Quando tuo figlio comincia a leggere il tuo blog....E' ora di cambiare....( blog:) )
Fessure.
Che lasciano colare il piacere.
Che fanno grondare il dolore.
Che suturano lacrime.
Che ci dipingono di sole
Che ci accarezzano di ombra.
Che filtrano la luce.
Che urlano il buio.
Che soffiano il vento.
Che ti modellano di creta e melodia.
Come il mare gli scogli.
Che ti rendono unico.
Per ogni istante che ti hanno regalato.
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Post n°8 pubblicato il 24 Settembre 2008 da fessure
(Vecchio quartiere di Nyborder, Copenhagen) Guardo fuori e mi sento tradita. Ho lasciato le mie finestre di legno azzurro da cui ammiravo file interminabili di tulipani del colore degli arcobaleni di aprile. Vieni con me, mi hai detto, sposami e guarderemo tutte le sere il mare che si specchia nel cielo, vieni con me e la notte ti saprò condurre in spazi verdi e immensi come i campi in cui respiri. Ora aspetto la tua casacca da operaio svoltare da dietro la fabbrica e le tue mani ruvide e sporche di carbone. Il sorriso di ragazzo si è spento nella fuligine dei camini di questa strada, con le case tutte uguali e le misere solitudini sollevate appena da qualche lanterna rossa sul davanzale. E’ vero, qui il mare è proprio lo specchio del cielo, ma non mi hai detto come fossero entrambi grigi, gonfi e minacciosi ed i prati verdi sognati sono stati falciati dalla fatica di lavorare e di vivere lasciando al loro posto solo brevi e sterili amplessi figli del dovere e di una birra di troppo. Sono andata a pretendere le mie promesse al porto, dove un nuovo sorriso mi ha preso fra le braccia e mi ha regalato il profumo dei tulipani di primavera e del vento che disegna la prateria come le dita di una madre fra i capelli del figlio. Ho ritrovato il piacere che si mormora e si grida nel fieno, in una casa fatiscente, ma con le lenzuola nuove del mio corredo che giacevano nella cassapanca ai piedi del letto, e quando se va non gli chiedo mai quando tornerà, perché preferisco l’incertezza di un mancato ritorno al puntuale spuntare di ciò che resta di te. Ora tu sei felice e lo sono anche io e non immagini che vi aspetto entrambi sulla sedia a dondolo che culla la mia pancia piena del vostro bambino e dei miei sogni di ragazza frantumati sotto il tacco di uno zoccolo di legno. Ora non sono più sola. |
(Vecchio quartiere di Nyborder, Copenhagen) L’ho vista che si aggirava sicura fra i vicoli del porto come una prostituta navigata e la faccia pulita di una donna di casa. Non ho potuto fare a meno di seguirla mentre la guardavo avvicinarsi al mare. L’ho abbordata sul parapetto mentre la pioggia le batteva sul viso, la cuffia, il mantello, le scarpe inadatte. Respirava la salsedine, gustandola come un bicchiere di vino del sud, come se fossero i suoi ultimi respiri prima di infrangersi sugli scogli con tutto il peso della sua mestizia. "Cosa fai qui tutta sola" le ho chiesto "Cerco le promesse che mi hanno fatto tempo fa, quelle che si sono perse in questa città grigia e spettrale". Mi ha risposto con un tono misto di rabbia e rassegnazione. Lo conosco quel tono, è quello delle beste in gabbia, è il mio quando sono da troppo tempo a terra e ho voglia di navigare, o quando sono da troppo tempo in mare e voglio approdare su qualcosa che non galleggi sull’acqua e ho voglia di una donna morbida e calda che mi stordisca le cicatrici del cuore. "Vieni con me" le ho detto "Non faccio mai promesse ma riconosco la mia stessa fame e la mia stessa sete" L’ho portata nella mia vecchia stanza che affaccia sul porto, con le pareti scrostate e le travi tarlate. Potrei dire che l’ho presa sul letto umido, ma non so effettivamente chi ha preso l’altro. Non ricordo mani così inesperte e tenere sul mio petto, baci così timidi trasformarsi in fuoco, biancheria così eccitante nella sua contrastante castità. Ora ci vediamo spesso e un giorno che non c’ero ha sistemato la camera, ha preparato il letto con le sue lenzuola, ha acceso il fuoco, mi ha lasciato una zuppa di carne cotta nella birra ed una pagnotta di pane fragrante…Ed anche se lei non mi chiede mai quando ci sarò, ho capito per la prima volta nella mia vita cosa significa tornare a casa.
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( racconto ispirato a questa foto di "Fotoraccontare": Copenhagen1 ) Non era questa la vita che le avevo promesso, lo so, e non è nemmeno quella che volevo per me. La domenica ora, la santifico con i segni della sbronza del sabato. La birra è l’unica cosa che sembra alleggerire le sbarre di questa prigione e a volte mi portano a casa talmente ubriaco da dimenticare come mi chiamo. Il lunedì lei mi guarda svoltare sull’angolo della casa ed una volta, girandomi per un ultimo saluto, mi è parso di sorprenderla in un’espressione di sollievo. E’ sprecata per me lo so, non la merito e vivo nel terrore che qualcuno me la porti via. La sua figura delicata è sempre così in contrasto sullo sfondo di questo quartiere da sembrare un angelo. Mi hanno detto di averla vista al porto e infilarsi in un palazzo sul punto di crollare con un marinaio che sembrava un vichingo. Volevo seguirla, ma ho avuto paura, paura che fosse vero, paura che nulla poi sarebbe tornato come prima. Anche se questo prima non è poi un granchè. Quelli come me, che lavorano sodo e si sporcano le mani per vivere, imparano da subito che il loro destino è disegnato storto e per quel poco che hanno devono baciare per terra. La vita ora pare ci abbia dato una tregua e quando torno a casa la sera, vedo la mia donna quieta e serena, quasi come prima. Si accarezza la pancia arrotondata, come fosse un pacco misterioso di cui non conosce il contenuto, ma sa che la cambierà per sempre. La trovo a fissare incantata l’orizzonte, con quello sguardo dolce e segreto che hanno solo le amanti e le donne gravide. Mi guardava così prima, quando ci amavamo nel fieno, con quella tenerezza che solo il dopo sa regalare, ed ora guarda questo figlio che si avvicina, ingrossando il suo orizzonte nello stesso identico modo. Non me ne chiedo il motivo, mi basta ritrovarla a casa tutte le sere, e la terra avrà il mio bacio quotidiano. |
Il tassista rimase ancora un attimo a guardare gli sconosciuti che si allontanavano. Lei scesa dal suo taxi l’attimo prima era di una bellezza che sembrava trascendere nella luce, lui fiero come un cavaliere antico. Non si toccavano. Camminavano affiancati ma gli sembrava di vedere chi si sfioravano. L’uomo scrollò la testa e si allontanò verso il parcheggio della stazione. La giornata si trascinava lenta nonostante il piacevole sole invernale. Ripensò alle scene che aveva visto o immaginato. Amori, duelli, avventure, ripensò alla sua vita. Vide sua moglie intenta a creare all’uncinetto quei centrini che esasperavano ogni mobile, la sentì gridare al suo rientro in casa: “ Cla’, le pattine! “. In ultimo vide se stesso sedersi nel divano nuovo del salotto. Sentì il frusciare della plastica che ancora lo ricopriva, abbassò la testa sul volante e pianse. Si chiese dove aveva sbagliato, lui era destinato ad un’altra vita magari come quella di quei due. Mise in moto la macchina e ripercorse la strada dove li aveva lasciati, voleva ritrovarli, vedere, capire. Li trovò in un giardino che parlavano guardando una strana scultura. Erano vivi, bruciavano dello stesso fuoco, della stessa passione, il tassista era geloso. Improvvisamente quella donna spettinata gli era parsa bellissima e non era la sua. La confrontò con sua moglie e la disperazione lo colse. La sconosciuta si volse all’improvviso guardandolo. Il sorriso divenne dolce e segreto, solo per lui. Altre visioni. Accampamenti, baracche, cieli aperti, alberghi infimi, mai una casa per quei due. Vide una sala illuminata dal camino e loro due fuori da qualche parte nella neve. Vide periodi lunghissimi di solitudine, vide l’amarezza del tempo che non conta, ma passa. Qualsiasi cosa fosse quello che li univa, li obbligava a pagare prezzi altissimi. Il sorriso della donna divenne mesto, sembrava dirgli: Vedi? E’ una questione di scelte…Hai scelto la serenità, noi no, e paghiamo. Chissà se era proprio così, chissà se davvero la felicità è una strada così accidentata , però si poteva provare….riaccese il motore e si riavviò al parcheggio. Prese il cellulare e chiamò la moglie: ” Luci’? Te devo di’ ‘na cosa. Quanno vengo a casa, nun me fa trovà un centrino che m’encazzo!… Lo so, lo so non te l’ho mai detto, ma me so’ stufato! Luci’? Butta le pattine che sennò te le faccio mangià!…. No, nun so matto no, so stufo! So stufo dei centrini, delle pattine, dei bigodini, delle ciabatte, de Biutiful!….. Si, va beh, niente più stadio la domenica ma leva la plastica dal divano!….Nun m’è successo gnente no…è che ….e poi te lo spiego….dai preparate, fatte bella…te porto a pranzo fori…” |
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