storia semplice, emblematica ma ricca di particolari di un realismo crudo e disarmante. Il tutto raccontato attraverso un cuore narrativo pulsante, quasi primitivo, come l'ambiente in cui si sviluppa la storia di Inarritu. Un film straordinario, non per tutti; arricchito dalla fotografia di un fuoriclasse come Emmanuel Lubezki. Attraverso essa e le immense distese ci ragalano un film che riempie gli occhi. E che dire dell'interpretazione di DiCaprio, da oscar solo per la sua mimetica facciale. Perfino la scena dell’attacco dell’orso, completamente costruito in digitale, lascia senza fiato per naturalezza e credibilità. Un film che invita a riflettere sulla vita e sulla natura dell'uomo e sul suo istinto di sopravvivenza e di vendetta, con un messaggio religioso che esplode nel finale, sulla supremazia della natura

 
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REVENANT - REDIVIVO: GIRARE LA SEQUENZA DELL'ORSO È STATO UN INCUBO da http://movieplayer.it/

Post n°12927 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Lo stuntman che indossa la pelliccia del grizzly racconta le riprese del film di Inarritu dal suo punto di vista.

Premiato al box office e in attesa degli Oscar, ormai non è un mistero per nessuno che girare Revenant - Redivivo non sia stata proprio una passeggiata. Il film è crudo e violento ed è ambientato in location tanto suggestive quanto impervie.

 

 

Ma c'è una scena in particolare che ha creato molti problemi ai suoi interpreti: si tratta della sequenza più celebre e discussa del film, quella dell'assalto al personaggio di Leonardo DiCaprio da parte di un grizzly. La scena è tra le più impressionanti da vedere, ma secondo la testimonianza dello stuntman coinvolto realizzarla è stato un vero e proprio incubo.

In molti si sono chiesti come sia stato possibile girare una sequenza così violenta e realistica. Nonostante l'utilizzo della CGI in post-produzione, in realtà all'interno dell'orso che aggredisce DiCaprio c'era uno stuntman di come Glenn Ennis che indossava un enorme costume blu. Ennis camminava, grugniva e si comportava come un orso nel bosco. L'esperienza non deve essere stata piacevole, visto che lo stuntman ha dichiarato a Global News"Alejandro ha girato la scena in ordine cronologico, dall'inizio alla fine, per un totale di due minuti. E' stato davvero difficile, se guardate la geografia del luogo in cui si svolge l'attacco. Leo viene gettato contro un albero, si gira, rotola, prende altri colpi e poi si trascina nel terreno ... aveva tre cavi attaccati al suo corpo per tutto il tempo. Questi cavi rimanevano impigliati nei miei piedi, intorno alle sue gambe, intorno alla sua testa. Ogni movimento doveva essere coreografato con la massima attenzione per evitare di restare legati. Dopo una sessione di due minuti come questa, sei esausto e hai le gambe in fiamme. Ma devi rimetterti in piedi e ricominciare ancora e ancora".

 
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The Eichmann show

Post n°12926 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Poster

Gerusalemme 1961. Il geniale produttore televisivo Milton Fruchtman assume il regista Leo Hurwitz (finito nella 'lista nera' di McCarthy) per occuparsi delle riprese TV del processo al feroce criminale nazista Adolf Eichmann. Quello che viene offerto a Hurwitz è un lavoro dalle dimensioni epocali: per la prima volta nella storia un processo sarebbe stato trasmesso in TV e per la prima volta il mondo intero avrebbe assistito alle scioccanti testimonianze dei sopravvissuti all'Olocausto. Il risultato di questa importante operazione fu che l'80% della popolazione tedesca guardò almeno un'ora del programma ogni settimana; che venne trasmesso su tutte le reti in USA e Gran Bretagna; ma soprattutto che finalmente, dopo 16 anni dalla fine della guerra, si cominciò a parlare apertamente dell'Olocausto. Martin Freeman e Anthony LaPaglia sono i protagonisti di The Eichmann Show sulla trasmissione televisiva del processo ad Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili dell'Olocausto. Definito il "processo del secolo", venne mandato in onda in 37 Paesi e per la prima volta l'orrore dei campi di sterminio venne raccontato in diretta dalle vittime. La messa in onda di quel processo rappresenta il primo evento televisivo globale e il film racconta la straordinaria storia del team di produzione che dovette superare ostacoli di ogni tipo per poter catturare la testimonianza di uno dei più noti criminali nazisti.

  • SCENEGGIATURASimon Block
  • FOTOGRAFIACarlos Catalan
  • MONTAGGIOJames Taylor
  • MUSICHELaura Rossi
  • PRODUZIONE: Feelgood Fiction, British Broadcasting Corporation (BBC), Vistaar Religare Film Fund
  • DISTRIBUZIONE: Lucky Red
  • PAESE: Gran Bretagna
  • DURATA: 90 Min

 
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Joy

Post n°12925 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Poster

Joy è la storia turbolenta di una donna e della sua famiglia attraverso quattro generazioni: dall’adolescenza alla maturità, fino alla costruzione di un impero imprenditoriale che sopravvive da decenni. Liberamente ispirato alla vita di Joy Mangano, inventrice di prodotti per la casa di enorme successo e star delle televendite americana, Joy ci trasporta nel mondo dell'umile ma travagliata famiglia Mangano e della figlia ribelle che è partita dal nulla per creare un impero. Animata da un forte istinto creativo, ma anche dal desiderio di aiutare le persone intorno a sé, Joy dovrà affrontare il tradimento, l'inganno, la perdita dell'innocenza e le ferite dell'amore prima di trovare la forza ed il coraggio di inseguire i propri sogni. Il risultato è una commedia umana e toccante su una donna alle prese con lo spietato mondo del commercio, col caos della sua famiglia e con i misteri dell'ispirazione creativa. E sulla sua capacità di trovare, in mezzo a tutto ciò, la felicità.

 
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Leonardo DiCaprio spodesta Checco Zalone. The Revenant supera Quo Vado: primo al botteghino italiano da huffingtonpost

Post n°12924 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Ladridicinema
 

Pubblicato: 26/01/2016 09:49 CET Aggiornato: 26/01/2016 10:35 CET
COMBO

Alla seconda settimana di programmazione Revenant-Redivivo, l'epopea tra i ghiacci di Alejandro Inarritu con Leonardo DiCaprio, spodesta il supercampione di incassi Quo Vado e conquista la prima posizione della classifica del botteghino italiano, come già ieri negli Usa. Revenant ha guadagnato 3 milioni 712 mila raggiungendo gli 8 milioni 206 mila totali.

Il film con Checco Zalone, nonostante abbia perso la prima posizione, comunque continua a mietere incassi (altri 2 milioni 337 mila in questo fine settimana) e a macinare record. Ora è sopra quota 62 milioni sempre più vicino ai 65 di Avatar, il film con maggiori incassi in Italia secondo dati Cinetel.

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Il fenomeno Quo Vado? ha animato il dibattito italiano per molte settimane. Intorno al successo del film di Zalone si sono interrogati in molti, da politici a critici cinematografici alla ricerca della chiave. Tutti hanno visto nell'intelligenza politica del comico barese, la capacità di leggere la realtà sociale italiana e da Renzi a Tornatore hanno applaudito al suo linguaggio. "La democrazia cristiana del cinema italiano", ha detto Mario Sesti in un post su HuffPost, intendendo dire che con il suo cinema sia riuscito a mettere d'accordo tutti. A destra e a sinistra.

Con Revenant, invece, torna in auge la grande epopea americana. Che questo ponga fine al dibattito tutto italiano sul successo del comico barese? Forse. Fatto sta che Zalone vola ancora altissimo, diretto al record di incassi nei botteghini italiani.

 

Stabile in terza posizione il Sylvester Stallone di Creed - Nato per combattere che incassa 1 milione 282 mila e supera i 4 totali.

Ben quattro i film esordienti nella top ten: Se mi lasci non vale (1 milione 103 mila di incasso), Steve Jobs (665 mila), Piccoli brividi (428 mila) e The Pills - Sempre meglio che lavorare (357 mila).

 
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