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Nonna. Il mio amore per te, che non finisce...

Post n°141 pubblicato il 23 Maggio 2008 da LaBruja70
 

Stuzzicata dalla mia adorata Nuvola, avevo deciso di partecipare al gioco di Writer. Non partecipo ma il racconto lo posto lo stesso. Purtroppo non potrei rispettare il regolamento del gioco, non ho tempo in questi giorni e non potrei commentare adeguatamente i racconti degli altri partecipanti. Ma voi andate comunque a visitare il suo blog e leggete tutti i racconti. Alcuni sono bellissimi.


No, non è stato un amore “convenzionale” il nostro. Eppure ci siamo amate dal primo sguardo, eppure è una delle forme di amore più puro che io abbia mai conosciuto.
Da piccola mi tenevi sempre con te, mi venivi a prendere all’asilo e poi, in seguito, a scuola. Mi portavi da te e aspettavamo che mamma tornasse dal lavoro e venisse a riprendermi.
Poi, quando diventai un pochino più grandicella, ebbi il permesso di tornare a casa da sola, mi faceva sentire grande, più grande di tutti gli altri. In realtà la scuola era vicinissima a casa tua, dovevo solo attraversare un grande prato, che allora era totalmente lasciato allo stato brado ed ora, invece, è stato trasformato in un bellissimo parco giochi per bambini.
Tu uscivi sul balcone, nel momento esatto in cui io uscivo da scuola, con la mia cartella sulle spalle. Mi seguivi con lo sguardo durante quella mia traversata del prato, erano si e no 3 minuti a piedi ma a me sembrava un viaggio… da sola… ero indipendente, autonomoma. Ero GRANDE!
Poi salivo da te e pranzavamo insieme, sotto lo sguardo severo del nonno, che non capiva cosa avessimo sempre da ridere, da raccontarci, da sussurrarci senza che lui potesse sentire. Ricordo che spesso, quando mamma veniva per riportarmi a casa, io non volevo seguirla. Volevo stare con te. Lei ci rimaneva male ma io non capivo… ci rimaneva male anche quando mi sentiva mentre ti chiamavo Mamma, ma io sapevo chiamarti solo così. Lo so, lo sapevo che eri la Nonna, ma per me eri la Nonna, l’Amica, la Complice e anche la Mamma. Non ho mai smesso di chiamarti così, fino alla fine…In realtà anche oltre la fine, quando parlo di te ti chiamo spesso ancora così.
Tu hai sempre capito, tu prima di tutti, il mio spirito ribelle, il mio dover essere sempre contro, il mio modo di fare, spesso sconclusionato, che aveva come unico scopo quello di attirare l’attenzione. Hai sempre capito la mia fame di libertà. Lo hai sempre capito perché eri esattamente come me. Tu sapevi esattamente quello che pensavo, quello che mi faceva soffocare, quello che mi faceva scappare via. Mi coprivi con mamma e papà, ogni volta che volevo “evadere” e ancora non mi permettevano di farlo. Dicevi che stavo da te, a casa… io invece stavo in discoteca, con gli amici, la domenica pomeriggio. Passavo da te, mi truccavo, mi vestivo “da grande” e via… a godermi i miei anni più belli!
Poi tornavo a casa tua, mi struccavo, rimettevo i jeans e tornavo a casa, completamente ripulita.
Quante risate con te nonna, mi divertivo di più a stare con te che con le amiche. Eri sempre perfetta, non uscivi di casa se non eri vestita benissimo e perfettamente truccata, andavi dal parrucchiere una volta a settimana, sempre in ordine. E lo hai fatto fino a quando ti è stato concesso di restare qui … ricordo quando ti hanno portato in ospedale, in barella. E’ stata l’ultima volta che hai visto la tua casa, non ci sei più tornata. Ma prima di farti mettere sull’ambulanza, mi hai “intimato” di prenderti un golfino decente, perché con quello che tenevi in casa non ti potevi presentare in ospedale, “non stava bene”. Al pronto soccorso ti ho sistemato i capelli, sapevo che odiavi non essere perfetta… ed eri proprio così, perfetta, anche con il femore rotto, anche mentre quei tuoi occhi celesti meravigliosi si riempivano di lacrime per il dolore, anche mentre mi dicevi “lo sento amore, io non uscirò mai più da questo posto”. Ed è proprio così che è andata.
Hai vissuto ogni giorno della tua vita, l’hai divorata la tua vita. Anche quando non si doveva, anche quando non si poteva. Ero l’unica, tra tutti i nipoti, a sapere tutta la verità.
Tu, bellissima, di una bellezza disarmante. Di gran classe, lavoravi in Galleria Vittorio Emanuele, il salotto di Milano… parliamo della fine degli anni ’30, inizio anni ’40., stavi in un negozio di lusso, frequentato solo dalla Milano bene. Poi conosci il nonno, bellissimo anche lui, ma così diverso da te… poiché la ragione non conosce le ragioni del cuore,te ne innamori, follemente. Sei già incinta quando vi sposate, per i tempi era uno scandalo. Lui ti portò via, via dal tuo salotto in centro, via da tutta quella gente di classe, via dalla tua Milano, che amavi tanto.
Ti portò in un paesino sperduto, dove l’unica occupazione era quella di curare gli animali. Tu arrivasti vestita con abiti alla moda, con il rosso sulle labbra e sulle unghie, con i tacchi… le donne del paese, quando tu passavi, chiudevano le persiane delle finestre, pensavano fossi il demonio! Ovviamente nessuna di loro ti rivolgeva la parola, figuriamoci se potevano farlo i loro mariti…
Furono giorni durissimi ma tu camminavi fiera e  non ti piegasti mai!
Non rinunciasti mai ad essere Donna, ad essere Femmina. Curavi gli animali, ma continuavi ad essere perfetta, pur rinunciando ai tacchi.
Poi il nonno in guerra, 3 anni prigioniero chissà dove senza nessuna notizia, ti dissero che era disperso, poi morto… tu con un bambino piccolo e sola, tornasti nella tua Milano, che non avevi mai smesso di amare.
Conoscesti un altro uomo, decideste di fare un figlio, una figlia per l’esattezza. Ma poi, un giorno, dal nulla, il nonno tornò. Tu amavi "l'altro", ma il nonno era tuo marito, tornasti con lui. Suppongo lo facesti perchè "dovevi"!
La vostra vita insieme ricominciò dove l’avevate abbandonata, tu, il nonno, il vostro primogenito e la piccola.
Poi arrivarono altre due bambine, l’ultima è la mia mamma. Forse per questa vita un po’ sopra le righe che avevi condotto, forse perché avevi provato sulla pelle cosa significano i pregiudizi della gente, il pettegolezzo, la cattiveria di chi non sa, di chi ignora ma sputa sentenze, forse perché avevi dovuto più e più volte reprimere quello spirito libero che gridava forte dentro di te. Forse per tutte queste cose eri così straordinariamente aperta mentalmente, capivi ogni mio colpo di testa, mi parlavi, mi facevi ragionare, ma non colpevolizzavi né giudicavi mai.
Tutto si è concluso in una freddissima e piovosa mattina di ottobre. Io lo sapevo, lo sapevo da quando ti avevo salutata con un bacio la sera prima che non ti avrei rivista… non viva almeno. E lo sapevi anche tu, ne sono certa. Non volevo andarmene quella sera, non riuscivo a staccarmi da te, rimasi in ospedale fino a tardi. Accarezzandoti e parlandoti. Gli altri pensavano che tu non potessi ascoltarmi, io so perfettamente che hai sentito e compreso ogni parola, ogni gesto.
La mattina, quando dopo la telefonata di mia mamma ho raggiungo guidando come una pazza l’ospedale, eri già andata via, non sei riuscita ad aspettarmi. O forse, chissà, semplicemente non hai voluto, non te la sei sentita. A volte penso che non saresti mai riuscita a dirmi addio, per questo motivo non hai aspettato che arrivassi. Ed io, nemmeno io sarei riuscita a lasciarti andare.
Probabilmente hai pensato che sarebbe stato straziante per me, guardarti mentre te ne andavi per non tornare…
Non è una storia d’amore convenzionale, non finisce bene. Non finisce bene perché il cerchio della vita deve in qualche modo chiudersi. Ma in effetti, come nella miglior tradizione, gli amori veri, non finiscono mai.
Ed io, di amarti come ti ho amata da bambina, mentre mi guardavi dal balcone, non ho mai smesso, nemmeno un attimo. Nemmeno ora che, fisicamente, non ti posso più abbracciare.


 
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